Francesca Mila Nemni: Tutti i tuoi lavori sono avvolti da una nebbia profonda, completamente nera. Si intravedono solo i dettagli, ma la visione d’insieme è sempre negata. Che significato ha per te?
Gianni Ferrero Merlino: Indagare l’ineluttabilità delle forme è la conditio sine qua non del mio lavoro. Mettere in rapporto il visibile con l’invisibile, mostrare il perturbante. Il nero serve a cancellare l’immagine iniziale e nello stesso tempo a scoprirne una nuova attraverso un processo di annerimento che cancella i dettagli irrilevanti del soggetto. L’immagine si confonde nel buio che l’avvolge fino a ridursi a una forma originaria, primaria. Solo allora la fotografia rivela un luogo segreto e in apparenza invisibile in cui è consentito entrare e scoprirne i confini.
FMN: Mi ricordo un tuo lavoro (Marmo, 2007) in cui si vedeva un mare in tempesta. Anche in quelle immagini era negata ogni coordinata. Solo pochi hanno poi scoperto che non era acqua, ma lava solidificata, quella dell’Etna. Credi nell’incertezza della visione?
GFM: L’incertezza della visione è alla base del mio lavoro. Spesso realtà oggettive mutano e diventano luoghi estremamente fluttuanti, talvolta fittizi, che esistono solo grazie al mio intervento. Come in Marmo, appunto, dove la lava diventa un mare impetuoso carico di onde drammatiche. I miei lavori sono sempre in bilico tra il vero e il falso: il nuovo luogo mantiene le tracce del precedente e i soggetti percepiti, che non esistono nella realtà oggettiva, hanno la potenza di un’apparizione. Sono affascinato dallo smarrimento che le immagini possono suscitare.
FMN: Eppure il nero che avvolge le tue opere non comunica inquietudine ma protezione. Perché?
GFM: Il nero, che da molti è inteso come il colore della paura, è per me la porta di accesso a un mondo inconsueto, dove nulla è riconoscibile, tutto è silenzioso e ovattato. L’aria nera che avvolge i soggetti diventa densa e prende corpo attenuando tutti i sensi. Si viene nutriti da questo scuro grembo materno e si sperimenta la visione di un nuovo luogo fatto di inediti contorni.
FMN: Di cosa parla il tuo ultimo lavoro, DOM (2009)?
GFM: Il nero depositatosi sulla cattedrale di Colonia e su Santa Maria del Fiore di Firenze modifica i dettagli architettonici degli edifici e snatura la percezione dei volumi. I singoli dettagli delle cattedrali appaiono essi stessi rovine ottocentesche e lo spettatore dapprima impaurito, come Melmoth, l’uomo errante, va alla ricerca di una via di fuga che lo allontani dal torpore scuro che sembra opprimerlo. L’incalzante ritmia delle linee verticali diventa un labirinto metafisico dove le paure aumentano e l’unica salvezza è nella fuga.
O nel riuscire a decifrare l’immagine.