Germano Sartelli rappresenta uno dei principali esponenti dell’Informale italiano, e non solo. Nel 1958 viene invitato a esporre per la prima volta a Bologna da Maurizio Calvesi; successivamente insieme ad Afro, Basaldella, Lucio Fontana e Cesare Gnudi, verrà invitato dallo stesso Calvesi alla Biennale di Venezia del 1964, quella “scandalosa” resa celebre dallo sbarco in Europa dei ragazzacci della Pop Art.
Dagli anni Cinquanta fino agli anni Ottanta insegna pittura nell’atelier dell’Ospedale psichiatrico “Luigi Lolli” di Imola, istituto fondato a fine Settecento e chiuso definitivamente solo nel 1996.
Tale esperienza è determinante per leggere il percorso di Germano Sartelli, che da questa esperienza prenderà molti spunti. Il manicomio sorge tra città e campagna, il matto, dunque, viene “decentrato” rispetto al resto della società, rimanendo in una terra di mezzo. In quest’area sospesa, progettuale prima che spaziale, fioriscono i modi delicati e unici di Germano Sartelli.
Enrico Morsiani: Oggi viviamo una sovraproduzione continua di immagini, progetti e nuove opere. Come è possibile fare le differenze e riuscire a distinguere ciò che ha valore da ciò che non lo ha? A tuo parere come è possibile stabilire se una cosa, o un’opera d’arte, abbia valore oppure no?
Germano Sartelli: Deve far porre una domanda. Deve aggiungere qualcosa, qualcosa di nuovo, altrimenti è casualità. Guarda (indicando una lamiera di rame posta su una base di legno). Parto da elementi astratti per ritrovare la figura umana. Ma con questo braccio, faccio fatica.
EM: Il limite del tuo braccio potrebbe essere uno stimolo nuovo, come se il tuo braccio tendesse lui stesso all’astratto e stesse facendo il percorso inverso a quello del tuo lavoro.
GS: Hai ragione. Non lo avrei mai fatto senza questi limiti.
EM: Come ti è venuta in mente l’idea delle opere con le ragnatele?
GS: Giravo per le cantine del Lolli (l’istituto psichiatrico in cui Sartelli ha lavorato per 30 anni). Sapevo dove andare a cercarle.
EM: Oggi sarebbe più difficile, tutto è più pulito.
GS: Io le troverei anche oggi… addirittura si potrebbe togliere la ragnatela e mettere al suo posto una struttura con fili di ferro. E poi tornare dopo qualche tempo. Il posto della ragnatela non è mai casuale, perché vuol dire che arriva un filo di luce.
EM: Mi puoi parlare dei tuoi quadri fatti con i mozziconi di sigaretta?
GS: Erano i mozziconi di sigaretta dei pazienti del Lolli (ride). Dopo un po’ ero io che gli portavo le sigarette… facevo quadri anche molto grandi (sorride).
EM: Poi ho visto i nidi.
GS: Sì, li facevo io con il fieno. Li modellavo.
EM: In alcuni hai modellato le conche del nido, altri li ha lasciati pari.
GS: Modellavo il fieno. Facevo concorrenza alla natura (sorride).
EM: Mi sembra straordinario come tu abbia il dono di trasformare quello che è considerato un rifiuto, nascosto e marginale, in qualcosa di delizioso e delicato. Ma fai questo senza stravolgere la natura precedente di questi frammenti. Questa trasformazione non si impone mai, ma esiste in punta di piedi.
GS: Tutto è bello. Guarda quella siepe là in fondo. C’è un filo arrugginito, in mezzo, che la attraversa. A me interessa di più il filo che la siepe.
EM: Il tuo è un modo di rifare il mondo. Hai qualche riflessione su questa idea di rifare il mondo?
GS: No. Guarda, preferisco di no. Faccio fatica anche a parlare (sorride). Non mi sono mai trovato a mio agio con le interviste.