Nel 2011, rispondendo a una domanda sulle motivazioni che lo spingevano ad affidare il proprio ruolo critico alla produzione artistica, Francesco Fonassi identificava il motivo della sua ricerca con “il non accettare, senza polemiche, praticamente nulla del modo in cui gli individui si relazionano gli uni agli altri, di come costituiscono una pluralità”.
Dando vita a delle vere e proprie occasioni di verifica delle dinamiche di ricezione sonora e dei meccanismi della percezione uditiva — nonché del loro ruolo nelle formazioni intersoggettive — Fonassi si spinge con approccio sperimentale nelle maglie teoriche della cultura sonora, sondando il modo in cui essa ha esteso le proprie implicazioni e descritto soglie antropologiche e sociologiche.
Un lavoro stratificato e complesso, edificato sull’interferenza con le condizioni abituali dell’ascolto e con la fisiologia delle soggettività percettive, che s’interroga su come un “virtuale” possa modificare le modalità d’interazione umana, agendo come impulso di ridistribuzione delle forze in gioco sullo scenario collettivo. Fonassi sceglie l’universo sonoro per la sua natura lucidamente suicida, il senso di perdita e di sottrazione incrostato nella sua essenza, la sua propagazione intrusiva, oltre che alla sua nettezza e inequivocabilità. I fenomeni d’eco, di risonanza, di riverbero e filtraggio sono infatti ognuno un’analogia e insieme un’attivazione di questioni relazionali, dinamiche di resistenza e di neutralizzazione reciproca.
Nei giorni 19, 26 marzo e 4 aprile 2011 cinquanta interventi audio — trasmessi via radio su modulazione di frequenza 100.1 Mhz da una cabina e amplificati sulla cima di Torre Everest, a Vicenza — vengono ascoltati da ottanta metri d’altezza. Le frequenze di trasmissione appartenevano a Radio Star, una delle prime radio libere degli anni Settanta che trasmetteva dallo stesso edificio. Senza criteri di selezione, viene aperto un canale di comunicazione limitato. Più di trecento persone salgono sulla cima e ascoltano gesti sonori e parole che, nell’ipotesi di Fonassi “raccontano la contingenza stessa dell’essere presenti a una comunità”. Testando la ritualità della condivisione tramite storytelling e interventi sonori eterogenei, con il progetto Everest FM 100.1 Fonassi mette a verifica prossimità e conflitto, con i quali costruisce un gruppo d’ascolto a fini puramente sperimentali.
Lungi dal volersi arrestare a una ricerca strutturale sul suono e sulle sue potenzialità prettamente fisico-acustiche, Fonassi fa dell’indagine sugli immateriali una pratica spaziale context aware che spinge a re-immaginare quell’“amicizia senza familiarità” che caratterizza la moltitudine. Le azioni sonore — il cui il sottotesto teorico getta le sue radici nella concretezza sociologica di Paul Virilio e nella teorie practice-based di Brandon Labelle — diventano allora mezzi ermeneutici che, inserendosi in ambienti mediali già saturi e completi, svelano in filigrana (e forse cercano di sovvertire) clausole disciplinari o suggerimenti di autocontrollo.
La volontà di Fonassi di alterare, interrompere o implementare fino al collasso paesaggi sonori già normati rivela una tensione verso qualcosa che non esiste mai. Ed è proprio questa missione inconcludente che porta in superficie il senso politico della sua ricerca, un senso, che come ricordava Lyotard nel 1973, è ancora da determinare e che forse resterà, o deve restare, sempre da determinare. Il coefficiente politico dell’impresa artistica di Fonassi sta dunque in questa “frantumazione dal basso”, in questo sabotare i meccanismi, in una ricerca adesa alle dinamiche e alle polemiche intersoggettive, interessata a determinare gli spazi di gioco, le intensità e i sostrati emotivi delle energie sociali.
