Attraverso una ricerca che scandaglia le forme organiche e il loro mutare ed evolversi con lo scorrere del tempo, Giuseppe Penone (Garessio, CN, 1947) giunge a interrogare l’essenza della materia. È la dimensione umana il metro di misura che l’artista utilizza per rapportarsi con la natura, in una speranza di comunione cosmica tra i due poli. Le sue sculture – spine d’acacia, foglie d’alloro, tronchi di ciliegio, sezioni di abete – combinano materiali naturali e poveri come il legno, a marmi e bronzi, invitando a una riconfigurazione del soggetto e a un ripensamento della realtà. Roma consacra Penone attraverso due mostre: “Matrice”, una grande personale curata da Massimiliano Gioni e presentata dalla maison Fendi al Palazzo della Civiltà Italiana; ed “Equivalenze” presso la Gagosian Gallery. Nell’intervista che segue Penone introduce le opere presentate nelle due mostre romane.
Massimiliano Gioni: Il Palazzo della Civiltà Italiana è un ambiente incredibilmente rivoluzionario ed estremamente classico allo stesso tempo. È uno degli spazi più rappresentativi dell’architettura del ventesimo secolo, in cui si fondono razionalismo ed eclettismo, un luogo misterioso e con moltissime sfaccettature. All’interno di queste architetture monumentali e sospese, ricche di citazioni dai paesaggi metafisici di Giorgio de Chirico, dialogano una serie di opere che contrappongono alla geometria precisa e agli elementi marmorei dello spazio, un senso della materia e della forma come entità vive e organiche.
Giuseppe Penone: La mostra “Matrice” è stata concepita in costante dialogo con gli spazi di Palazzo della Civiltà Italiana. Un monumento straordinario sotto tanti punti di vista, anche perché rappresenta un momento storico molto preciso. Sono passati tantissimi anni ormai da quando è stato costruito, quindi c’è un modo diverso di vederlo e di percepirlo. Tutto questo fa sì che, in ogni caso, lo si ritenga uno spazio molto interessante. Sono convinto che i luoghi determinino la lettura dell’opera e che l’opera dialoghi con i luoghi. Esporre in un luogo come il Palazzo, uno spazio con un disegno architettonico preciso, sotto un certo punto di vista inorganico, è una cosa molto interessante perché crea un forte contrasto con il mio lavoro. Un lavoro basato sulla materia, sulla retorica tra me e il materiale – tutto il contrario rispetto alla sensazione di quando uno si avvicina al Palazzo della Civiltà. In particolare, sono molto interessato al contrasto tra una certa retorica, un senso di magniloquenza, che è parte dell’architettura di quel particolare momento storico, e il senso di modestia e di necessità che è quello che ricerco nell’arte e nella natura.
MG: In fondo è come se negli spazi di Palazzo della Civiltà fosse spuntato un paesaggio naturale, anche se è una natura carica di storia, dove il confine tra tempo storico e biologico sembra essere sfumato.
GP: Sia nella mostra a Palazzo della Civiltà che nell’opera pubblica Foglie di pietra (2016) di Largo Goldoni c’è qualche ricordo involontario delle incisioni di Giovanni Battista Piranesi, con la vegetazione che si insinua tra i monumenti, li distrugge, ma li riporta a una nuova vita, inglobandoli e facendoli diventare natura. In particolare per Foglie di pietra in Largo Goldoni – che è anch’esso uno spazio contraddistinto da materiali molto duri – volevo che l’opera assumesse una presenza vegetale: il bronzo nel tempo cambierà colore e patina, diventando una materia simile al vegetale. Questo è un altro aspetto interessante del bronzo: è un materiale duraturo ma che preserva un carattere quasi organico, perché si trasforma nel tempo. È un materiale vivo. Quando lavori nello spazio pubblico, credo sia importante non cercare di affermare l’identità precisa di un momento storico che è il nostro: l’opera deve potersi collegare con il passato e con il futuro. In fondo si potrebbe anche dire che Foglie di pietra è semplicemente legata all’idea dell’albero come slancio, forza ed elevazione. Ma sottolinea anche il peso e il contrasto tra la forza di attrazione della luce e la forza di gravità. Il blocco di marmo dell’opera è lavorato mettendo a rilievo le vene che sono la memoria geologica della materia e scoprendo al suo interno un capitello che è la memoria storica di un materiale che da sempre è associato alla scultura.
