È strano intervistarsi a vicenda, per noi che lavoriamo insieme e siamo gemelli. Ti inviterei a considerarla un’occasione per un confronto oggettivo sul nostro “lavoro” e per metterci in questione. A ormai più di dieci anni dall’inizio della nostra “collaborazione” — che in realtà, in senso biologico, dura da 31 anni — pensi che la tua espressione artistica abbia trovato una propria strada? Pensi che lavorare in coppia con me abbia in qualche modo deviato la tua attitudine artistica verso direzioni impensate?
Sinceramente non posso dire di avere trovato una mia strada. Sto lottando per conquistarla, con e contro di te. Dunque lavorare “in coppia” non è il termine giusto. Piuttosto parlerei di un lavoro “collettivo”, che presuppone quasi un nostro annullamento. A proposito di questo, credi che il ritratto cui spesso i nostri lavori tendono sia dovuto a questa mancanza di un’unica, chiara identità? O forse semplicemente risponde a una necessità di trovare altri specchi oltre i nostri volti? Altre storie in cui disperderci?
Quando ci chiedono cosa facciamo rispondiamo sempre con la parola ritratto, ma che senso ha parlare oggi di ritratto, in una società in cui l’individuo è annullato nella sua identità e considerato solo nella sua superficie? Credo che alla fine sia corretto dire che nei nostri lavori mettiamo in piedi soprattutto degli autoritratti, o il nostro autoritratto. Pensi che arriveremo a parlare di noi direttamente, senza “mascherarci” in altre identità in crisi?
La maschera per antonomasia nasconde e amplifica. Spesso semplifica, ma cela dietro e dentro di sé vaste profondità. In A Dark Love (2008) il protagonista racconta un suo viaggio fantastico in una città fantasma, nelle viscere della terra, alla disperata ricerca dell’amore, mentre beve da un bicchiere che ne deforma il volto come una maschera (quasi una maschera di ossigeno, nel senso che dà e toglie ossigeno). I protagonisti dei nostri lavori sono persone che vivono un’identità sradicata che cercano di ricomporre mettendosi in gioco. Nell’atto di rivivere i propri drammi, le proprie lacerazioni esistenziali e sociali, li rielaborano attraverso una messa in scena che coincide con un atto performativo. Si può parlare, secondo te, del nostro lavoro come di una sorta di terapia? E in cosa consiste, davvero, la nostra funzione?
Non sono d’accordo. Non possiamo parlare di terapia, il termine è fuorviante. Si tratta semplicemente di umana voglia di mettersi in gioco, di cambiare le regole che la vita impone, di coraggio e di dignità. Ecco: non credi che il lavoro cinematografico che sempre accompagna e dà forma a questi ritratti sia proprio una necessità di palingenesi, capace di dar(ci) nuova vita e dignità? O forse non dovremmo trovare alcuna definizione del nostro lavoro?
Sì, forse è sbagliato e impossibile definirlo. Se vogliamo cercare una definizione dell’artista, piuttosto dovremmo riflettere sul concetto di libertà, che in un certo senso significa renderlo sfuggente a ogni definizione. Ma cosa mi dici della libertà dello spettatore? E di quella dei protagonisti?
Lo spettatore è etimologicamente un soggetto riflettente. Il gioco di specchi tra noi e loro, e quello tra noi e gli “attori”, costituisce la base, solida e insieme effimera, della nostra e della loro libertà. I prossimi progetti saranno la mostra per la prima edizione del Premio Italia Arte Contemporanea indetto dal MAXXI e un “ritorno” al cinema di finzione, un lungometraggio per le sale: due appuntamenti vicini nel tempo e importanti per il nostro percorso artistico. Quanto pensi ci sarà delle nostre “deviazioni” artistiche, sia in senso formale che in senso contenutistico nel film? E quanto sopravvivrà della pratica filmica nel lavoro installativo?
Il tentativo è sempre quello di cercare dei varchi di libertà in cui lo spettatore possa contribuire alla creazione dell’opera. L’aspetto “performativo” e la visione “fluttuante” dell’installazione può in qualche modo tradursi in un’estetica dentro un lavoro più classicamente cinematografico. E lo spazio di sogno e di tensione visionaria del film può trovare nuova forma nelle installazioni. Ma il problema è soprattutto di contenuto. Si assiste, da un po’ di tempo, a una tendenza dell’arte a svuotarsi di umanità, a relegare l’uomo a periferia del discorso, come se non fosse più compito dell’arte cogliere le relazioni invisibili tra l’uomo e la realtà che lo circonda, tra l’uomo e la società. Spesso si parla dell’artista, in un circolo autoreferenziale, perché neutralizza l’arte e la condanna sempre a parlare di se stessa…
Dunque stai mettendo in causa l’idea stessa di autoritratto di cui parlavamo prima? O forse parlare di autoritratto non significa essere autoreferenziali? Se convieni su questo, converrai con me nel dire che autoritrarsi porta a disperdersi (e a immergersi) in realtà collettive che inevitabilmente aprono lo sguardo verso comunità. Ed è questo il motivo per cui a un certo punto del nostro percorso, in particolare con le nostre due ultime mostre, “Bakroman” (Ar/ge Kunst, Bolzano) e “No Fire Zone” (Fondazione Merz, Torino), abbiamo spostato l’attenzione su alcune identità collettive. In cosa trovi continuità e in cosa secondo te c’è invece discontinuità con i lavori precedenti?
