As night falls… I’ll start to build
Abitazioni illuminate da deboli luci si addormentano mentre l’oscurità avvolge la città. I passanti spariscono. Le attività umane cessano poco a poco. Tutto sembra convergere verso una notte totale. Capovolgimento del tempo. Una figura isolata raduna degli elementi sparsi e comincia ad assemblarli. Confusione di rumori e di gesti. Trascorrono delle ore piene e febbrili. All’alba viene portata a termine una casa. As night falls… I’ll start to build (2017), paesaggio di resistenza ai margini delle costruzioni istituzionali, l’opera di Gaetano Cunsolo (1986, Catania) prende forma nel campo della performance e attraverso protocolli di ricostruzione in lotta con lo spazio espositivo. La scultura, l’istallazione, la fotografia, le atmosfere sonore sono marcatori di un pensiero in movimento che rifiuta di lasciarsi andare al fatalismo e all’immobilità.
Austerlitz[i]
Al contrario dell’architettura monumentale che nasce per diventare rovina (dato che non può essere qualcosa di più avendo raggiunto il massimo della sua superbia), dominando corpi e spiriti, conducendo dalla fascinazione per il sublime al terrore prodotto dalla sua massa smisurata che impone il rispetto, la paura, la sottomissione; al contrario di questa distopia della creazione, esiste una riduzione della dimensione e dell’ambizione in favore di una celebrazione della vita stessa. W.G. Sebald, in Austerlitz, prende come esempio il Palazzo di giustizia di Bruxelles interrogando il rapporto del corpo all’architettura[ii]. Nell’opera di Cunsolo, quest’ultimo non è inferiore alla costruzione ma entra in relazione con essa. Un solo individuo basta per costruire la propria casa, abitarla, distruggerla. Può anche essere aiutato da una piccola comunità di affetti come nel film Il tetto (1956) di Vittorio de Sica, ambientato a Roma, dove i protagonisti Luisa e Natale, grazie all’aiuto di amici e colleghi, riescono a completare la loro nuova casa in una sola notte. Vittorio de Sica racconta con questo film di una pratica popolare in uso fino il primo dopoguerra, dove nulla tenenti e famiglie in povertà assoluta, decidevano di occupare terreni durante la notte e innalzare semplici case fatte di mattoni e malta allargando i perimetri delle città. L’architettura diventa quindi un’unità commisurata al gesto. L’unità della massa vale come unità del tempo. In una notte una casa può essere costruita. In una notte, una vita si può riappropriare dello spazio che le spetta.
“Coloro che non hanno fascino non hanno vita, sono come morti”
Guardando soprattutto a Colin Ward (progettista e anarchico che ha studiato e documentato la pratica della Casa costruita in una notte[iii]), Cunsolo invita a considerare come alcuni costumi e pratiche non convenzionali, che vanno contro l’ordine legale e alla ricerca di una legittimità, possono essere degli atti di creazione, volti al benessere e per la salvaguardia di modalità alternative di solidarietà. Contro l’oppressione e la pesantezza del protocollo burocratico, l’artista riconsidera ed esplora modelli e soluzioni in disuso, che si attivano nell’assenza di ciò che é regolamentato e riportano il soggetto a dimensioni che lui stesso stabilisce. É quindi una condizione di totale precarietà, dove fragilità ed errori diventano parte costitutiva del suo fascino[iv].
Metodologia della visione periferica
Ogni performance, ogni allestimento richiama uno stato di fragilità, una precarietà necessaria allo sviluppo di uno stato di coscienza. La combinazione dei materiali di recupero e scarti, testimoniano, nelle loro forme finali di incompatibilità della materia, una difficile articolazione della vita e delle sue condizioni, dell’impossibilità di creare senza porre degli obblighi specifici. Ma non si tratta qui di forza o di brutalità. L’instabilità, la fragilità e la precarietà stessa diventano le forme elementari che compongono la scultura. La scultura non è un elemento centrale, ufficiale, appesantito, esclusivo; é testimone piuttosto di una metodologia della visione periferica. È come se Cunsolo si allontani in anticipo dal fuoco, dal punto centrale della visione, per ricreare nello spazio espositivo situazioni marginali come priorità etica. Lo spazio dell’esposizione è il luogo d’incontro tra il processo di creazione che rifiuta gli effetti speciali, i trucchi, e il movimento dell’osservatore, che diventa amico e narratore[v]. La scultura è pensata nella sua interdipendenza con tutti gli elementi del lavoro, come nella prospettiva dell’atelier di Brancusi che mira costantemente alla ricerca di un’unità di insieme[vi].
