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349 Giu-Ago 2020, SCOLIO

10 Giugno 2020, 9:00 am CET

SCOLIO. Episodio 1: Ogni cosa ci sopravviverà, tranne noi di Leonardo Caffo

di Leonardo Caffo 10 Giugno 2020

Uno spettro si aggira per l’Europa, e per il mondo intero. Però, questa volta, si tratta di uno spettro minuscolo, sottile, leggero, senza frontiere, ed è lo spettro di un virus: il COVID-19 a cui abbiamo dato anche un nome iconico che ne ha rafforzato la potenza, appunto quasi regale “Corona Virus”. È uno spettro che cambia le economie e la sanità, le paure e le idee di futuro, compromette il progresso e le proiezioni, ed è soprattutto uno spettro che obbliga a una riflessione anomala. Anomala ma urgente, necessaria già da molto tempo. Chi o cosa è virus, e chi è virus per cosa? Pensiamo al virus dalla prospettiva della terra, della natura, degli ecosistemi, diciamo dal punto di vista di Gaia che poi è il punto di vista assoluto: alla quasi scomparsa della soglia critica della CO2 in Cina, alla pulizia involontaria dell’ambiente, ai mari improvvisamente puliti, alle radiazioni dimezzate, agli animali selvatici salvati dai mercati della carne in Asia. Mai l’aria, nelle aree colpita dal virus che ha costretto alle quarantene, era stata così limpida. Pensiamoci e chiediamoci, azzerando ogni pregiudizio antropocentrico: e se fossimo noi stessi un virus? L’ambiente sta a Gaia come l’economia a Homo Sapiens. Pensiamo al virus dalla nostra prospettiva, quella umana, dell’economia della sanità. Pensiamoci e chiediamoci: e se fossimo noi stessi a farci del male, se dovessimo ripensare tutto? Qui, un ovvio sollecito. Pensiamo al virus dall’unione di queste due prospettive, diciamo dalla prospettiva human-planet. Pensiamoci e chiediamoci: se bloccando in modo inedito il virus del pianeta riuscissimo anche a bloccare il nostro, di virus? Lo stato d’eccezione, forse, è uno stato anche di occasione eccezionale. Non voluto, intendiamoci perché non c’è spazio per il cinismo: ma resta eccezionale.

Da qualsiasi prospettiva si osservi tutto ciò, soprattutto se arriviamo alla terza, è evidente che bisogna cambiare velocemente le idee e i concetti che abbiamo sulla vita, sul mondo, sul futuro. Accelerare l’inevitabile flessione al contrario della freccia non lineare che chiamiamo evoluzione sociale: anticipare rifugi, capanne, altre strade per stare ed essere nel mondo. E se ci stessimo preparando a una speciazione? E se fossimo gli ultimi esemplari di una specie di ominidi che si prepara a nuovi eredi? Alcuni di noi moriranno, forse anche chi scrive, altri sono già morti: gli individui svaniscono, l’energia della vita e del mondo che ci ospita resisterà. Per ogni vita che muore, rispetto. Dove ha fallito l’ambientalismo, incredibilmente, pare riesca un virus. Il dramma come rimedio è la farsa che si fa tragedia: gli esseri umani non cambiano per etica, ma per emergenza. Non siamo animali morali, siamo vigliacchi pieni di risorse. Nulla della morale è spinto dalle scelte, la paura spinge alla metamorfosi ma va gestita. E non si muta per emergenza proiettiva (il mondo prima o poi collasserà), per questo un personaggio positivo come Greta fallisce, ma per emergenza immediata (siamo al collasso ora): la paura di morire, improvvisa, dà fiato al cambiamento. L’aria è pulita, finalmente: respiriamola anche se dovesse essere l’ultima.

Recentemente, al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, la mostra di Claudia Comte “Crescere e avere sempre la stessa forma” ha riportato l’attenzione sulle strutture materiali all’epoca dell’apparente evanescenza imposta dal digitale. È un tema essenziale, oggi che tutto ci appare in “cloud”, per comprendere di cosa davvero sono fatte le cose: ritmi e leggi di ogni cosa, strutture identiche a quelle della natura che ci circonda e che noi riproduciamo, tutto questo con Comte ha preso una forma imponente. L’arte, senza la retorica degli -ismi, può aiutarci in un ragionamento banale ma sempre complesso da afferrare: ciò che c’è dietro al velo.

