Antonio Grulli: Partiamo dalla tua casa, che mi sembra il fulcro e la sorgente di tutto il tuo lavoro. È una caratteristica che ti accomuna ad altri artisti, non solo italiani (penso ad Andrea Zittel, per esempio), che fanno del luogo della propria vita la sorgente di una produzione artistica. Hai fissato la tua abitazione in un luogo molto appartato, difficile da raggiungere, un paesino praticamente abbandonato dell’Appennino bolognese . Ho già scritto in passato che c’è quasi una dimensione appenninico-partigiana in questa tua posizione (non solo nel senso geografico, ma anche come “posizione” rispetto al mondo dell’arte). Mi piacerebbe che tu parlassi di queste cose, anche alla luce dell’intervento che stai compiendo sull’esterno della casa, sulla sua pelle, rendendola a tutti gli effetti una gigantesca scultura abitabile.
Flavio Favelli: Ho abitato in centro a Firenze, e per trent’anni in via Guerrazzi a Bologna. Mai avrei pensato di finire in un ex fienile sull’Appennino con un piccolo cimitero alle spalle. Da quassù si vede il cielo di Bologna, l’inizio della pianura padana con la sua riga grigia; alla fine vedo che è meglio tenere la città a distanza. Più che partigiano comunque direi mercenario, perché nell’arte — mi sa più che nella vita — si è soli. Non c’è nessuna parte da tenere se non fare i conti con se stessi. Da un certo punto della mia vita in avanti mi sono ritrovato nella testa tante immagini e ricordi del mio passato e della mia famiglia, molte ombre, e l’arte è una sede privilegiata per l’ombra. Ci ho messo trent’anni per capire che nella mia vita c’erano delle questioni che andavano affrontate e soprattutto sviluppate. Ho pensato: se inizio a dare forma alle immagini che ricordo in modo così preciso, magari rimetto tutto in gioco e il mio passato inizia a rivivere con il mio presente. E tutto questo, in una casa isolata, è più semplice. Per tutto ciò provo piacere e non mi stanco mai. Mi chiedo continuamente che tipo di piacere sia, ma non se questa sia la sede adatta. Oggi c’è il vizio di prestare attenzione alle opere e ai progetti con un pensiero più “universale” e più “relazionato” ai problemi contemporanei. Tutti si tengono alla larga dalle opere “autoreferenziali”. Non sono mai riuscito a comprendere gli artisti che si rapportano all’arte in termini generici: chi si ispira alla tele di ragno e ne fa un modello in 3D, chi è interessato a fare poesia con la geometria, chi a far dire la verità alla materia, o chi evoca l’immagine cosmica di uno spazio stellare. A me sembra sempre di vedere il mio passato con mia madre, mio padre, il mio paese, con le stesse date e tutti gli oggetti che rimangono, e il tempo che si accorcia sempre di più. Per me la questione è andare fino in fondo alle mie immagini, che spesso sono anche i miei abissi. Mi ostino a ricreare e ricostruire oggetti e luoghi del mio passato. Ora sto lavorando alla bottiglia di Fanta con il vetro arancione scuro che beveva mio padre per digerire, e a Sandokan, lo sceneggiato del 1976. Tutte le volte che rivedo la sigla mi scorre davanti una serie di immagini talmente intense che ho la necessità di riproporle. Il progetto che ho realizzato per casa mia è una specie di copertura permanente che assomiglierà a una grande baracca-mausoleo, un torrione di avvistamento, con i tartari che non arriveranno mai.
