In quel crogiuolo di fermenti e di sperimentazioni che animò la scena artistica romana a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, Giuseppe Uncini trovò un fertile terreno per ritagliarsi una posizione tutta sua, e per approdare a un modo nuovo e inconfondibile di fare scultura.
Prendendo le mosse dalle più consapevoli ricerche informali — non a caso il giovane marchigiano sbarcato a Roma si stabilì per qualche anno nello studio che era stato di Alberto Burri — usò terra e marmo tritato, tufo sbriciolato e carbone, polvere e cenere. Ma già in questi tentativi preliminari, che corrispondono al periodo delle “Terre” (1956-57), anziché lasciarsi andare a una vidimazione del caotico e dell’informe, lo vediamo intento a comporre masse e ad aggiustare proporzioni, preparandosi a vivere un periodo di rivoluzioni formali di cui sarebbe stato uno dei protagonisti.
Ciò che colpisce, in questo periodo, è l’intreccio di progetti e prospettive, il fervore di sperimentazione che anima e coinvolge le personalità più promettenti del nuovo panorama artistico. È significativo, in due occasioni memorabili, a Roma e a Bologna, trovare il nome di Uncini accostato in mostra a quello di Francesco Lo Savio, Mario Schifano, Franco Angeli e Tano Festa. Era il 1960: da che cosa erano accomunati, allora, questi giovani talenti? Emilio Villa, che si prese cura di loro, lo spiegò in termini esemplari: tutti “operano semplici opere […] dentro la sostanza della materia povera, trovata, tentata e ritentata come disponibilità di pronuncia e di identità”. È l’idea di una potenzialità inarrestabile, di un ritorno alle origini del fare, di una vitalità senza freni. E così fu, anche se su quelle esperienze già si addensava l’ombra minacciosa di reciproche incomprensioni e di drammatiche vicende personali.
Impegnato, insieme a questi straordinari compagni di strada, a superare le secche dell’Informale, Uncini avvertiva come primaria anche la necessità di liberarsi dal giogo della rappresentazione. Ecco apparire allora il cemento e il ferro coniugati insieme, i suoi materiali d’elezione, scelti non per la loro espressività materica, ma per un suo impellente bisogno di costruire e di strutturare. Stretto in casseforme di cui conserva l’impronta, perforato da reticoli che gli offrono sostegno e lasciano tangibile la traccia del processo operativo, l’oggetto in cemento si presenta come progetto incarnato nel suo farsi, oltre che come testimonianza di un’eredità artigianale e culturale. Il cemento armato era lo strumento ideale per realizzare “una superficie strutturata autoportante che al di là della rappresentazione significasse solo se stessa”. Un’opera come Primocementarmato (1958-59) sancisce la coincidenza fra processo e risultato, e si pone come oggetto costruito “lasciando a nudo tutti i procedimenti tecnici del suo farsi”.
Il ricorso alla tecnica del calcestruzzo lega l’idea di progresso tecnico, l’idea di una civiltà che si evolve nel raggiungimento di sviluppate capacità costruttive e strutturanti, al sentimento di una pregnanza arcaica della terra. Questo sporgersi sull’idea dell’edificare, questa fiducia nell’operatività, come osservò tempestivamente Enrico Crispolti, “si realizza come un ritorno alle origini”.
Intanto, con l’avanzare degli anni Sessanta, si produce una spaccatura insanabile tra i giovani protagonisti del palcoscenico artistico della capitale, che culminerà nel 1963 con il suicidio di Lo Savio, la cui tormentata esistenza rimase ulteriormente esacerbata di fronte alle defezioni del fratello Tano Festa, di Angeli e di Schifano, ammaliati dal fenomeno della Pop Art e pronti a dirottare le loro energie verso orizzonti da lui ritenuti impercorribili. Uncini, rimasto isolato a difendere la dimensione umanistica e architettonica dell’arte di fronte al culto dell’oggetto feticizzato e prefabbricato, si era trovato nuovi compagni d’avventura. L’esperienza del Gruppo Uno, che si protrasse per un quinquennio, insieme a Gastone Biggi, Nicola Carrino, Nato Frascà, Achille Pace e Pasquale Santoro, accentua nel suo lavoro i motivi progettuali, riduce le scabrosità, raccoglie il cemento entro campiture lisce che dismettono ogni residuo di scapigliatura materica.
I lavori intitolati Ferrocemento, tipici della metà degli anni Sessanta, si appiattiscono e si levigano in piani uniformi, delimitati dal tondino di ferro che li avvolge: più che cornice, il ferro, oltre che farsi segno e grafismo, agisce qui da mediatore fra spazio esterno e spazio interno, addentrandosi nel cuore dell’opera per mezzo di incroci e diagonali sfasate, come una variabile mobile e imprevedibile nella compattezza della superficie.
