Onore al neonato museo MAXXI che ha deciso di aprire nel segno di Gino De Dominicis e gli ha dato l’occasione di grande visibilità che meritava. Onore ad Achille Bonito Oliva che ha proposto il grande artista e affrontato la difficile sfida. “L’artista più contemporaneo con cui potevamo cominciare”: così definisce De Dominicis la direttrice di MAXXI Arte Anna Mattirolo.
L’edificio progettato da Zaha Hadid è un oggetto plastico ardito e affascinante, ma irto di insidie per la collocazione e fruizione delle opere. Sarà fantastico e molto stimolante quando gli artisti saranno chiamati a cimentarsi in progetti site specific: ricordo l’entusiasmo e l’assertività con cui Tobias Rehberger ha scelto di intervenire con la luce nell’interstizio tra il corpo principale e il corpo sospeso dell’architettura per il progetto da me curato che ha inaugurato il piazzale esterno. Molto più complicato adattare all’edificio opere storiche o comunque già realizzate, particolarmente per quel che riguarda la pittura. Bonito Oliva ha parlato di un allestimento circolare per rendere l’idea della circolarità del tempo alla base della concezione dell’artista. L’idea è giusta, ma non del tutto leggibile. Nella sala Gianferrari al piano terra (quanto rimane del vecchio edificio) sono infatti concentrate la maggior parte delle prime opere, e di quelle che alcuni ascrivono alla fase “concettuale”, definizione che l’artista non avrebbe mai usato (“Il termine ‘arte concettuale’, di origine americana, in Italia è molto piaciuto, forse perché ricorda nomi di persona molto diffusi come Concetta, Concezione, Concettina, ecc., e viene di continuo usato supinamente per etichettare tutto ciò che in arte non è immediatamente riconoscibile”). Qui spicca la grata con le tracce dell’evasione (molti anni prima delle lenzuola calate da Cattelan).
Nella sezione situata nella “suite” (un piano inclinato che si libra nell’aria e termina con una grande vetrata) sono disposte la maggior parte delle opere di pittura, per lo più relative agli ultimi anni. A collegare idealmente il piano inferiore al piano superiore l’invisibile, omerica risata (D’io) e alcune opere pittoriche poste per le scale, grande oggetto scultoreo che occupa buona parte dell’edificio. Nel mezzo, altre tre esposizioni, tra cui la più grande dedicata alle collezioni di arte e architettura del museo, quindi naturalmente eterogenea.
Difficile dunque cogliere la concentrazione della mostra che offre ai numerosi visitatori la possibilità di vedere una enorme quantità di opere, quasi tutte (ed è quasi superfluo dirlo, visto che si tratta di De Dominicis) di alta qualità, tra cui molti capolavori della pittura. Tra essi le matite su tavola rappresentano a parer mio il più vero Gino De Dominicis, la testimonianza più alta: il risultato più complesso e profondo raggiunto attraverso una tavola di legno e una matita. Ricordiamo che De Dominicis in vita non ha mai esposto più di una quarantina di opere in una mostra: questo fu il caso della mostra al Magasin di Grenoble (a cura di Adelina von Fürstenberg). Sarà finalmente compresa la grande opera di Gino De Dominicis? Questa mostra è sicuramente occasione di grande rilievo e informazione. Sarà l’occasione per una presa di coscienza del mondo dell’arte sull’artista? Alla ricchezza corrisponde un grande affollamento, forse un ordinamento più snello avrebbe giovato soprattutto nel piano alto, favorendo soluzioni di allestimento. Questa mostra, presentando una gran messe di lavori, “normalizza” in un certo senso De Dominicis, lo omologa di fatto ad altri artisti in un percorso che alterna momenti sperimentali e paradigmi, mentre si attutisce il carattere di magica apparizione. Non è detto che sia un bene, ma neanche che sia un male.
La prima domanda che dovremmo porci è: questa mostra rende conto del carattere di eccezionalità dell’opera di De Dominicis, della sua eccentricità (e non parlo della sua vita considerata stravagante e fuori dalla norma, ma proprio del suo essere “fuori centro” rispetto al mondo dell’arte), della sua perseguita irriducibilità al sistema dell’arte? La seconda domanda è: una volta ricondotto all’interno dell’arte contemporanea, nel museo e nella storia, sarà più facilmente assimilato e riceverà la rivalutazione e il posto d’onore che gli spetta? Le due domande non sono retoriche e toccano a mio parere un punto fondamentale. Certo l’allestimento deve essere risultato particolarmente difficile in un luogo dove comunque, come è ormai tradizione in quasi tutti i musei d’arte contemporanea dal Guggenheim in poi, il contenitore è destinato a prevalere sul contenuto. È proprio quanto De Dominicis intendeva ribaltare. Sarà decrittata come chiave di lettura Mozzarella in carrozza all’ingresso? Oltre a formalizzare l’opposizione al “concettuale”, l’opera è la dimostrazione che la mozzarella rimane tale anche se alloggiata nel lussuoso contenitore (sto citando la spiegazione dell’opera che lo stesso Gino mi aveva fornito). La forza “antientropica” delle opere deve vincere. Il gigantesco scheletro (ridipinto?) sembra spezzare l’incantesimo. Intanto lassù, nell’alto dei cieli, il Grande Immortale guarda una navicella spaziale di nome MAXXI, atterrata a Roma, e sorride.