AG: Ti voglio fare una domanda che forse è già un’ipotesi di mostra. Nel senso che, pensando al tuo rapporto con l’abitazione, mi è venuto in mente come esistano delle affinità molto forti tra te e Giorgio Morandi: c’è l’abitazione-studio come base delle proprie opere; gli oggetti della casa come uno dei soggetti privilegiati del proprio lavoro; il fatto che entrambi avete avuto due abitazioni centrali nella vostra vita, una in centro (tra l’altro la tua casa in via Guerrazzi e la sua in via Fondazza saranno a duecento metri di distanza) e l’altra nella collina bolognese; ma anche una certa atmosfera sospesa e metafisica. È come se nel tuo lavoro fosse possibile trovare una continuazione ideale della linea tracciata da Arcangeli nel testo Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana, che si fermava appunto a Morandi. Pensare che tutto questo è nato al centro sociale Link (uno dei luoghi maggiormente innovativi in Europa negli anni Novanta, e di cui tu sei stato uno degli animatori), dove hai realizzato le tue prime opere, è davvero interessante.
FF: Anni fa ho iniziato a comprare nei mercatini e da librai antiquari poster sulle mostre di Morandi. La prima volta che ne ho sentito parlare è stato da bambino, da mia nonna, ed è stato il primo artista vivente di cui ho sentito parlare. Sì, ho abitato per trent’anni in via Guerrazzi che è una specie di spartiacque fra via Santo Stefano, trafficata e nobile che porta alle Due Torri, e via San Petronio Vecchio, sempre deserta, un po’ dimessa, con i portici umidi che sanno di piscio di cane. È una parte quasi immobile di Bologna. C’è una Grande Natura Morta con undici oggetti in un tondo che sembra disegnare questo piccolo mondo, fra i portici e il silenzio delle domenica. Ma le bottiglie di Morandi non sono senza tempo, si fermano all’era della pubblicità, dopo vengono le etichette e io sono legato alle bottiglie perché hanno le etichette, perché sono cresciuto con quelle, e nella bottiglia con l’etichetta c’è questa sintesi fra forma pura e messaggio mondano, come se l’eternità fosse violata. Come le bottiglie disegnate da Dalì e regalate con il Rosso Antico — la Metafisica per vendere di più; le raccolgo da tempo, come quelle di Martini, Fanta e Coca Cola. Amo le bottiglie perché c’erano sempre in casa e c’erano perché lo diceva il costume e la pubblicità. Erano gli unici oggetti — alla stregua di una statua d’avorio o di un vaso cinese — con dei messaggi moderni ammessi nel salotto. Sono dei cavalli di Troia che rompono con una certa idea di casa piena di mobili impero e dove tutto è perfetto; l’unico oggetto diverso era la bottiglia di vermut con scritto “Martini Racing”! Hai ragione, ho sempre pensato, ma mai in modo concreto, a un’ipotesi di mostra, più che con Morandi, con Bologna e Morandi.
AG: Parlando di casa e di vita non è possibile non parlare di performatività. Una dimensione sempre presente nelle tue opere, anche quando non prevedono performance vere e proprie come quelle che realizzavi negli anni addietro. I tuoi oggetti sono fatti quasi sempre per essere utilizzati, e molte tue opere e installazioni mantengono una dimensione teatrale e performativa molto forte. Ma questo aspetto è interessante soprattutto se collegato alla visione della performance che può avere un critico come Catherine Wood e alcuni degli artisti che sono al centro della sua ricerca: quelli maggiormente legati al lavoro sulle immagini della memoria. Penso quindi ad artisti come Pablo Bronstein, Mathilde Rosier, ma anche a Markus Schinwald o Kai Althoff. Come si sviluppavano queste performance, e perché hai smesso di farne?