In realtà i lavori in pellicola come Maria Jesus (2003), Mio fratello Yang (2004) o Lezioni di arabo (2005), pur mettendo in rilievo singole personalità, partono dall’immersione nelle comunità di cui parlavi. Le tre sfide in free-style di Shade — Ensi e Shade (2006), Raige e Shade (2007), Rew e Shade (2007) — sono un ritratto di una generazione che si esprime con un linguaggio a sé. La trilogia Love — A Star Love (2008), A Dark Love (2008), Animalove (2009) — ritrae alcuni ragazzi con disagi psichici, i loro sentimenti e il loro modo di vivere l’amore: vivono in una casa-comunità che cerca di restituire loro una socialità, un modo di organizzarsi la vita. Negli ultimi lavori, No Fire Zone e Bakroman, nonostante ci sia uno sguardo più allargato alle comunità e alle sue strutture, è attraverso la via del ritratto che cerchiamo di farci strada. Cambia la formalizzazione, l’uso dello spazio espositivo e del tempo della fruizione. No Fire Zone dura due ore e mezza, divise in undici schermi, proiezioni e diapositive. Bakroman è invece un viaggio di quasi cinque ore nella vita di un sindacato di ragazzi di strada burkinabé, completamente autogestito. Come pensi che lo spettatore debba rapportarsi a queste immersioni in comunità in pericolo che cercano di ricucire una propria identità? L’arte può avere una funzione politica?
Probabilmente si tratta di un’utopia, però il nostro è un approccio votato sempre più alla creazione di una discussione politica, per dare all’arte una funzione di analisi e stimolo che sembra aver perso. “No Fire Zone” e “Bakroman” sono due “mostre-agorà”, anche se entrambe oscillano tra l’intimo e il politico.
Sì, ma utilizzano un linguaggio cinematografico e documentario, privilegiando allo stesso tempo l’atto performativo. Veniamo da un background che è ricerca di nuove forme di documentarismo e di sperimentazione, tra il documentario tout court e il cinema di finzione, in cui l’aspetto “performance” resta centrale. Le due mostre presentate quasi in contemporanea a Torino e a Bolzano sono due mostre gemelle: la prima è incentrata sulla diaspora tamil e sul tentativo di ricostruzione di identità spezzate dallo sradicamento, ma in forma quasi di commemorazione, rivolta alle vittime della guerra civile srilankese e basata su preghiere pubbliche di tipo performativo. Ha un aspetto intimo: i personaggi sono sempre soli e divisi dalla loro stessa comunità. La seconda sposta l’asse sul tentativo di singoli ragazzi, adolescenti e bambini, di formare una propria comunità autogestita: raramente sono soli, e tutti i lavori che compongono la mostra si basano sul rapporto necessario con “l’altro” e con la collettività; sono una riflessione sull’azione sociale per la sopravvivenza e sui dispositivi messi in atto quando si fanno i conti con la nostra presenza. In questo senso, non credi che le due mostre siano un lavoro anche sul nostro ruolo? Non credi che ci rispecchino, condannati come siamo a essere soli e insieme allo stesso tempo?
Senz’altro, ma sono anche la nostra maniera di riflettere sull’attuale dibattito sul rapporto tra arte, documentario e documento, prova. L’opera Seam, per esempio, presente in “No Fire Zone”, è composta da due parti: una proiezione di diapositive di case distrutte, campi di reclusione dei profughi tamil e altre immagini appartenenti all’archivio della guerra civile. Tali immagini scorrono al ritmo lento e inesorabile del cambio sequenziale, cadenzato dal suono del carosello a forma circolare del proiettore. A fianco, il video di un operaio tamil che lavora in una fabbrica di lana del biellese, come un’altra faccia della diaspora, o come suo punto d’arrivo. Due immagini in cui dialogano aspetti diversi della diaspora tamil: la tragedia consumata in Sri Lanka e il tentativo di rinascita in luoghi lontanissimi, testimonianza di frammenti dispersi dell’archivio della diaspora. Tale archivio, però, attinge a un database aggiornato continuamente sui siti Internet che i tamil dedicavano (durante la guerra che si è conclusa pochi mesi fa) alle stragi nel loro territorio di origine. Non è dunque un registro del recente passato che vorrebbe far riflettere sull’oggi: al contrario, è un archivio dell’immanente che si apre a riflessioni sulle vittime di tutte le guerre passate e ancora in atto. Non credi che l’arte debba in qualche modo far emergere una sorta di “resistenza” alla cultura dominante? Sia essa quella cingalese in Sri Lanka, o quella di qualsiasi altra situazione?
