Giorgio Verzotti: Per cominciare, il doppio. Inizierei con la bella idea dei due Gennari, uno che pensa e l’altro che esegue e, oltre a eseguire, parla anche ma non ha mai molto da dire perché il nucleo creativo e l’intuizione appartengono al primo Gennari che naturalmente non parla.
Francesco Gennari: Nel 1995 feci un’opera costituita semplicemente da un foglio di carta bianco al centro del quale scrissi: “Io sono Francesco Gennari”. Probabilmente questa non sarà l’opera per la quale verrò ricordato, ma in quel momento mi fu utile, costituì un punto di partenza, una presa di coscienza della mia identità. Poi, con il passare degli anni, feci altre opere dalle quali mi sentivo estraneo, di cui sovente non riuscivo a spiegarmi la genesi e di fronte alle quali non mi sentivo autore bensì spettatore. Trascorrevo, e mi accade tutt’ora, lunghi periodi in cui volevo fortemente creare, ma non emergeva nulla di interessante e ciò mi procurava uno stato di preoccupazione e di rigetto verso il ruolo dell’artista che mi costringeva a dover sempre inventare qualcosa di nuovo. All’improvviso mi sentivo travolto da una grande energia, tornavo immediatamente di buon umore, ma si trattava di un buon umore eccessivo, irrazionale: tutto mi sembrava a portata di mano, mi sentivo onnipotente. In quei momenti, molto brevi, ho avuto idee che caparbiamente avevo rincorso per mesi e che fatalmente avevo ottenuto in pochi istanti. Anche oggi il mio percorso creativo è basato sull’attesa di istanti magici in cui tutto è possibile; da qui è nata la convinzione che io sono Francesco Gennari, ma in me c’è anche un’altra entità che affettuosamente chiamo “Lui”. “Lui” si manifesta all’improvviso e senza motivo, sento fisicamente il suo arrivo con una crescente euforia e ugualmente percepisco quando va via con una progressiva malinconia; a volte si manifesta di frequente, altre volte scompare per lunghi periodi. “Lui” mi porta a concepire opere che amo ma di cui non sento la piena paternità, così cerco, al pari di un qualsiasi spettatore, di capire che cosa “Lui” voleva che facessi.
GV: L’intuizione come nucleo “imparlabile” va bene, ma ha dato adito a molti alibi. L’artista si sottrae infatti alla responsabilità, che definirei civile, di motivare il suo lavoro. Non dico spiegare o giustificare, ma motivare. Invece tu il lavoro lo motivi anche con le parole, nel senso che rispettando il nucleo dell’incomunicabilità, il fuoco intuitivo, fornisci delle motivazioni, ci ragioni sopra. E accompagni l’osservatore col ragionamento lungo un percorso, poi lo lasci lì da solo, affinché vada avanti o torni indietro. Giusto?
FG: Sì, è giusto. Io sono abituato a motivare la genesi dell’opera, ma con due limiti: il primo è che non mi piace associare il mio lavoro a riferimenti colti, teorie scientifiche, citazioni erudite o posizioni filosofiche perché il mio scopo è realizzare opere che altri cercheranno di relazionare al mondo che le circonda; il secondo limite è che esistono delle componenti dell’opera che non conosco neppure io e che, come voi, cerco di capire. Per il resto, mi limito a dare delle introduzioni didattiche dell’opera, tenendo sempre presente che il titolo (per me fondamentale), i materiali che la costituiscono e infine la sua semplice visione devono essere sufficienti affinché l’osservatore faccia liberamente il suo viaggio all’interno della stessa.
GV: A proposito dell’opera: vedo in giro tanti fratellini minori di Jessica Stockholder — anzi, meglio, di Jason Rhoades — ma privi della loro aggressività e radicalità (come altri della stessa generazione). Tutti più aggraziati, bene educati anche quando si danno alle grandi dimensioni, e molto più vendibili, credo. Dirompenza a misura di white cube. Tu, fra i giovani artisti che definirei scultori, almeno ti distingui per eleganza formale (non c’è niente di negativo in questo termine), scelta di materiali anche preziosi come marmo nero o bianco, piccoli formati, lontani da ogni ridondanza “dionisiaca”, forte senso della misura e dell’ordine. Senza alcun senso di già visto, di rimemorazione, di rimando al passato o cose del genere.
