Nel mondo dell’arte è avvenuto un delitto: l’omicidio della pittura. I più non se ne accorgono perché continuano a incontrarla in mostre, fiere e musei. Ma ormai, ciò che si vede è solo il suo fantasma, o le sue spoglie senza vita. Critici e curatori non vogliono ammetterne la scomparsa. Se interrogati tergiversano; se accusati, negano. Complici del delitto nei fatti, la elogiano a parole. Dei morti non si può parlare male.
La morte della pittura
La pittura, come ambito di sviluppo del pensiero critico, è defunta. Persiste solo ripiegata su se stessa, per forza di inerzia, per tradizione, per nostalgia. Patetico strumento autocelebrativo del pittore innocente o dell’artista nostalgico. Gian Marco Montesano questo lo sa: “La pittura non è morta per una questione di moda, di gusto o per chissà quale altra strana ragione — afferma — ma perché le è stato tolto il terreno sotto i piedi, è venuto meno quel mondo e tutto il sistema di valori che esprimeva, che la giustificava: il mondo dei grandi postulati, dei grandi progetti, dell’utopia, che aveva generato le avanguardie, sia politiche che estetiche”. Cadute le grandi ideologie, cade anche il mito dell’artista demiurgo, del “maestro” che ci dice cosa fare e dove andare. Siamo nell’epoca dell’avanzata delle moltitudini che portano con sé nuovi linguaggi.
Comincia così, con un paradosso, la storia di Gian Marco Montesano: convinto che la pittura sia finita, eppure pervicacemente pittore. Ma la sua posizione non è quella di chi fa di tutto per soccorrerla, per riportarla all’antico splendore, e nemmeno quella dell’aedo che siede sullo scoglio a decantarne la memoria. La posizione di Montesano verso la pittura è più complessa, eccentrica e, allo stesso tempo, chiarissima.
Disilluso, cinico, freddo, la utilizza non per la sua bellezza o per il suo potere evocativo. Ormai cadavere, la disseziona e la analizza. Ne ripercorre le classificazioni: il ritratto, il paesaggio, la natura morta, le scene di genere. Nel modo apparentemente più banale: semplicemente dipingendo. Anche “male”, talvolta, tanto per chiarire che non è la qualità artigianale che lo interessa. Uomo di un’altra generazione, ma più giovane di molti giovani pittori, sa che la pittura non può oggi che raccontare se stessa, come oggetto di autopsia sul tavolo di anatomia patologica.
La fine della storia
Se la pittura è morta, è morta anche la Storia. La caduta delle ideologie e dei valori porta nel baratro della dimenticanza anche la trama degli eventi, quella concatenazione di cause ed effetti a cui tutti, umanisticamente, ci sentiamo ancora un po’ aggrappati, e che la pittura ha rappresentato dall’avvento della borghesia europea alle avanguardie, anch’esse inesorabilmente borghesi. Così abbiamo visto passare nei dipinti di Montesano i volti di personaggi noti, di uomini che hanno fatto la storia del “secolo breve”, di Lenin, di Stalin, di Hitler e di Mussolini. Abbiamo visto attrici famose, atleti aitanti, pin up, teneri bambini, santi e militari. Come nelle vecchie cartoline, nei calendari o nei manifesti, evocati alla memoria dal bianco e nero, dai grigi algidi o dai colori pastello di altra epoca. Malinconici forse, se non fosse che la malinconia è un prodotto umanistico e Montesano la introduce con inganno. Gli serve per ricreare un gusto popolare, mentre lui popolare non lo è affatto.
La pittura finisce, la Storia anche, restano solo le immagini che ci possono toccare perché appartenenti a un sentire collettivo. Galleggiano, sperdute tra le altre, provocando un effetto di nostalgia. Ma Montesano sa che per alcuni — per molti giovani artisti per esempio — la faccia di Hitler potrebbe essere confusa con quella di Charlie Chaplin, gli anatroccoli sul tavolo di Stalin con personaggi di Walt Disney.
Postumanesimo postmoderno
Ma il gioco di Montesano è ancora più sottile. Egli non ha intenzione di cantare nessuna fine, sarebbe inutile. Il suo è un esame freddo e distaccato. Per questo rischia di essere accusato da destra e da sinistra: visto come un rivoluzionario, che usa la pittura per minare il sistema dall’interno, oppure come un revisionista, che avvalla col suo gioco il gioco di tanti inutili pittori. Montesano sa che il bene e il male, il bello e il brutto, se ne sono andati con il secolo che ci siamo lasciati alle spalle. Fascismo, nazismo, comunismo, sono sullo stesso piano, per quanto possa non piacere ai tanti ancora legati alle ideologie che, pure quelle, sono scivolate via insieme ai ricordi dei loro misfatti.