MG: Hai parlato di Piranesi e in un certo senso si potrebbe tentare una lettura barocca del tuo lavoro: l’artificio, il virtuosismo dei materiali che simulano altri materiali, un certo effetto di meraviglia, che in particolare è molto presente in quest’ultima scultura in Largo Goldoni…
GP: Non so se mi identifico in questa lettura, perché non c’è finzione in quest’opera. Il blocco di marmo pesa davvero undici tonnellate e va sollevato a cinque metri d’altezza. La spettacolarità non è soltanto formale: anzi ha un elemento di realtà e anche di sfida e sensazione di rischio. Forse del barocco sopravvive la confusione tra l’organico e l’artificiale che è un problema centrale anche nel Novecento e ancora molto attuale oggi. Per me la meraviglia è uno strumento con il quale attrarre lo sguardo e da quell’attrazione nasce poi la riflessione. È un elemento del linguaggio della scultura. Se la meraviglia è fine a se stessa esaurisce immediatamente l’interesse che suscita. Il mio lavoro è basato sulla realtà dei materiali e sulla loro specificità e questo credo che sposti l’attenzione da un aspetto formale a un aspetto di riflessione sul reale e sulla rottura delle convenzioni. La scultura per me è un modo di intervenire nella realtà. Gli alberi, anche quelli di bronzo, sono veri.
MG: C’è una profonda sinergia tra i valori cari a Fendi e il tuo lavoro: la valorizzazione e il sostegno delle più alte espressioni della cultura contemporanea, l’intreccio tra innovazione e tradizione, il savoir-faire e la creatività. Da dove nasce l’idea di questa mostra in collaborazione con la maison romana?
GP: Questa mostra è nata dall’interesse personale di Pietro Beccari – Presidente e Amministratore Delegato di Fendi – per il mio lavoro. Ho visto prima lo spazio di Palazzo della Civiltà Italiana e ho immaginato cosa potesse funzionare in quello spazio. La mostra riunisce i lavori degli ultimi quarant’anni ma non si tratta di una retrospettiva. L’esibizione inizia con una serie di lavori di fine anni Sessanta/inizio Settanta e si conclude con la nuova opera Matrice che occupa un’intera navata della mostra. Inoltre, c’è anche una sorta di mostra all’interno della mostra: si tratta di una selezione di quaranta disegni, a partire dagli anni Sessanta ad oggi, incentrata sui progetti che ho realizzato negli spazi pubblici, dalle foreste alle piazza delle città. Credo che sia una parte molto speciale.
MG: Il titolo della mostra è mutuato da questa grande opera esposta. Perché hai scelto questo titolo? Quali tematiche abbraccia?
GP: Ho scelto “Matrice” come titolo di questa mostra perché è una nuova opera presentata in anteprima. Si tratta di una scultura molto larga. È un abete sezionato verticalmente in due parti, scavato seguendo un anello di crescita. Il risultato è una scultura lunga trenta metri, un negativo dell’albero a una certa età: è il tempo futuro del presente dell’albero che è assente. All’interno dell’albero ho riprodotto l’anello di crescita con un calco in bronzo, posizionato in seguito nel tronco. In questo modo ho reso visibili sia l’albero nella sua natura che l’immagine riprodotta dall’uomo. Spesso consideriamo gli alberi come oggetti solidi, ma se considerati nella loro crescita nel tempo, diventano una materia fluida e plasmabile. Matrice rallenta la nostra percezione del tempo, mostra il rapporto tra l’uomo e ciò che lo circonda e il cambiamento che una presenza può creare nelle cose che lo circondano; ma anche l’opposto, ovvero come il cambiamento delle cose che lo circondano influiscono sull’uomo. Mi piace lavorare con gli alberi perché sono una struttura scultorea perfetta, perché hanno la necessità dell’esistenza.
MG: Gli alberi scavati nei tronchi mi hanno fatto sempre pensare a una risposta in un certo senso polemica alla rigidità del minimalismo, anche se poi hanno quella dimensione quasi fiabesca che contraddistingue sempre il tuo lavoro.