FG: Mi fa piacere che consideri le mie opere eleganti anche se è un obiettivo che non mi sono mai posto. Quello che a me interessa davvero è fare poesia con la geometria, in quanto l’ordine apparente nasconde il caos delle emozioni. Alle mie opere è stata sovente attribuita una radice minimalista, ma alla fredda serialità io contrappongo opere che straripano di emotività. Io rappresento i miei sentimenti, i miei continui e improvvisi cambiamenti di umore, ciò che sarà di me dopo la morte e, più in generale, le angosce o quella tensione che gli uomini hanno sempre avuto guardando il cielo stellato o pensando al senso della propria esistenza in questo mondo. Nella mia poetica i materiali giocano un ruolo fondamentale: ho utilizzato sciroppo di menta, gin, scorze d’arancia, coleotteri vivi, zucchero, ceramica, bignè alla crema, panna, legno, argento, marmellata di fragole, farina, farfalle, marmo, vetro, cacao, fili di cotone, oro… E ancora, indumenti, le mie scarpe Clark’s, il mio maglione giallo o azzurro, la mia camicia bianca, il mio loden, tutte cose apparentemente banali che hanno permesso al mio corpo di confrontarsi con ciò che accade nell’universo. Potrei continuare e riempire questa intervista con un elenco più lungo, ma ciò che è rilevante è che io ho portato la metafisica dentro i materiali, e proprio i materiali mi hanno permesso di parlare un mio linguaggio autonomo e ambiguo. A mio avviso non esistono materiali nobili e preziosi che si contrappongono ad altri che non lo sono. I materiali sono materiali e basta: forse la farina della Degenerazione di Parsifal (Natività), che determina un’estetica sorprendente, è meno preziosa dell’argento? Tutto ciò che compone l’universo è materiale a mia disposizione senza gerarchie. Per le mie opere non ho un formato tipico: quando ho realizzato Autoritratto tra il giorno e la notte, ho pensato a un filo in tensione per metà azzurro come il cielo diurno e per l’altra metà blu come la notte; ho pensato a una linea divisa in due colori che nella sua versione integrale dovesse essere lunga come la circonferenza della Terra e che tenesse conto che il nostro pianeta è sempre per metà illuminato (azzurro) e per l’altra metà buio (blu). Allo stesso modo nella Degenerazione di Parsifal (Natività) le misure tendono non teoricamente ma realmente all’infinito. Mi muovo quindi dal molto piccolo al grandissimo, anche se mi piacciono quelle opere che lo sguardo può abbracciare cogliendone contemporaneamente la visione generale e il dettaglio. Sono un autodidatta, non ho frequentato né maestri né scuole, e certamente questo mi ha permesso di evolvermi senza particolari influenze. Anche se nel tempo la lezione di Giorgio De Chirico o di Constantin Brancusi ha avuto la sua importanza, penso e spero di aver aperto un nuovo, autonomo capitolo.
GV: Nelle tue scelte espressive e riguardo ai materiali trovo una certa radicalità: è abbastanza estrema l’idea di presentare il proprio autoritratto come un cerchio verde di menta dentro un contenitore a nastro piatto e circolare, o come gin con una buccia d’arancia destinata a evaporare come evapora l’anima dopo la morte. Ma il maggior pregio è questo intento di riattualizzare l’autoritratto fuori da ogni filosofia del soggetto. Chi parla non sei tu, ma l’astrazione (dico astrazione, non trasfigurazione o trascendenza) del TU nell’idea di demiurgo.