Il virus che si aggira per il mondo, e chissà come andrà a finire e se mai finirà, è parte integrante di questa stessa struttura da cui noi tentiamo di proteggerci: lo è nel senso che “l’infezione” è nel codice della vita, di ogni vita, batteri e virus vivono e muoiono con noi – li ospitiamo invisibili al nostro campo visivo, come noi siamo ospitati invisibili a un altro campo visivo che è l’ecosistema come iperoggetto temporalmente esteso e inafferrabile. Ci deprime una verità extra-teologica e brutale: siamo irrilevanti, un virus qualsiasi può spazzarci via in tempi rapidissimi. Non contiamo nulla, ed è una sensazione bellissima.

Ogni vita, per essere viva, deve essere infetta, fragile, cagionevole: è, come nell’arte di Comte, una struttura materiale che genera l’epifenomeno dell’immateriale che ci fa sembrare eterni e immortali. Come l’illusione che una mail inquini meno di una carta stampata, informazione falsa che brucia porzioni immense di natura tramite la materialità dei server, così l’illusione che il virus sia l’intruso materiale delle nostre vite perfette: invece noi siamo lui, lui noi. Virus è ogni vita che vive. Si esiste e si muore insieme – la struttura della vita è perfetta proprio perché è altra vita a distruggerla. Esseri coscienti significa avere il dono della consapevolezza, ma anche l’atroce arroganza dell’importanza: tutto, tuttavia, ci sopravviverà. Tutto a parte noi, ovviamente.

La sfida di ripensare ogni cosa, durante un momento così eccezionale, non può e non deve essere lasciata alla medicina, chi cura non sa perché sta curando: il ruolo dell’arte, ciò che le compete, è anticipare e mostrare punti di vista alternativi. Tentare di essere human-planet, ma qui e ora: se potessimo avere lo sguardo che tutto vede, che ogni cosa osserva, le strutture che compongono la vita ci apparirebbero per ciò che sono – bellissime, come bellissimo è il virus se oltre a essere combattuto, come è giusto che faccia la scienza, fosse anche capito – come invece dobbiamo fare noi, con l’arte e la cultura. Cosa significa svegliarsi una mattina, come in un racconto di Kafka, e ritrovarsi improvvisamente virus? Siamo dei Gregor Samsa collettivi. Infatti, come allo specchio, non siamo in guerra contro il virus, anche se contiamo morti e superstiti come fossimo dentro un conflitto mondiale: non possiamo essere in guerra col punto di vista di Gaia, che salva i suoi cieli e i suoi mari, ma possiamo interpretare la sua ribellione come un richiamo. È la Terra che sta cercando di salvare anche noi, ma prima di salvarsi senza di noi.

Strutture dunque, e ancora come con Comte, si tratta di alleggerire lo spazio per osservarne le sue forme – less is more? No, less in enough: quando è stata l’ultima volta che avete potuto passare del tempo a casa con i vostri cari invece che andare a lavoro? Che avete visto il cielo terso a Milano o a Pechino? Che avete avuto l’occasione di pensarvi come, e purtroppo anche di esserlo magari improvvisamente, mortali? Quando vi siete sentiti parte di una specie senza confini unita contro una forza superiore? Quando vi siete sentiti voi il migrante che fino a ieri avete respinto?

Pensateci, tutto questo, anche tutto questo, è stato e sarà un virus: un ripensamento collettivo, un’immagine di mondo inedita e nuova che come ogni rivoluzione uccide perché deve creare.

Ed è bellissimo perché anche io, mentre scrivo, non so se riuscirò a essere ancora vivo per leggermi quando sarò pubblicato.

Leonardo Caffo è filosofo e co-curatore del Public Program della Triennale di Milano. Insegna Filosofia teoretica al Politecnico
di Torino e Fenomenologia della arti visive contemporanee alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Conduttore e autore di Rai Radio 3, collaboratore del Corriere della Sera, scrive regolarmente su Domus. Ha scritto circa venti libri tra cui A come animale (2015) e Costruire futuri (2018) per Bompiani, La vita di ogni giorno (2016), Fragile umanità (2017) e Vegan (2018) per Einaudi. Tra i suoi ultimi libri Il cane e il filosofo (Mondadori 2020) e Dopo il Covid 19 (Nottetempo 2020).

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