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23 Febbraio 2017, 11:07 am CET

Ho visto con i miei occhi quanto è lontana la terra di Alberto Mugnaini

di Alberto Mugnaini 23 Febbraio 2017
Veduta della personale di Ettore Spalletti presso la Galleria Lia Rumma, Milano 2010. Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano. Fotografia di W. Hannappel.
Veduta della personale di Ettore Spalletti presso la Galleria Lia Rumma, Milano 2010. Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano. Fotografia di W. Hannappel.
Veduta della personale di Ettore Spalletti presso la Galleria Lia Rumma, Milano 2010. Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano. Fotografia di W. Hannappel.

Per inaugurare la nuova sede milanese di Lia Rumma, aerea fortezza intagliata nel cemento e legata in vetro e acciaio, niente di più congruo che un’esposizione di Ettore Spalletti: i suoi volumi e le sue superfici, se nel loro pacifico angolarsi o centinarsi si assortiscono allo spazio per simpatia, poi, con i loro colori attutiti, quel loro strizzare l’occhio a moduli della tradizione rinascimentale, e una certa qual patina di preziosità e alchimia, vitalizzano questo stesso spazio in un contrappunto soffuso e discreto.
Al piano terra ci aspettano le opere più recenti, riunite in un’unica installazione, dal titolo Lago, dormiveglia. Eseguite nel 2010, sette tavole recanti i consueti impasti di colore perlaceo e impalpabile, in cui sempre, come una luminosità interna, traspare un sottofondo di bianco, si racchiudono intorno a noi all’interno di un box cubico, geometria entro geometria. Questa disposizione, votata all’ortogonalità, cela nei suoi intervalli come un respiro delle superfici, diversamente squadrate o stondate ai bordi, nel loro farsi spessore: ne risulta un abbraccio tanto fermo nel suo andamento regolare, quanto mobile e pulsante, fatto di trasalimenti della forma e della materia, di ritmi che modulano questa serie come il metro poetico di un carme.
Proseguendo ascensionalmente il cammino, ecco ancora colori traspiranti e pallidi, che disarmano e sfumano il rigore geometrico delle sagome su cui si depositano. Sembra che ci troviamo di fronte a una sorta di inquietudine della verticalità: come se questa fosse sottoposta a spinte dal retro, a punture di matita, a divaricazioni impercettibili, ci accostiamo a  pannelli color azzurro tenue, bordati dagli scivoli luminescenti di modanature in foglia d’oro, o segnati da fratture di spigoli che svelano un contorno in foglia d’argento. Se qualcuno pensasse di rapportare queste forme a una sensibilità di tipo minimalista si fermerebbe a uno stadio di abbozzo e di oscuro brancolamento dei volumi, a un loro limbo larvale precedente la discesa della luce, in attesa di quel tripudio atmosferico che ne sancisce il compimento e ne forma allo stesso tempo il carattere perennemente cangiante.
Al secondo piano — non si direbbe, da quanto siamo saliti in alto! — spiccano, tra un davanzale color antracite (Davanzale, 2000) e due tavole Così, rosa (2009), le Colonne perse (2000), tre steli erette a irretire la luminosità circostante, condividenti, ciascuna di esse, i connotati sia del prisma che del cilindro, liberamente traspiranti nei loro sfaccettamenti e nelle loro curve: una triade che sembra pigmentarsi d’aria, e reagire al bagno di luce in cui si trovano immerse con una sensitività cangiante e volubile, di natura, potremmo dire, meteorologica.
Rievocare, come termine di riferimento più compiuto ed eloquente, i moduli sperimentati da Piero della Francesca nel Quattrocento, come fa Nicola Spinosa in chiusura di catalogo, non è né esagerato né irriverente, ma sottolinea nella giusta misura un modus operandi asceticamente devoto all’artigianalità più genialmente innovativa della nostra tradizione plastica e pittorica.

Galleria Lia Rumma, Milano.

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