FG: Chi parla è “Lui” e non ama il dialogo democratico, ha scelto come materia per rendersi visibile il gin e sotto queste vesti penetra i materiali, le forme e l’aria che respiriamo. “Lui” è il centro del sistema, è egocentrico e intollerante, a tratti capriccioso e malinconico. Nelle opere che tu citi si è manifestato in due momenti molto diversi della sua esistenza. Una mattina l’ho trovato di buon umore e in quel momento è arrivata l’intuizione di apparire verde e tondo. Il contenitore circolare di cui parli non contiene solo menta ma anche gin. “Lui” voleva miscelarsi con questo sciroppo dolce e verde perché solo così, attraverso un colore e un materiale, poteva comunicare la sua emotività. Autoritratto con menta è una di quelle opere in cui la spiegazione è un enigma: per questo ho scelto questo titolo, che di fatto non dice nulla oltre quello che si vede e si sente all’olfatto. L’altra opera di cui parli è Un istante dopo (liscio o con una scorza d’arancia). Questa scultura è un letto di morte, è la sua ultima dimora; voleva vivere i suoi ultimi istanti in un triangolo nero prima che la sua anima ascendesse verso il cielo, voleva che una scorza d’arancia del colore e della forma del sole al tramonto si posasse sul suo corpo liquido, voleva lasciarci non con ironia ma vivendo questo momento drammatico con un sorriso perché quest’opera è anche un cocktail. Un elemento della quotidianità come un cocktail diventa strumento per una metafisica rinnovata, lontana da una riduttiva metafisica del quotidiano, e vicina ai biscotti di De Chirico.
GV: Ora però dovremmo dire qualcosa di questo demiurgo: chi cavolo è? Arriva da Platone o da Renè Guénon? Oppure è semplicemente l’idea un po’ romanzata (termine che viene da romantico) dell’artista?
FG: Nulla di tutto ciò. Questo termine è stato usato e forse un po’ anche abusato e ha assunto nel tempo connotazioni che sono lontane da me. La mia idea di demiurgo è semplice e anche un po’ rudimentale, penso solo che esistano e siano esistite persone che hanno un istinto che nulla ha a che fare con la cultura, ma molto con l’animalità, la quale li colloca da subito al centro di un sistema — che io preferisco chiamare paesaggio — da loro plasmato a propria immagine e somiglianza. Si tratta di un istinto primitivo che trova fondamento nella genetica e mai nella riflessione colta, e che inoltre è impossibile reprimere e controllare.
GV: A proposito di istinto, sapere istintuale, e a partire da Bataille, penso che ci sia un legame diretto fra il basso animalesco e l’alto trascendente, fra l’animalità e la divinità. Ho anche costruito una mostra su questa idea. L’umano è un termine medio, una mediazione. Niente di nuovo, basti pensare al ruolo degli animali presso gli sciamani. Tu credi in Dio? Io non so, ma sto diventando animalista.
FG: Credo in “Lui” come tramite per l’assoluto. Ci sono tante religioni, da oggi ne esiste una in più, e chi può dire quale sia quella giusta?
GV: Interessantissimo il tuo discorso sul corpo. L’opera nasce come proiezione del tuo corpo sul mondo e sul cosmo, partendo da piccole fotografie che contengono l’eclissi o da sculture che richiamano dimensioni spazio-temporali altre (il cosmo, la morte). Mica male per uno di Pesaro. Ho pensato a esperienze del passato, Giuseppe Penone, Valie Export sdraiati nella natura o lungo un marciapiede curvo, Anselmo fotografato sul vulcano, la Land Art, e tanti altri, impegnati in contatti fisici o tensioni ideali (virtuali), verso una appropriazione del mondo “sensuosa”. Naturalmente tu sei molto più concettuale, o mistico, o filosofico, o spirituale, o cosa? La sovrapposizione corpo-mondo avviene per traslati, attraverso la creazione di figure retoriche.
