Eli Diner: Pensando ai rapidi cambiamenti che sta subendo il nostro presente, vorrei iniziare proprio dal ruolo del tempo nel tuo lavoro, nello specifico il tempo storico. Da un lato, il tuo lavoro ha a che fare con il presente, scruta il mercato, la cultura materialista, le tecnologie, il gusto, le classi, l’ideologia, la politica attuale. Ma c’è anche una dimensione futurologica, una componente fantascientifica. E, allo stesso tempo, c’è un’altra traccia che guarda al passato recente – penso a Crying Games (2015). Tutto questo si delinea nella mia mente come un progetto di storicizzazione del presente.
Josh Kline: Il capitalismo prepara noi consumatori a vivere nel presente. La politica elettorale contemporanea – specialmente quella americana – e i quotidiani cercano di bloccare la nostra immaginazione al presente. Il passato e il futuro, la storia e l’immaginazione a lungo termine, sono cancellati o oscurati, schiacciati dai pensieri consumati velocemente. William Gibson nel romanzo The Peripheral (2014) ha definito “Jackpot” l’assalto combinato di catastrofi – ecologiche, patogene, militari, economiche, ecc. – che precipiteranno nel XXI secolo, un futuro “slot machine” che vomita solo teschi. Quando vedi la crisi mondiale aumentare, è difficile non domandarsi dove ci condurranno le condizioni attuali. Ai boomer potranno rimanere solo pochi anni, ma la generazione che sta entrando ora nell’età adulta vivrà per la maggior parte del secolo. Per le persone con buone possibilità di arrivarci, diventa una questione personale. Come artista, sono interessato a descrivere e rappresentare la nostra epoca, a speculare su dove può condurci. Il realismo non è una mia ossessione, il mio lavoro è situato saldamente sul limite della finzione. Capire come gli individui del futuro leggeranno il nostro presente (il loro passato) è un esercizio molto utile, specialmente per gli americani. Questo presente finirà e diventerà qualcos’altro.
ED: Mi viene in mente Unemployment (2016). In realtà ci ho pensato recentemente, mentre il mondo è dirottato in questa nuova depressione dove la disoccupazione di massa aumenta. C’erano sculture iperrealiste di operai disoccupati realizzate con stampanti 3D – che riflettevano retrospettivamente l’impatto della Grande Recessione. La mostra includeva anche delle pubblicità per Universal Basic Income (UBI), sembravano proprio reliquie del futuro. Questa prospettiva offre un barlume di ottimismo, sebbene nel tuo lavoro si colga più una tensione distopica, ancora più evidente nella mostra “Climate Change. Part One” da 47 Canal, New York (2019).
JK: Unemployment è il secondo capitolo di un più ampio ciclo di lavori sul XXI secolo, che mi piacerebbe intitolare Extinction Story — il mio Cremaster. Inizialmente il ciclo più grande doveva essere metà sulla speranza e metà sull’ombra. I primi due capitoli, Freedom e Unemployment, sarebbero le distopie, gli ultimi due le utopie. Nel mezzo ci sarebbe un progetto sul cambiamento climatico che funziona un po’ come il punto di congiunzione fra le due possibilità. Mentre la politica, l’economia e l’ecologia del mondo sono nel caos, sono diventato sempre più pessimista, così il mio lavoro. Alla fine del ciclo, tuttavia, ci saranno ancora due capitoli che immaginano utopie radicali. Quindi, rimane ancora dell’ottimismo, nonostante tutto.
Unemployment è stata la prima parte di un ciclo di fantascienza, non ambientata nel presente né nel passato. Per quella serie ho scelto le materie prime con cui volevo lavorare basandomi sulle professioni della classe media che l’automazione e l’intelligenza artificiale prevedono di sostituire nei prossimi due decenni: avvocati, commercialisti, amministratori, segretari, banchieri, giornalisti, ecc. Se consideriamo gli eventi fino al 2016 non possiamo non notare i paralleli storici con l’inizio del XX secolo: un potere egemonico che vive al di là delle sue possibilità, dislivello di reddito su larga scala, decimazione delle reti di sicurezza, un sistema finanziario globale che collassa, una classe dirigente avida e irresponsabile. Dopo le varie recessioni del XXI secolo, i posti di lavoro sono sempre più automatizzati. Mentre concepivo il mio ciclo più ampio, nel 2014, immaginavo che la combinazione fra automatismo, capitalismo neoliberista e mancanza di reti di sicurezza per la classe media del mondo industrializzato, ci avrebbe riportato alla nostra versione degli anni 1930–1940. Gli “esperti” della Silicon Valley prevedevano che il 50% della classe media sarebbe scomparsa in due decenni (gli anni ’20–’30). Unemployment è vagamente immaginata negli anni ’30. Quando ho realizzato le sculture Contagious Unemployment, che in realtà si basano su immagini più familiari al Coronavirus che a un comune raffreddore, erano una metafora. Ora sono letteralmente inquietanti.