Le costruzioni fanno rivivere un processo che può essere continuamente messo in discussione e che suppone una potenziale reinterpretazione. Lo spazio espositivo si dilata in questo senso. Può esistere come momento dell’opera poiché questa non è sottomessa a un determinismo della forma compiuta. Così, un certo elemento, una certa opera possono trasformarsi nel corso di altri momenti. Questa facoltà di trasmutazione suppone l’abbandono di una definizione.
Zona d’improvvisazione temporanea
Pannelli di legno avvitati a fianco di una finestra che diventano abitazione, poi maquette e ancora un’altra abitazione, che poi scompare. Apparizione di suono, resurrezione di una forma elementare, presenza di muffe. Luce interna che diviene esterna, contraddizioni di colori e di forme. Interrelazioni di materie. Le improvvisazioni scultoree di Cunsolo sono vettori di una transizione permanente delle forme. Il racconto di queste forme funge da eco alla precarietà dell’abitare, all’impossibilità di dire se viviamo in un esterno o in un interno. Il ripiegarsi della forma su se stessa è la prova dell’esistenza di una circolarità permanente tra paesaggio espositivo e scultura come oggetto creato per un dialogo interiore. La scala, ribaltata, pone un termine alla gerarchia. Lo sguardo è incapace di fissarsi. Non esiste che di rimbalzo. Poiché la fissità è la condizione di sottomissione a forme sociali di dominazione, lo spazio espositivo è una zona di improvvisazione temporanea. Sebbene siano evidenti i legami con l’Arte povera, la vera eredità artistica si coglie nella metodologia di lavoro, quella cioè di cui parla Luciano Fabro quando cita Fontana a proposito dello spazio mentale (rappresentazione e proiezione) contro lo spazio del fuori (lo spazio dato)[vii]. Per Fontana l’opera diventa lo spazio mentale. Per Cunsolo sono il percorso e il dispositivo dell’esposizione in movimento a tradurre lo spazio mentale come esperienza della forma.
Spostamento permanente
L’impegno artistico di Cunsolo si afferma in opposizione e al di fuori dell’ordine monumentale e istituzionale che si impone alla società senza relazione affettiva. É l’espressione stessa della scomparsa del quotidiano. Rispetto a questa pratica rigida l’artista preferisce delle vie meno ufficiali, più direttamente legate agli abitanti e al loro modo di vivere. Non si tratta più di costruire per rispondere all’utopia, ma di ricostruire per liberare lo spazio pubblico, aprire alla relazione interpersonale e de-costruire l’eternità di un’architettura come elemento normativo. Il tempo non è più infinito, ma è a misura dell’umano, della sua condizione. La dimensione effimera, non definitiva di queste forme, permette di pensare la relazione con lo spazio domestico, dell’abitazione e del quotidiano rifiutando la pianificazione della vita. Lo spazio è ibrido: tutto è costruzione e de-costruzione, senza cause né conseguenze.
La precarietà : tristezza del corpo
Sentire la povera solitudine del corpo ferito dalla dominazione sociale, fermarsi un istante a contemplare la tristezza di essere incarnati, è il consenso di uno spirito libero e l’atto politico necessario alla resistenza quotidiana. Mentre alcuni vivono nel felice e dolce sviluppo della vita, nell’oblio del corpo che soffre e nel permanere di un corpo plutocratico, colui che vive la precarietà mostra ogni giorno di più il dolore di essere dominato dalle condizioni dell’esistenza. Non si tratta di soddisfare un tale stato di sofferenza, ma di trasformare lo stato del corpo in uno stato della mente che attiva il rifiuto permanente di essere oppresso. In questo modo accettiamo due volte il nostro mondo: accordandogli una prima volta le sue condizioni di espressione e una seconda volta trasformandole.