Oggi il primato va alla tecnologia, che assume in sé ciò che una volta era il lavoro specializzato, l’artigianato fatto con qualità. E la tecnologia non contiene giudizi, perché non supporta punti di vista. Allora l’artista, se ancora lo si vuole continuare a chiamare tale, si fa macchina esso stesso, servomeccanismo di una generale caduta dell’io. Warhol l’aveva già capito: “Il suo desiderio ultimo era quello di diventare macchina. Le macchine sono perfette perché non si oppongono a nulla, non criticano nulla”, dice Montesano in un’intervista. Dunque la pittura è solo uno strumento, il più immediato, perché ormai inserito quasi nel codice genetico dell’uomo, per raccontare questo cambiamento epocale.
La morte
Potrebbe sembrare un gioco di grande ambiguità. Di un cinismo smaliziato e perverso, che si prende beffa dei sentimenti e li travia. Ma al di là delle apparenze, il tema di Montesano non è la pittura. E nemmeno la Storia. Il tema è ancora più vasto e generale. È quello centrale, soprattutto di questi tempi, da Hirst a Cattelan: la morte. La morte di Hirst è oggettiva, presentata tale e quale in una dissezione reale. La morte di Cattelan è tragicomica, coperta da un velo di ironia che sembra ancora consentirci di continuare a vivere. La morte di Montesano è l’assenza; con la morte sparisce anche il corpo. La vita è stata risucchiata dalle immagini, divenute spettri opachi, ombre nella memoria. Grande amico di Baudrillard, Montesano sa che la realtà è sparita, sostituita dai suoi simulacri. E allora cosa meglio della pittura, simulacro dei simulacri, può servire a raccontarla?
Fiori del male
Prendiamo i fiori, ultima produzione dell’artista. Fiori giganti, ipercresciuti, bulimici. Maestosi, rigogliosi, ma in realtà immagini troppo belle di una flora senza linfa. Fiori del male, che la società dello spettacolo ha fatto crescere a dismisura, ma che contengono il veleno della loro morte. Affascinanti, come le cose belle a cui ci possiamo aggrappare per un minuto e poi ci lasciano ancora più vuoti. Fiori mutanti, la cui malattia si cela dietro le apparenze. Ci rimandano anche alla storia dell’arte, agli olandesi del Seicento, ai Bollongier e ai Coorte, alla natura morta, che è il genere che più di tutti ha incarnato il senso della vanitas, dello scorrere del tempo, dell’ineluttabile fine. Ma Montesano sa troppo bene che ormai la storia dell’arte vale poco: un caterpillar ha spianato le differenze di valori, ha abbassato la Gioconda alla pubblicità della Ferrarelle e ha elevato la pubblicità ad arte con Andy Warhol. Più che alla pittura olandese, i suoi fiori si riferiscono a Sanremo. “Grazie dei fiori” è infatti il titolo della serie. Una canzone di Nilla Pizzi vale quanto un saggio critico per descrivere questa esplicita caduta di valori, in una atmosfera di spettacolo demodé, di teatro da avanspettacolo, con un refrein che continua a suonare.
Il teatro dell’arte
Si dice che Molière sia morto in teatro: la scena come luogo del delitto. Cosa c’è di più mortifero del teatro, dove tutto ciò che accade è falso, prodotto da una luce direzionata o da una macchina per il fumo? Montesano è cresciuto facendo la regia per Gil Goldfinger e per Dodò d’Amburgo, prima di diventare transfugo in odore di terrorismo, filosofo rivoluzionario amico di Deleuze, Guattari, Baudrillard e Toni Negri, e infine artista, più per trovarsi un ruolo che per vocazione, più per gioco che per missione. Ma la dimensione scenica non l’ha mai abbandonata e oltre a continuare impunemente a scrivere e a dirigere pièce teatrali, il teatro affiora anche nei lavori artistici. Teatralità è infatti il segno di questi grandi fiori, e come ogni dramma non è mai vero. Ma qui il vero dramma è che tutto è falso, anche il teatro. Tutto falso, dunque più vero del vero.
Chi ha ucciso la pittura?
Quello che Montesano commette è dunque un omicidio, è lui che ha ucciso la pittura. Dietro le mentite spoglie del soccorritore, infligge l’ultimo colpo alla vecchia signora, come Bruto nei confronti di Cesare. Sembra amarla, la pittura, sembra difenderla, ma in realtà la uccide perché ne svela l’inattualità, la perdita dell’aura che l’ha finora mantenuta in vita. E come ogni assassino che si rispetti, torna sempre sul luogo del delitto. Può apparire un paradosso: è un pittore il killer della pittura.