ED: Sei un sostenitore di UBI? Non penso che quei video siano ironici, ma immagino possano essere letti come tali. Quella di UBI è una politica che fa leva su uno spettro ideologico selvaggiamente diversificato, compresi i libertari tecnologici e la sinistra politica.
JK: Gli europei insistono spesso sul fatto che Universal Early Retirement (2016), il mio video su UBI, sia ironico. In parte quel video si basa su veri spot pubblicitari americani, quelli per Bernie Sanders e Hillary Clinton – è indubbio che le pubblicità europee non assomigliano vagamente a quello che circola fra i media americani. Questo modo di fare propaganda politica è estranea agli europei. Un altro aspetto da considerare è la sceneggiatura: il video è ambientato nel 2032, anno delle elezioni presidenziali, all’epoca pensavo infatti che l’UBI potesse diventare un vero problema politico in America. Il 2032 è la decade che precede il declassamento dell’America a paese di minoranza, per questo ho girato il video. Quando l’ho mostrato a Torino, ero sorpreso per le tante persone che hanno trovato il video ironico solo perché gli ricordava uno spot multiculturale di Ikea.
Per cui sì, credo in UBI. La nostra società è ricca oltre ogni immaginazione, ma quelle risorse sono distribuite in modo diseguale e ingiusto, sia all’interno dei paesi che su scala globale. Con l’automazione non c’è più un motivo concreto per cui la maggior parte delle persone debba svolgere lavori che disprezza. Un vero UBI salariale è da un lato una rete di sicurezza per le persone alle quali è subentrata l’automazione, dall’altro una sorta di addestramento per un futuro post-occupazione. Credo nell’indignazione provocata da buona parte delle modalità di lavoro capitalistiche. Utilizzare un individuo per scansioni o per fare la spesa, scavare per trovare il carbone o archiviare documenti per otto ore al giorno, cinque giorni alla settimana (43-52 settimane all’anno!) è un’oscenità. Le persone non sono macchine. Sembra sciocca l’affermazione “comunismo di lusso completamente automatizzato”, in realtà è un progetto molto serio per i diritti umani.
ED: Il tuo lavoro si focalizza su quel presente storico di cui parlavo inizialmente. Hai affrontato spesso, a volte piuttosto rapidamente, eventi sempre attuali. Questa catastrofe pandemica ed economica ti colpisce non solo come cittadino impegnato, ma anche a livello concettuale. Da artista, come rispondi a questa crisi?
JK: All’apice del trend dell’arte definita “post-internet” – diffusa in Europa nei primi anni 2010 – quando provavano ad addossare tale etichetta agli artisti newyorkesi, ero solito scherzare sul fatto che avrebbero dovuto chiamarmi artista post-9/11 o post-Lehman Brothers. Nelle prime settimane di lockdown mi sono reso conto che la mia vita adulta vissuta in America è stata caratterizzata da una concatenazione di crisi, a cominciare dalle elezioni di George W. Bush (compivo 21 anni nell’agosto 2000), seguito dall’11 settembre, la sfortunata Guerra del Terrore di Bush, l’invasione e l’occupazione di Afghanistan e Iraq, la crisi finanziaria e la Grande Recessione, poi le elezioni culminate con la presidenza di Trump, e adesso il COVID-19 con le sue inaspettate ripercussioni. Con questa frequente esplosione di calamità ecologiche localizzate, la mia ricerca riguarda una crisi più estesa, visibile quando riduci lo zoom (ripenso al Jackpot di Gibson).
Il mio lavoro in questo momento riguarda il futuro, ma è anche direttamente influenzato dagli eventi. Questo vale per tutti i lavori prodotti sin dalla scuola di cinema. Civil War (2017) il terzo capitolo del mio ciclo, riguarda la potenziale fine violenta della classe media americana, ma riguardava anche il Partito Repubblicano. Sono al lavoro sulla seconda e terza parte di Climate Change, il quarto capitolo del ciclo. La prima parte riguardava il nazionalismo americano e la supremazia bianca, la causa dell’ordine americano e globale. Dalla scorsa estate lavoro alla produzione di Part Three, un cortometraggio da 16 mm ambientato in una New York del XXI secolo. L’ho girato in agosto e a dicembre, prima della pandemia. Da allora, mentre lavoro sul colore e sugli effetti speciali, diventa sempre più lunatico e malinconico. Mai come ora sento l’urgenza di terminarlo. Penso che per me non sarà più possibile produrre questo genere di lavori per almeno i prossimi due decenni. Sono intrappolato nel mio appartamento da mesi, e non credo di realizzare sculture o altro nel 2020 eccetto questo film.
