Luca Panaro: La tua ricerca è un vero e proprio caso nel panorama italiano: hai attraversato l’arte degli ultimi quarant’anni riuscendo a cogliere per ogni decennio gli aspetti più salienti; senza perderti in inutili ripetizioni, hai saputo aggiornare il tuo lavoro mantenendo una grande coerenza di pensiero.
Franco Vaccari: È così che da un po’ di tempo mi viene detto. Tutti questi anni sono passati con una velocità che mi sbalordisce. Sono successe tantissime cose che hanno richiesto un continuo aggiustamento della percezione.
LP: Nell’ultimo progetto, da poco presentato alla Galleria Michela Rizzo di Venezia, ti riconfermi un attento indagatore del tuo tempo, proponendo un’interessante analogia tra l’opera di Marcel Duchamp e la cosiddetta “finanza creativa”. Cosa accomuna l’indiscusso maestro del Novecento all’attuale situazione economica?
FV: Ultimamente, inaspettata nonostante qualche Cassandra, è arrivata la débâcle della finanza creativa, che mi ha indotto a riscoprire un mio scritto del 1978, intitolato Duchamp e l’occultamento del lavoro; l’ho riproposto con una breve aggiunta nel libro Duchamp messo a nudo, pubblicato in occasione della mostra alla Galleria Michela Rizzo. Con questa aggiunta, ho potuto mostrare in modo più chiaro le analogie di fondo fra la produzione del valore nell’opera duchampiana e quella della ricchezza millantata dalla “finanza creativa”, principale causa dell’attuale dissesto globale. La novità del testo del 1978 consisteva nel proporre una lettura inaspettata dell’opera di Duchamp, utilizzando concetti tratti dall’economia, in un momento in cui trionfava l’interpretazione in chiave alchemica (Arturo Schwarz, Jean Clair, Maurizio Calvesi, ecc.), che veniva reputata, probabilmente, molto raffinata ed elitaria.
LP: Quali sono queste analogie?
FV: Sia nel sistema dell’arte sia in quello della nuova economia vengono proposte affermazioni di valore autoreferenziale, nel senso che vengono sottratte al controllo. Detto in modo un po’ brutale, è come se si volesse ottenere tutto in cambio di niente. In entrambi i casi ci si viene a trovare, dal punto di vista della logica, in una situazione di paradosso. Con Duchamp si ha una completa divaricazione fra segno e giustificazione del segno, fra apparenza e ruolo; mentre, a proposito dell’economia, vale quanto detto recentemente da Giulio Tremonti: “Ci si era illusi che la ricchezza nascesse dalla finanza e non dal lavoro”.
LP: Pensi che il mondo sia effettivamente cambiato dopo il dissesto economico degli ultimi anni?
FV: Siamo su una slavina e tutto il terreno attorno è franoso.
LP: Una delle intuizioni più felici, che oggi può essere vista come una sorta di “collante” della tua ricerca, è stata senza dubbio la novità espositiva incentrata sul concetto di “tempo reale”, che per primo hai introdotto nel dibattito artistico. Da dove nasce questa esigenza di aprirsi pericolosamente alla casualità degli eventi?
FV: Ho coniato la formula “esposizione in tempo reale” all’inizio del lontano 1969. Mi ero accorto che quanto andavo proponendo non rientrava in senso stretto nelle categorie allora di moda: azione, happening, performance. C’era bisogno di una terminologia nuova se volevo evitare di essere ricondotto a categorie inadatte. È una formula che ha avuto molto successo, riconosciuta, già al suo apparire, anche dal grande Gillo Dorfles. L’aprirsi al caso era qualcosa che aveva radici lontane; in particolare era una tecnica tipica del Dadaismo e ripresa poi dal Neo-dadaismo a partire dai primi anni Sessanta. Ma la mia declinazione del caso l’ha portata a coincidere per molti aspetti con l’arte relazionale tipica degli anni Novanta; questo risulta evidente se si considerano le nozioni, presenti in entrambe, di interattività, socialità e convivialità. Per quest’ultimo aspetto basterà ricordare i quattro bar o caffè costruiti per altrettante esposizioni, a partire da quello della Biennale di Venezia del 1993, Bar Code-Code Bar.
LP: Questo significa quindi partecipazione del pubblico, ingrediente che non è mai mancato nelle tue opere e che oggi pare molto apprezzato dalle nuove generazioni di artisti.
FV: I progetti dei bar sono nati come risposta a un latente bisogno di convivialità mentre tutto sembrava andare nella direzione della più esasperata concorrenza e affermazione del singolo. Forse sei troppo giovane per ricordare l’imperante yuppismo degli anni Ottanta. Già nel 1972, durante la mia partecipazione alla Biennale di Venezia, era presente questa volontà di coinvolgere il pubblico.
LP: Recentemente hai proposto una nuova versione di Bar Code, definendolo una“fotografia abitata”. Perché?
FV: L’installazione è stata allestita in un grande ambiente dove ho avuto la possibilità di costruire un vero e proprio scenario. La sua frontalità dava all’insieme un aspetto fotografico che, date le dimensioni, diventava abitabile.
LP: Qui, come nel lavoro del 1993, rifletti sul codice a barre. Cosa ti affascina di questo segno astratto?
FV: Il fatto di essere, più di qualsiasi altro, il vero segno dei nostri tempi. È stato progettato solo per funzionare ed è privo di qualsiasi (voluta) dimensione simbolica.
