Il paragone con le edizioni precedenti non dovrebbe essere uno strumento preponderante nell’esprimere opinioni su una Biennale di Venezia, ma anche sottraendosi a questo gioco, è indisputabile che la 53ma edizione, intitolata “Fare Mondi” e diretta da Daniel Birnbaum, rappresenti un capitolo, a conti fatti, riuscito della recente storia della rassegna veneziana.
Birnbaum del resto partiva in vantaggio. L’aver co-curato insieme a Francesco Bonami “Ritardi e Rivoluzioni”, la mostra nel Padiglione Italia nel 2003, gli aveva già conferito una certa familiarità con gli spazi, oltre che con le fumose dinamiche che puntualmente accompagnano Venezia. Se si aggiunge poi che la Biennale si è svolta pochi mesi dopo la seconda edizione della Triennale di Torino — banco di prova sulla piazza italiana, che Birnbaum ha diretto uscendone relativamente indenne — e la Triennale di Yokohama, affiancandosi alla normale attività di Portikus e della Staedelschule a Francoforte, si evince che Birnbaum ha trattato Venezia esattamente come uno qualsiasi dei suoi numerosi impegni. Un calendario così intenso può forse destare qualche legittima perplessità, ma in effetti tale convergenza di eventi è più un indicatore della politica eccessivamente cautelare di certe istituzioni che dello snobismo o della presunzione del curatore, il quale si è trovato nella posizione invidiabile di poter affrontare la cosa con la consueta calma e lucidità, svincolato dai desideri di rivalsa che hanno rovinato Robert Storr nel 2007 e dalle futili pressioni mediatiche modello “prime donne che curano una biennale”, che hanno segnato Rosa Martínez e María de Corral nel 2005. A rendere il cielo più sereno ci ha pensato infine il tanto declamato Padiglione Italia, che ha fatto il suo ritorno convenientemente lontano dai Giardini, lasciando a Birnbaum via libera nello spazio centrale. Quest’ultimo, ribattezzato Palazzo delle Esposizioni, sebbene non regali particolari impennate è il biglietto da visita ideale di “Fare Mondi”, titolo che ruota intorno al semplice quanto fondamentale concetto che ogni opera d’arte rappresenta una visione del mondo. Birnbaum è un curatore autenticamente transnazionale: cita un pilastro del dibattito sull’identità geografica come Edouard Glissant e si muove agilmente nei meandri dell’arte americana ed europea con una metodologia aperta e scientifica, che gli permette di avventurarsi con successo anche in territori a lui teoricamente meno familiari come l’Asia, l’America Latina o l’Italia, qui ottimamente rappresentata dalla pittura di Alessandro Pessoli e di Pietro Roccasalva e dallo spazio didattico interpretato da Massimo Bartolini.
Un altro elemento che emerge è la propensione di Birnbaum a mescolare le carte, lavorando in termini transgenerazionali e ragionando senza ansie da scoop o da mercato. Ci sono, è vero, dei segni di cedimento lungo la strada (il Leone d’Oro attribuito alla caffetteria ideata da Tobias Rehberger è stato un passo falso), ma la sensazione generale è quella di trovarsi davanti a una mostra sostenuta da un impianto teorico solido e accettabile nell’insieme, anche quando si dissente sui dettagli. Non viene spontaneo reclamare l’assenza di un artista in opposizione alla presenza di un altro, e anche la scelta di ripescare nomi storici non proprio di grido come Tony Conrad o Blinky Palermo non pare viziata dalla recente tendenza a improvvisarsi talent scout guardando al passato anziché al presente, contribuendo invece intelligentemente al discorso globale.
Sulla scia della metodologia lanciata da documenta 12, ci sono anche artisti che ricorrono in maniera “virale” in diverse sale, come Rachel e Toba Khedoori e Richard Wentworth.
La tendenza ad accostare lavori troppo simili o comunque in concorrenza tra loro, o a dedicare spazi esagerati ad altri è forse uno dei pochi difetti imputabili a “Fare Mondi”. Nel Palazzo delle Esposizioni è una faccenda che riguarda soprattutto Wolfgang Tillmans — intorno a cui ruota comunque un consenso tale che sicuramente non spiacerà a nessuno — e Nathalie Djurberg, che ha integrato i suoi video con un notevole giardino scultoreo.