GP: Non so se li descriverei proprio come una risposta al minimalismo, ma in quegli anni conoscevo già quelle opere, e c’era un contatto con quegli artisti e con i concettuali. Però non posso dire che il mio lavoro fosse una reazione diretta rispetto alle opere degli americani. In particolare io non ho mai fatto lavori utilizzando le possibilità di produzione legate all’industria. Anzi, nel materiale industriale io cercavo di ritrovare una forma naturale. Dopo tutto credo ci sia una conoscenza che nasce dalla materia e dal fare, che provoca l’immaginazione dell’opera come conseguenza dell’esperienza fisica e del tempo trascorso con un materiale. Molti miei lavori nascono da questa esperienza diretta. L’opera Essere fiume (1981-95), per esempio, l’ho pensata a seguito di un altro lavoro, che avevo intitolato Nero assoluto d’Africa (1978-79), che è il negativo di una figura scavata, di schiena, in un blocco di granito. Realizzandolo fisicamente, ho associato la tecnica della scultura in pietra con l’azione e quello che succede nel fiume, e ho sviluppato l’idea di Essere fiume. Ho preso una pietra nel Tanaro, il fiume del mio paese, ne ho risalito il corso fino a quando ho trovato la stessa qualità di pietra nel monte, ne ho preso un blocco che ho scolpito replicando esattamente la pietra presa nel fiume. Ho ripetuto l’azione del fiume. Questo per dire che per me ogni lavoro è basato sull’esperienza diretta, non solo sull’ispirazione o su un’esecuzione industriale, affidata ad altri.
MG: È una dimensione quasi artigianale che è sempre presente nel tuo lavoro.
GP: Io non riesco a fare un lavoro se non ho una conoscenza diretta del materiale e se non riesco a capire la successione dell’operare. E il materiale e la successione devono essere logici e corrispondere l’uno all’altro. Ci dev’essere un senso di necessità. In fondo è quello di cui parlano gli alberi scavati: l’albero ha una forma che ha la necessità della vita ed è a quel senso di necessità che deve aspirare la scultura. Per tornare alla tua domanda sul minimalismo e l’arte concettuale io ho avvertito sin da subito il limite di un’arte basata solo sul concetto. È un’arte che ti porta a un enunciato oppure alla ripetizione della forma, che limita l’immaginazione. Unendo invece l’azione al concetto, si ottiene una progressione, e si può sviluppare il proprio lavoro nel tempo. Il punto di partenza allora non è solo l’idea ma anche l’azione, e il rapporto che hai instaurato con la materia, con lo spazio, con il colore. È analizzando la realtà che si può arrivare all’idea dell’opera e non viceversa.
MG: Quindi gli alberi scavati non nascono da un concetto astratto?
GP: No, sono una conseguenza delle opere che ho fatto sulla crescita degli alberi, nei boschi: creando un contatto con l’albero che veniva memorizzato al suo interno, avvolgendone il piccolo tronco con una mano di metallo o inserendo nella sua corteccia un cuneo di ferro. Dopo quelle azioni ho pensato che, scavando nella materia dell’albero e seguendone gli anelli di crescita, sarebbe stato possibile ritrovare all’interno della materia il preciso momento in cui si era svolto il contatto tra me e l’albero. Poi osservando un asse di legno, ho capito che i nodi sono la sezione dei rami e ho pensato che avrei potuto riscoprire la forma dell’albero in un preciso momento della sua esistenza, scavandola in una trave di legno. Ho provato e così ho realizzato un primo albero che ho portato nel 1969 alla galleria di Sperone a Torino e ha suscitato un certo interesse. Quello stesso anno ho realizzato parecchi alberi scavati nelle travi. I miei alberi erano per me una reazione all’inorganicità delle forme minimali presenti in molte opere di quegli anni, in cui c’era anche una lotta in corso contro l’idea dell’oggetto. In questo senso i miei alberi suscitavano anche delle perplessità, perché erano appunto degli oggetti. Per me un’opera d’arte è sempre stata la sintesi di tante idee in uno spazio o in una materia. Se non c’è sintesi, non c’è opera. Un’opera che non è compiuta, che ha bisogno dell’autore per vivere, per resistere, è un’opera che manca di sintesi e, soprattutto, è un’opera limitata alla vita dell’autore. Un’opera che ha bisogno di essere alimentata per esistere, è un’opera che vive soltanto in un contesto sociale, economico, politico specifico. Non si tratta di celebrare l’oggetto come feticcio. Piuttosto, credo che ogni lavoro sia legato alla nostra volontà di presenza, anche se illusorio, perché esistono di sicuro il passato e forse il futuro, ma il presente non c’è perché nel momento in cui lo enunci è già passato. L’opera incarna il desiderio di permanenza, che è legata alla nostra condizione umana, alla nostra incapacità di accettare l’assenza, al nostro desiderio di posticiparla.