LP: Nei tuoi lavori hai sempre utilizzato le più recenti tecnologie a disposizione sul mercato, non tanto per l’immagine che queste sono in grado di ottenere, ma per la possibilità di indagare sulle logiche interne. Della fotografia, per esempio, hai evidenziato in anticipo sui tempi “l’inconscio tecnologico” che da sempre la governa, aprendo la strada a quelle sperimentazioni collettive che vedono progressivamente occultare la figura dell’autore potenziando quella dell’utente. Pensi che ci sia una relazione fra alcune tue opere e ambienti virtuali anonimi e partecipativi come blog e social network?
FV: Quello di “inconscio tecnologico” è il secondo concetto di cui credo di poter vantare la paternità; per mettergli il copyright ho dovuto scrivere un libro, pubblicato nel 1979, intitolato, appunto, Fotografia e inconscio tecnologico. L’ultima parte della tua domanda riguarda fenomeni che si succedono in forma magmatica e che, se affrontati adesso, ci porterebbero molto lontano.
LP: Mi permetto però d’insistere su quest’ultima domanda, perché credo che la diffusione massificata di questi ambienti virtuali e partecipativi sia stata in qualche modo anticipata dall’arte.
FV: Probabilmente è così, perché una delle funzioni dell’arte è quella di essere un laboratorio per sperimentare forme di rapporto socialmente significanti.
LP: Sei stato anche il primo artista italiano a realizzare un’opera capace di riflettere sulla logica che governa il web: Atelier d’artista (1996). Come ti sei avvicinato a questo nuovo linguaggio?
FV: Ero stato invitato a fare una mostra alla Casa del Giorgione di Castelfranco Veneto. Tramite Internet ho invitato gli artisti a mandare via e-mail una documentazione riguardante il proprio atelier. Il materiale veniva man mano raccolto ed esposto attraverso la proiezione su schermo gigante. La Casa del Giorgione diventava così la casa degli artisti di tutto il mondo. Fino a quella data gli artisti avevano visto nel web solo l’occasione per mettere in rete qualche immagine dei propri lavori; nel mio caso, invece, è stato utilizzato come strumento di attivazione e di raccolta del materiale relativo a questa esposizione in tempo reale. Gli artisti che hanno aderito sono stati oltre 250, una trentina dei quali con lunghe e complesse registrazioni video.
LP: Se non ricordo male, un’operazione analoga l’avevi anticipata molto prima dell’avvento delle tecnologie di comunicazione informatica.
FV: In effetti, nel 1976, utilizzando l’arcaico mezzo del servizio postale, avevo inviato ad artisti, non solo europei, uno stampato in ciclostile con il titolo Azione a distanza, in cui li invitavo a documentare con due immagini lo spostamento di qualcosa da una posizione all’altra. Mi affascinava l’idea che, con un mezzo così semplice, avrei messo in moto persone e cose in punti sparsi per il pianeta.
LP: L’appropriazione di immagini “già fatte” caratterizza la tua ricerca già dal 1970, quando prelevavi fotografie dell’Ottocento negli archivi storici per restituire a queste un nuovo significato (Modena dentro le mura). Del 2003 è invece il video Provvista di ricordi per il tempo dell’Alzheimer, dove raccogli in poco più di venti minuti le immagini di una vita e le sensazioni che ancora oggi sono in grado di raccontarla. Pensi sia azzardato sostenere che proprio l’archivio, oggi diremmo il database, può considerarsi la nuova “forma simbolica” del nostro tempo?
FV: La teoria del database, visto come forma simbolica caratterizzante il nostro tempo (quella, per intenderci, che sostituisce la prospettiva e il collage, precedenti forme simboliche), comincia a entrare in circolazione solo adesso e tu, in Italia, sei quello che più l’ha approfondita. Secondo la mia opinione, essa rappresenta quel punto di svolta capace di farci uscire dalle secche in cui ci troviamo o, più esattamente, da quell’ingorgo in cui si sono incagliate le riflessioni nate in epoca duchampiana.
LP: Oltre a Duchamp, ti sei occupato anche di altri grandi protagonisti dell’arte contemporanea. In un’opera del 1973 hai presentato una serie di “omaggi” scultorei a noti artisti (Warhol, Beuys, De Dominicis, ecc.). In questo lavoro, l’apparente distanza dal tuo linguaggio abituale viene presto giustificata da un’acuta didascalia. Vuoi riassumerla?
FV: A un mendicante, intagliatore di figurine di legno, ho descritto alcuni noti artisti e il loro modo di operare. Volevo vedere quali modificazioni subiva l’immagine proposta quando veniva percepita da una persona appartenente a una situazione culturale molto diversa da quella degli artisti. In pratica, questa operazione è analoga al fotografare, ma al posto dell’inconscio tecnologico del medium fotografico, viene utilizzato l’inconscio, ben più complesso, di una persona.
LP: Abbiamo iniziato questa chiacchierata parlando delle ultime opere per poi addentrarci in alcuni lavori storici di particolare interesse. Ora non ci resta che ritornare al presente, anzi, per quanto possibile proiettarci nel futuro. Stai preparando una nuova mostra?
FV: Sì, questo è un periodo molto intenso. Prima dell’estate ho in programma una mostra antologica alla Galleria Mazzoli di Modena. Ho anche altri progetti, ma per scaramanzia preferisco non parlarne.