Con Temporale (2011) — intervento scomposto in due spazi attigui, uno dove 40 microfoni vengono trascinati al suolo e l’altro vuoto, dove si riversa il suono — e 32 rpm (falèna) presso Auditorium Parco della Musica di Roma (2012), Fonassi libera la scena: i luoghi sono sgombri e le fonti sonore occultate, dispositivi grazie ai quali può permettersi di soppesare il valore d’espansione della figura-suono, la sua emissione e il modo in cui si disloca e circola nello spazio gonfiandolo o sottraendolo dall’interno.
Muovendosi dal tellurico roboante fino a suoni sottili e infingardi, passando per tappeti sonori magmatici, il morphing sonoro messo in atto da Fonassi non si manifesta nello spazio come una banale pratica di disorientamento ma si concentra piuttosto sul potenziale di riconversione — effettiva o simbolica — del paesaggio sonoro che decide di alterare. Le installazioni perforano le metastasi della struttura, della memoria e della funzione del luogo che le ospita, fornendo al fruitore strumenti per misurarlo e misurarsi in relazione a esso. Sospendere, mettere tra parentesi un luogo o una condizione tramite intrusioni più o meno massicce permette di rettificare soglie percettive, incrinare meccanismi culturali e di costume ed eventualmente sopprimere alcune normatività. Fonassi descrive il suo lavoro come un puctum a censure e limiti non visibili spostando il focus su come il suono fa architettura, non solo fisica ma anche sociale. Ovvero come un’immateriale occupa lo spazio, come un’invisibile si fa largo tra i volumi, come esso provochi commistione di regimi acustici e visivi e come sviluppi, oltre alla sensibilità spaziale, anche una certa allerta al rischio.
Nel 2010, con il display secco e dichiarato di Zabranjena Tišina (Forbidden Silence), Fonassi rende presente il suono — proprio nella sua assenza — come mezzo intrusivo e corrosivo, rendendo chiara ed evidente la sua eventuale capacità di incrinare uno spazio istituzionalizzato, regolato, simbolizzato o semplicemente di misurarne l’intensità, la densità e i gradi della sua frequentazione. In questa funzione “disturbante” il suono su cui lavora Fonassi sembra volersi confrontare con la percentuale di riempimento del paesaggio, in cui spazio fisico e ambiente sonoro sono accomunati dalla medesima impossibilità di essere vuoti e neutri. Ogni lavoro di Fonassi redige una nota sui processi di assorbimento e condivisione dei luoghi, ma soprattutto su quegli impercepiti sistemi di censura che Mark Wigley segnalava nella discrezione e nell’estremo funzionalismo dello spazio pubblico moderno.
Totalmente immerso in questa strategia dell’interruzione, il progetto trifasico Ir, shoot for isolation (2012-2012) interviene sulle fisiologiche gerarchie del “vivere insieme” e pensa all’azione sonora come luogo dell’esporsi. Declinando in diverse formalizzazioni il rumore di un colpo di pistola in ambiente chiuso (dalla registrazione in una piazza e in una chiesa e successiva diffusione fino all’esecuzione live di tre colpi presso il CoCa di Torun), esso palpa la viscosità emotiva e psicologica di uno spazio messo in tensione tramite un suono improvviso e connotato. Oltre a far emergere un territorio acustico inedito, gli spari installano un principio di attrazione e repulsione nei confronti dell’atto performativo e della sua “promessa politica” (J. Butler).
Ed è proprio questa complessità del localizzarsi che segna la struttura di Kollaps – Aufstieg,(2012), intricato lavoro audiovisivo presentato al MACRO a chiusura della residenza di Fonassi presso Pastificio Cerere, in cui il motivo dell’antropizzazione dello spazio installativo fa ritorno dopo Aerial (2012) moltiplicando la forza d’affermazione dello speech act con un gestualità vocale ipertrofica.
Emergere e affermarsi, come un suono, corrispondono a un richiamo alla responsabilizzazione, a quel “dovere della paura” che Jonas interpretava come un solido posizionarsi, un prendere corpo per poi eventualmente farsi riassorbire.