ED: Quello che sta accadendo è spaventosamente diverso, anche se le condizioni sono molto familiari e molte di queste sono fra i temi che hai esaminato nel tuo lavoro: disuguaglianza, precarietà, contaminazione, ecc.
JK: Sono totalmente d’accordo. L’impatto di alcune tecnologie – i social media, l’intelligenza artificiale e altri tipi di automazione sono relativamente nuove, al contrario la disoccupazione di massa, l’estrema disuguaglianza di reddito e il nazionalismo xenofobo sono fenomeni noti – è stato studiato per almeno mezzo secolo dopo la Seconda guerra mondiale. L’intero ordine economico globale dell’occidente postbellico è stato progettato per prevenire un’altra Grande Depressione e, si spera, un’altra guerra mondiale. I neoliberisti, Reagan, Gingrich, Bush, Clinton, hanno voltato le spalle a quella consapevolezza.
ED: Poi c’è la questione del nazionalismo, davvero evidente in Civil War, e in particolare nel film Another America is Possible (2017) un’altra visione ottimista del futuro. Quel lavoro è uscito poco prima dell’elezione di Trump, e adesso la risposta nazionalista al Coronavirus è stata violenta e prevedibile.
JK: Negli ultimi due o tre decenni, l’Occidente ha visto un ritorno del nazionalismo che sta distruggendo i paesi. Prima che Trump fosse eletto, pensavo che ci volessero almeno un paio di decenni prima di un vero conflitto civile negli Stati Uniti. Oggi penso che siamo spaventosamente vicini al limite. Sia con Another America is Possible — che presenta una famiglia e eterogenea nel 2043, che termina con un falò delle bandiere della confederazione degli Stati Uniti d’America — sia con il video UBI, volevo presentare un’altra visione. Si può lavorare sulla distopia o auspicare a una società in cui tutti hanno un accesso reale alla felicità e al benessere.
Il problema dell’America è sempre lo stesso fin dalle origini. C’è ancora una parte considerevole della popolazione che crede sulla vera uguaglianza razziale. Solo di recente ho capito cos’è il Partito Repubblicano americano contemporaneo. I discendenti politici del Partito Democratico Meridionale per i diritti civili – gli eredi dei Dixiecrats – hanno preso il controllo del Partito Repubblicano. Prima dei diritti civili, il Sud America era uno stato autoritario a partito unico, è ormai noto da tempo che i democratici hanno perso tutte queste persone quando il governo Lyndon B. Johnson ha promosso i diritti civili – ed è stata recepita negativamente la risposta dei Dixiecrats. Hanno eliminato il Partito Repubblicano e ora controllano il paese più grande. Vogliono calibrare l’intero paese nell’immagine del Sud degli anni ’50: un paese a partito unico con “situazioni minoritarie”1 . Tutte le principali rappresentanti al Congresso vengono dal Sud: Mitch McConnel, Lindsay Graham, Jeff Sessions, Ted Cruz, ecc. Il Partito Repubblicano non è un partito politico regolare, è un partito rivoluzionario. Anche adesso, con la devastazione dell’America, a queste persone importa solo della loro agenda.
ED: La tua mostra “Alternative Facts”, in corso al Various Small Fires di Seoul, consiste in tutte queste bandiere americane – levigate, increspate, piegate, imbrattate di sporcizia e sigillate in una specie di resina – fissate al muro come fossero schermi televisivi sospesi a parete. Ho visitato virtualmente la mostra proprio mentre gli Stati Uniti stava chiudendo tutto e la Corea del Sud stava riaprendo, è stata un’esperienza molto strana. Ovviamente, la bandiera è un simbolo – sinistro, certo, ma polivalente – un aspetto che è stato veicolato in così tante opere d’arte. Vedere tutte quelle bandiere su Zoom funziona, è come se il senso fosse cambiato. Com’è stato inaugurare una mostra in queste condizioni?
JK: È stata un’esperienza strana, è la prima personale che non ho potuto installare. Ho installato su Zoom durante la seconda settimana di reclusione. Somin, la direttrice della galleria, mi ha fatto fare un tour virtuale durante l’allestimento. Seoul stava riaprendo proprio mentre le nostre vite a New York stavano per essere confinate per chissà quanto tempo. Loro stanno controllando la pandemia, mentre negli Stati Uniti Trump sta ancora cercando di fare propaganda per uscire da questo disastro. Circa 1.500 individui stanno morendo qui e centinaia di milioni di persone sono costrette a rimanere in casa o rischiano il contagio per recarsi al lavoro mentre il governo non fa nulla. Le sculture-TV che ho realizzato riguardano per certi versi Fox News, che sostiene questo fenomeno ripugnante. Mi sveglio ogni giorno e vorrei che quel canale cambiasse. Spero davvero che Joe Biden o chiunque i Democratici votino alle elezioni presidenziali riescano a trovare una soluzione a tutto questo.