FG: Certo, non sono nato a New York e neppure a Berlino, ma la capacità di fare buone opere è casuale; è capitato per esempio al mio conterraneo Osvaldo Licini che era di Monte Vidon Corrado, paese più piccolo e meno conosciuto di Pesaro, che è anche il paese dove è nato il mio bisnonno. A ognuno di noi la sorte dà un corpo che ci dobbiamo portare in giro per un tempo variabile, e questo corpo condiziona il nostro rapporto con il mondo; una sedia che per me è comoda magari per te non lo è perché i nostri corpi sono diversi. Riflettendo sul mio corpo, ho pensato di metterlo in relazione alla rotazione della terra che genera il fenomeno dell’alba e del tramonto e più in generale del cambiamento del colore del sole. Ho notato che guardando verso Nord, verso la terra degli Iperborei, il sole sorgeva basso e giallo chiaro illuminando la parte più bassa del mio corpo, il tacco delle mia scarpa Clark’s destra; la stessa cosa avveniva al tacco sinistro, ma al tramonto, illuminato da una luce arancione-rossa. Ho notato che durante la giornata il sole cambiava colore dipingendo il mio corpo di diverse tonalità che mutavano in base all’ora. Alla luce di tutto ciò è nata una scultura lunga come il perimetro del mio corpo e composta da sei blocchi di vetro di tonalità che variavano dal giallo chiaro dell’alba al rosso arancione del tramonto. Inoltre, ho pensato di scolpire sui due lati estremi della scultura la forma delle mie Clark’s, come se la luce fosse materia scultorea che prende la forma delle mie scarpe. In sintesi, la luce del giorno determinata dalla rotazione della terra si risolve lungo il perimetro del mio corpo quando indosso il mio loden e incomincia dalla mia scarpa Clark’s destra per finire in quella sinistra: da qui il titolo Autoritratto come moto di rotazione della terra (con loden e scarpe Clark’s). Tutte le altre riflessioni sono irrilevanti.
GV: Mi piacerebbe che mi parlassi della tua prima opera importante, che a mio parere è il cipresso, reale e mummificato (più di quello fotografato e storto che, mi hai detto, richiama una crocifissione), e della più recente — se non ultima — il gin con la buccia d’arancia. Li intendo come due lavori sulla morte, introdotta da ciò che resta, la spoglia mortale. Due lavori ermetici, ma molto forti e secondo me inestricabilmente legati a quel tema fatale.
FG: Nel cipresso stabilizzato Come se, l’idea era quella di fare un’opera dove l’estetica della morte fosse come quella della vita. L’ho pensata come l’esperimento di un alchimista medievale e in effetti la semplice sostituzione della linfa vitale dell’albero con un altro liquido ha permesso al vegetale di non intaccare la sua estetica dopo la morte. Ma le piante non hanno anima e quindi analizzare il processo metafisico della morte di un albero è ben diverso dall’analizzare la stessa cosa su una creatura pensante, emotiva, morale. Nell’opera con la scorza d’arancia e con il gin, che tu citi e di cui ho parlato sopra, l’indagine sulla morte è stata più complessa: l’entità morente si divide dopo il decesso con lo spirito che vola nel cielo e il corpo, il residuo, che permane più a lungo sulla terra fino a una progressiva dispersione entropica. Proprio come accade a noi.
GV: Gennari come Gennaio, Ianuarius, Ianua, soglia: luogo di un nuovo inizio. L’opera non è forse ogni volta un ri-incominciamento?
FG: Il cognome Gennari si fa risalire alla Gens romana Januaria che era consacrata al dio bifronte Giano. Mi piace pensare che l’ambiguità del mio lavoro, la convivenza di dramma e ironia, la coesistenza di materiali che portano con sé una memoria contraddittoria, la possibilità di scoccare una freccia che muove contemporaneamente in due direzioni opposte, la presenza in me di due entità, e l’enigma che ne consegue, possano avere un’origine già scritta nel mio cognome. Mi piace anche quest’idea di nuovo inizio che dichiarai a chiare lettere quando realizzai la scritta “Nessun concetto nessuna rappresentazione nessun significato”, che altro non era se non la volontà di ricominciare, di riprogettare dopo aver rifiutato ogni condizionamento preesistente, un gesto di affermazione di libertà, un inizio esattamente come lo è per l’anno il mese di gennaio.
GV: Va bene, concludi tu.
FG: La conclusione non spetta a me, ma a “Lui” e nessuno può sapere quando e se mai ci sarà.