Credo che un’opera d’arte possa lottare contro la violenza del potere e dell’ideologia dominante. Per esempio captando le realtà invisibili e le nuove forme d’identità, cogliendo nei punti di crisi e di lotta le modalità e le energie per imporre nuove forme di rappresentazione. Sporcandosi le mani, uscendo dal guscio di una mera meta-riflessione, di un’autoriflessività vuota, valorizzando la memoria come atto profondamente umano e dunque insieme artistico e politico. Sarai d’accordo con me nel dire che abbiamo sempre avuto l’ossessione della memoria. Perché, secondo te, la pratica della memoria è una pratica artistica per eccellenza? Come renderla penetrante nel presente? Come trasformarla in un detonatore che scateni meccanismi uguali nello spettatore?
Essa di solito si affida a delle immagini e a un racconto-ricostruzione: questo basta per renderla intima e universale, per creare nello spettatore la commozione e dunque la compassione che muove il nostro stesso agire di artisti. Certamente le due parole vanno prese nel loro significato etimologico. Cosa secondo te ci spinge ad avvicinarci a realtà così marginali? Quale sentimento? Non è forse proprio la compassione o la misericordia, in un’accezione non meramente cristiana? E quali dispositivi possono meglio scatenare questo sentimento? Il racconto è uno di questi, ma da solo non basta.
La misericordia sarà al centro del nostro lungometraggio e forse anche dell’opera che realizzeremo per il MAXXI, ma con un approccio, un punto di vista e una formalizzazione diversi. Un altro dispositivo è certo quello dell’improvvisazione. Essa è sempre stata alla base dei nostri lavori, come un metodo naturale. Di fatto come definiresti questo elemento? Performativo? E che relazione intrattiene con lo spazio e l’architettura?
L’improvvisazione permette il crearsi di quella che chiamerei piuttosto “memoria performata”. Tale pratica, che investe direttamente le persone, non elude mai una riflessione sullo spazio che le contiene — o le esclude. Se dovessi ridefinire la nostra attenzione a questo aspetto, e tracciare un percorso ideale, posso dire che l’elemento dello spazio (spazio di vita, architettura, ecc.) è presente già in nuce nei primi film, soprattutto per mancanza o sottrazione.
In una scena del film Maria Jesus, la protagonista è appena arrivata in Italia clandestinamente. La troviamo dentro un taxi, mentre la radio elenca nomi di vie e piazze della città. L’immagine frammentata del suo volto in primo piano sancisce la sua perdizione e la sua alienazione tra le strade di un luogo a lei estraneo. In Mio fratello Yang i due protagonisti si riflettono sparendo nel cielo, dal vetro del loro camioncino, e poi definitivamente nel piano sequenza finale quando entrano nel tunnel. Lezioni di arabo è girato in 35 mm scope come i western, ma attorno lo spazio è vuoto e alienante, desolato e spoglio. Nei tre video di Shade è invece spazio del nostro quotidiano, ma anch’esso essenziale: un teatro, un bus notturno e un mercato all’aperto vuoti. Nella trilogia Love, lo spazio e il paesaggio sono creati dal racconto e si trasfigurano nell’invenzione di un nuovo linguaggio, di una nuova geografia, nei pori della pelle dei protagonisti. In Leo (un piccolo film che abbiamo realizzato per il Castello di Rivoli, in omaggio a Gianni Colombo), un giovane ex carcerato racconta la visione di una sua evasione dal carcere. La camera si sofferma sul suo volto percorso da farfalle e infine si perde in un giardino verde e paradisiaco, visto in “macro”, come attraverso una lente d’ingrandimento assolutamente visionaria. In Bakroman è uno spazio sociale vero e proprio e fa da contrappunto alle attività dell’associazione al centro del lavoro. Nella serie “Public Prayers”, lo spazio della nostra collettività è invaso dalle litanie delle intime confessioni dei tamil, che a loro volta descrivono i luoghi dei loro ricordi e puntellano una nuova geografia interiore della diaspora. In Seam i luoghi sono quelli riportati dalle diapositive, che ritraggono la No Fire Zone infranta dall’esercito cingalese e distrutta. Soul Diaspora è invece un’analisi dei confini e dei limiti tra corpo e anima, tra reale e spirituale, ma anche dei limiti architettonici e di senso dello stesso spazio espositivo. Tre piani sequenza a 360° indugiano rispettivamente sul volto di un bramino che racconta la storia dell’anima secondo la dottrina induista; sul volto di una giovane tamil piemontese che racconta la morte di suo fratello gemello durante la guerra, come se fosse l’anima di suo fratello a parlare; e infine dall’alto, sugli spazi tra esterno e interno della Fondazione Merz. Ma sono visioni parziali, che alternano ravvicinate macro a impossibili totali. Sono paesaggi — umani e geografici — frammentati, erosi, come testimonianze di un’epoca, la nostra, che si può comprendere solo attraverso le sue rovine.