Nell’Arsenale tocca invece all’installazione macroscopica — al punto da perdere tutta la sua forza — di Pascale Marthine Tayou, o alla bella scultura di Falke Pisano, danneggiata dalla vicinanza con il labirinto di Cildo Meireles.
Proprio l’Arsenale, spazio difficile e prova del fuoco per ogni direttore, è invece quello che regala maggiori sorprese. L’apertura solenne e cupa di Lygia Pape seguita dalla fragorosa performance di Michelangelo Pistoletto e dalla caustica presa di posizione sul turismo veneziano di Aleksandra Mir formano un’apertura spettacolare, che dà il ritmo giusto alla mostra, facendo dimenticare l’imbarazzante installazione di Luca Buvoli o i capricci delle Guerrilla Girls che hanno funestato le ultime due edizioni. È soprattutto la video arte, mezzo solitamente penalizzato in questo tipo di manifestazioni, a meritare attenzione. Singspiel, il lavoro di Ulla von Brandenburg, è un’elegante ripresa unica in bianco e nero che esplora momenti di vita comunitaria e solitaria di un gruppo di personaggi all’interno di una casa progettata da Le Corbusier. L’adunata finale si svolge nel giardino sul retro, dove una recita funebre accompagnata da una ninna nanna interpretata dall’artista si conclude con un sipario, a simboleggiare la teatralità dell’opera e della vita stessa. Keren Cytter lavora su premesse formalmente simili anche se con uno stile completamente diverso. I personaggi di Elise Valentin Wilhelmine, film ispirato a Opening Night di John Cassavetes, si muovono nervosamente in un contesto cupo e claustrofobico. La presenza diretta del pubblico durante le riprese — a Venezia ricreata attraverso un’installazione ad anfiteatro — aggiunge un’ulteriore nota di tensione. Cytter sembra voler mettere in scena l’altro lato della medaglia del vouyerismo che domina il panorama dei reality show. È impossibile seguire le vicende dei suoi personaggi senza fare i conti con un crescente senso di inquietudine.
In antitesi con l’installazione di Tayou, Ceal Floyer dimostra come la monumentalità possa essere una condizione valida se non è fine a se stessa. Il gigantesco bonsai riprodotto in chiusura del corridoio centrale tocca un tema d’attualità come il destino del pianeta, senza scivolare nell’ovvio o nel paternalista.
“It’s Not You, It’s Me”, il Padiglione degli Emirati Arabi, a cura di Tirdad Zolghadr, e quello dell’America Latina, curato dalla compianta Irma Arestizábal, forniscono un piacevole intervallo. Il primo, pur cadendo in qualche trappola di stampo esotico-turistico, regala dei buoni momenti grazie al suo originale percorso e agli splendidi lavori concettuali di Hassan Sharif. Il secondo è la dimostrazione di come esista un’arte latino-americana che sa parlare al mondo senza dover per forza ricorrere a visioni splatter.
La parte finale, solitamente dispersiva, è invece per una volta più gestibile. Suggestivo il corridoio di Pae White, che ricrea un ambiente naturale nella giungla post-industriale delle corderie. Discreta e intelligente la scultura di Lara Favaretto. Deludente invece il Padiglione cinese. Molto più interessante, in quest’ottica, quello di Hong Kong, che pur essendo ottimamente situato all’ingresso dell’Arsenale, avrà certamente attratto meno visitatori.
Complice anche il clima del momento, è difficile che la Biennale di Birnbaum venga salutata come un evento indimenticabile nell’immediato futuro. In tempi di crisi si ha la tendenza a invocare stati di emergenza, e una risposta sobria e silenziosamente articolata come quella presentata da “Fare Mondi” non va d’accordo con quelli che pensano che una mostra di questo taglio dovrebbe essere meno “mono-dimensionale” e sismicamente più agitata. La sua consistenza è un valore che emerge alla lunga distanza, ed è indubbio che il tempo la annovererà tra le biennali più riuscite.