I cristalli si spezzano secondo certe linee di frattura che sono le stesse della loro prima aggregazione: la logica della loro morte è la stessa della loro genesi.
Francesco Lo Savio, che aveva una mente logica, aveva soltanto ventott’anni quando vide nella morte l’esito logico della propria vita d’artista. Di una fine volontaria non si debbono indagare le cause, ma è chiaro che, quando lucidamente la decise, sentiva che la ricerca, a cui aveva dato tutto se stesso, non compensava più l’alternativa contraria. Quella ricerca era durata pochissimi anni, troppo pochi davvero, ma è facile constatare che non era certamente arrivata a un punto morto, tutt’altro; recava in sé tutte le premesse di un vasto sviluppo, che tuttavia gli orientamenti dell’arte nel mondo in quegli anni attorno al ’60 e l’insieme delle circostanze esterne rendevano quanto mai difficile per un artista che, come lui, aveva una mentalità più meditativa che battagliera.
Aveva per la ragione una fede quasi religiosa, ed era già una contraddizione perché la ragione è critica, la critica è dubbio, la fede esclude il dubbio. Ma il suo fideismo razionalistico si spiega col fatto che, di giorno in giorno, il terreno della ragione pareva restringersi: il razionalismo, che aveva guidato alcune delle maggiori correnti artistiche tra le due guerre, pareva un intollerabile limite a quello che pareva l’incontenibile impulso creativo delle dilaganti tendenze dell’informalismo europeo e del cosiddetto Espressionismo Astratto americano. La grande stagione del Costruttivismo e del design sembrava ormai irrevocabilmente chiusa, e con essa ogni possibilità di rapporto tra l’arte, la scienza, la tecnologia industriale. La scienza sempre più declinava i rigori della pura ricerca per legarsi al pragmatismo tecnologico, e questo pareva ormai capace di progettare e progettarsi, scartando l’intervento progettuale dell’arte in cui vedeva soltanto una causa di ritardi e di errori. Lo Savio ha capito subito e perfettamente che la scienza, almeno nei suoi aspetti umanistici, era altrettanto in crisi che l’arte: e proprio in ciò dissentì e si discostò dalle vecchie avanguardie, perché non cercò nella scienza un’uscita di sicurezza all’arte in crisi, ma offrì alla scienza (che non mostrò di volersene servire) il contributo che poteva farsi soltanto con i mezzi dell’arte.
Celant, che — secondo Storck e Kultermann — fu tra i primi a capire l’importanza della ricerca solitaria di Lo Savio, ha confrontato il suo destino tragico con quello di Pasolini e di Manzoni. Molto diverso fu il loro impegno di lotta, ma tutti, né loro soltanto, sentirono che stava sempre più dissolvendosi la cultura nata dal razionalismo illuministico e cresciuto con le rivoluzioni del secolo scorso e del nostro. Il razionalismo è critica, la critica radicale è rivoluzione, quanto più regredivano l’ideologia e la volontà rivoluzionaria, tanto più si profilava come inevitabile la fine del razionalismo.
Tra la prima e la seconda guerra era stata certamente tentata la ricostruzione di un sistema culturale unitario mediante l’integrazione reciproca di arte, scienza, tecnologia ed economia industriale, riformismo radicale in campo sociale e politico: l’avanguardia russa aveva dato impulsi decisivi alla rivoluzione. Ma quello sforzo costitutivo unitario era stato duramente represso così dall’Unione Sovietica come dai regimi totalitari dell’Europa occidentale. Lo Savio aveva studiato a fondo quei movimenti d’avanguardia, specialmente De Stijl e Bauhaus: esordì infatti come architetto e designer. Si rese conto di due fatti: primo, il rapporto con la scienza e la tecnologia era stato impostato in modo sbagliato perché scienza e arte venivano a trovarsi in posizione subalterna e ausiliaria rispetto alla tecnologia e all’economia industriali; secondo, la seconda guerra aveva fatto fare alla tecnologia un salto qualitativo, che aumentava le distanze e rendeva impossibile impostare il rapporto nei termini di avanguardia. Infatti la tecnologia era ora all’avanguardia rispetto all’arte e alla scienza. Nessun altro artista, in quegli anni attorno al ’60, ha compiuto un esame e una critica altrettanto attenti e precisi dell’architettura razionale e delle correnti costruttiviste europee mirando soprattutto a separare il razionalismo scientifico dal funzionalismo pragmatico, la ricerca pura dalla sua applicazione alla produzione: il suo scopo ultimo non era più un opportunistico accordo operativo, ma il riscatto della scienza da una “creatività” che l’avrebbe sicuramente ricollegata all’arte. Che questo fosse il suo fermo proposito è dimostrato dal carattere fabrile di tutta la sua produzione, dall’evidente volontà di fabbricare oggetti d’arte.