FF: Le performance che ho fatto si intitolavano La Vetrina dell’Ostensione, e le ho iniziate nel 2001. Le prime tre a Bologna: in un ex negozio in via Rialto, a casa mia in via Guerrazzi (stavo a piano terra, il pubblico saliva su un ponteggio che avevo fatto e vedeva dalla strada), e la terza in un bar del centro, l’Inde le Palais. La quarta nel 2004 a Venezia, sempre in un bar, il pubblico si sedeva sui gradini di un ponte e guardava. Sceglievo un posto con una vetrina sulla strada e poi lo riempivo di cose, oggetti, piccoli arredi, mandavo qualche invito via posta, spargevo la voce e poi il giorno x dalle 19 alle 23 mi mettevo dentro, di solito con altre persone a cui chiedevo la presenza o di fare certe cose. Chiamavo loro per movimentare la cosa ma in realtà li ignoravo. Cercavo di fare tutto quello che ho fatto fin da bambino davanti allo specchio. Dietro lo specchio c’è sempre stato un occhio che mi guardava e allora lo sfidavo. Mi sentivo sempre guardato, mi vestivo, mi svestivo, mi travestivo. Nelle performance avevo trovato un occhio ancora più intenso: il pubblico, che passava e si fermava a guardare. La vetrina era una finestra, una lente. Quelle quattro ore erano una specie di momento dilatato dove alla fine la stanchezza si faceva sentire. Cercavo di rifare le immagini che avevo — e che ho —, quelle vissute e quelle mentali: atteggiamenti, azioni, vestiti, cerimonie. Nel 2001 ho scritto: la vetrina è uno specchio, è il mio specchio. Questo specchio funziona solo se al di là c’è il pubblico… quando ero piccolo era importante la presenza di mia madre, il resto contava poco. E poi: sono sicuro che arriverò alla Vetrina dell’Ostensione L, che sarebbe la numero cinquanta. Dopo quattro vetrine mi sono fermato, altro che cinquanta. Anche se non mi sento di aver smesso, ho preso solo una lunga pausa, chissà la numero V dove sarà.
AG: Questi piccoli movimenti, questi piccoli “fatti” mi fanno pensare anche che le tue opere spesso, se non sempre, funzionano come degli aneddoti, delle piccole storie che contengono dentro di se una verità, nel tuo caso poetica. È come se le tue singole opere fossero oggetti capaci di rivelare, in uno spazio ristretto, molte cose. E hanno qualche cosa di linguistico, anche quando si tratta di sculture, perché sono dei collage di pezzi diversi che formano una frase-scultura. Ci ho pensato perché spesso quando siamo insieme, anche durante le chiacchierate con Davide Ferri, ci piace molto raccontare aneddoti o usarli in maniera esemplificativa. E tu nelle interviste o nei tuoi testi racconti tantissimi aneddoti della tua vita o della vita di coloro che ti hanno incrociato.
FF: Ultimamente ho letto il libro di Emanuele Trevi, Invasioni controllate, scritto con suo padre Mario. Se ho capito bene è una lunga intervista al padre psicanalista negli ultimi anni della sua vita. Si sente che prima o poi qualcosa finirà, si parla di rimpianti, si tirano le somme. Si racconta tutta una vita, immagini, ricordi, fatti, aneddoti, persone. Amo la solitudine degli oggetti che creo e il silenzio e il vuoto degli ambienti che progetto. A volte penso che le opere che faccio comprendano le persone che non sono mai manifeste, ci sono solo le loro ombre. Uso gli oggetti perché sono depositari del ricordo delle persone, e quando dico persone intendo quelle della mia famiglia o quelle che ho conosciuto e che hanno rappresentato qualcosa per me. Tutte le mie opere o sono oggetti o rappresentano oggetti, luoghi, scritte, ma mai figure o persone. Non ho mai amato la pittura e la scultura figurativa, tutta la Transavanguardia per me è una gran brutta roba. Diversa è la fotografia. Ultimamente ho fatto un collage con dei manifesti di Sandokan e Maradona insieme, ma sono immagini, non sono persone, sono luoghi, sono mondi, sono eroi dei due mondi e soprattutto hanno a che fare con la mia famiglia e la mia storia. Mi parli degli aneddoti… Forse c’è un data che è una cesura epocale. È il 1993, su tutti i cartelloni per la strada c’era la pubblicità della Fiat: “La risposta. Punto”. Per la prima volta i fari posteriori sono in alto, verticali, tutto è cambiato da lì. L’anno prima c’era stata Capaci, con le Croma sbragate, le ultime ammiraglie. Capii che tutto stava iniziando a finire.