Tutta la ricerca di Lo Savio verte sul tema del rapporto di spazio e luce, ricercato e verificato in tre gruppi distinti di opere: i “filtri”, i “modelli di articolazione totale”, le “articolazioni di superficie”. Spazio e luce non erano due distinte categorie fenomeniche, tra le quali esistevano relazioni da potersi studiare sperimentalmente. Spazio era un concetto espresso in termini geometrici o matematici, luce la somma di tutte le possibili esperienze percettive, sensoriali, emozionali. All’origine dello spazio era la pura razionalità, all’origine della nozione di luce il mondo fisico, il mito del cosmo e della creazione. L’idea di spazio si esprimeva nella forma simbolica del quadrato; l’idea di luce nella forma simbolica del cerchio: il rapporto di spazio e luce era il rapporto fisico che poteva istituirsi tra queste due forme simboliche. Il quadrato poteva svilupparsi tridimensionalmente nel cubo, il disco nella sfera: il filtro quantifica il rapporto in misurata graduazione di trasparenza e opacità. Il quadrato espressivo dell’idea di spazio era ugualmente espressivo del concetto di limite: il concetto di spazio coincideva con il concetto di limite, così come il concetto di illimitato o continuo espresso dal circolo coincideva con l’idea di tempo. L’immagine che sintetizzava quadrato e disco, spazio e tempo, riuniva e sintetizzava anche i concetti di universale e contingente, di ragion pura e di esperienza vissuta. Perciò, seguendo la traccia di Mondrian e soprattutto di Malevic, a quel rapporto di spazio e tempo, di concettualità astratta ed esperienza concretamente vissuta bisognava cercare un esito nella realtà del mondo, nell’ordine sociale: di qui l’ipotesi architettonica e urbanistica che Lo Savio sentiva di dover riprendere dal Costruttivismo di Malevic, di Van Doesburg, di Vantongerloo.
Lo Savio, tuttavia, non era un matematico né un filosofo: era un artista persuaso che certi problemi fisici o matematici possano essere affrontati e probabilmente risolti dall’arte nello stesso modo in cui altre volte, nella Storia, problemi dell’arte avevano trovato una soluzione nella matematica e nella scienza. Non pretendeva certo di sostituire la soluzione artistica a quella scientifica, credeva però che l’evidenza visuale e la specifica operatività dell’arte potessero offrire ai grandi problemi, anche filosofici, dimostrazioni diverse e di più immediata certezza. Le opere di Lo Savio non erano affatto dimostrazioni alla lavagna: Lo Savio fabbricava con le proprie mani e con i propri mezzi tecnici del più semplice artigianato oggetti che avevano una loro realtà e presenza fisica e che non fingevano di non essere quello che erano, comuni “artefatti”. Le cose che fabbricava erano dimostrazioni di teoremi, ma erano anche oggetti d’arte: nell’arte e dall’arte la geometria riceveva un carattere di operabilità e comunicabilità che, in un periodo di crisi della ragione, diventava una forza di difesa della ragione. L’opera d’arte non era soltanto un punto di convergenza e d’incontro di Vernunft ed Erlebnis, era il processo che s’intrecciava tra l’uno e l’altro di questi termini, dando al concetto un senso esistenziale e all’atto esistenziale un valore concettuale. L’opera d’arte era per Lo Savio un oggetto con valore conoscitivo: come prodotto del pensiero e della mano dell’uomo doveva considerarsi il modello contrario dell’oggetto di serie che la tecnologia industriale, puramente ripetitiva, aveva privato di ogni valore conoscitivo.