Uncini terrà a precisare, con orgoglio e umiltà insieme, di derivare la propria disciplina dagli artefici di un passato ormai lontano. “Fare arte è ragionare sul disegno italiano, sulla materia che ritrova il proprio senso profondo: pensare tutti i giorni, mentre sono in studio, che discendo da Giotto e che Francesco Laurana ha lavorato nelle mie Marche. Far nascere una forma è distillare l’idea e trovare una sintesi lucida, capirne la sintassi e le proporzioni”.
I riferimenti ideali del suo lavoro sarebbero dunque riscontrabili all’alba di quelle ricerche prospettiche e spaziali che inaugurarono il Rinascimento in Italia. Ed è partendo da queste premesse che Uncini si pone “il problema della percezione totale dello spazio tridimensionale” e fa riferimento alle “forze che nella percezione creano i piani e i volumi delle forme”. In questa luce prende risalto la riqualificazione del ruolo dell’ombra nell’economia dello spazio, e della sua resa, per così dire, plastica, in modo da “ridurre tutto allo stesso valore di disegno nello spazio”, per superare quello che è definito “un vizio mentale”, per dar vita a “valori spaziali e strutturali estremamente ambigui e quindi ricchi di possibili nuove emozioni”.
Ci troviamo di fronte a una rivisitazione in chiave percettiva e sensoriale della scultura e del pensare in termini di scultura. Se prendiamo per buono l’assunto di Nietzsche quando dice: “Possediamo noi una scienza esattamente nella misura in cui ci siamo risolti ad accogliere la testimonianza dei sensi, nonché nella misura in cui li affiniamo, li armiamo, e insegniamo loro a pensare fino in fondo”, si potrebbe azzardare, nel caso di Uncini, il vagheggiamento di una scienza della scultura, consistente nel distillare l’idea partendo dalla lezione dei sensi.
Alla fine degli anni Sessanta appaiono così memorabili opere come Porta con ombra, Finestra con ombra, La sedia con ombra, in cui l’oggetto “autosignificante” ricapitola, nei suoi snodi strutturali, ombra e luce, realtà e illusione, pieno e vuoto, sostanza e apparenza in un unico tutto; più che oggetto, anzi, si può parlare di un vero e proprio disegno tridimensionale, di un’idea armata, incarnata nel tubolare di ferro. E si andrà ancora oltre. Si susseguono infatti una serie di “Ombre” in cemento e laminato, nei primi anni Settanta, che, abbandonato il riferimento a particolari architettonici, giocano con proiezioni geometriche e incastri prospettici, per cui i supposti pieni si trasformano in vuoti e viceversa, e i contorni che definiscono i solidi, ora esibiscono la loro presenza angolosa, ora si aprono improvvisamente come orifizi squadrati. I volumi, idee distillate, sono chiamati a dichiarare la propria assenza, a tracciare connotati fantasmatici, a raccogliere la cubatura dell’immateriale.
La scarna cristallografia geometrica di queste opere ha fatto pensare a possibili connessioni con la Minimal Art, della quale, insieme a Lo Savio, Uncini fu in qualche modo l’anticipatore, ma l’eredità culturale e la mitologia personale che ne sono alla base forniscono un tessuto di tale varietà e complessità da risultare incompatibili con l’idea di qualsivoglia minimalismo. La pratica di Uncini è affondata nel manifestarsi dei fenomeni, correlata con le diverse modalità del loro apparire. La struttura che ne viene fuori è autosignificante, certo, ma non chiusa: intesse reticoli con il mondo, a differenza dell’oggetto minimal, che è un oggetto muto e intransitivo, limitato alla propria evidenza. È interessante a questo proposito il richiamo, suggerito da Giovanni Maria Accame, a Umberto Boccioni e all’infinito plastico dei futuristi: ovviamente estranei a intenti di carattere dinamico, i volumi di Uncini (e, su un piano diverso, anche quelli di Lo Savio), al pari delle sculture futuriste, captano le influenze dell’ambiente e vi si confrontano, l’esterno viene inglobato nell’opera, arpionato con i ganci dei tondini che sporgono dal cemento, filigranato dai tralicci e dalle tessiture metalliche. Le strutture che escono dalla mano di Uncini non sono oggetti muti, tutt’altro: sono volumi relazionali, dialoganti, si interfacciano tra loro e interagiscono con lo spazio. Non solo: hanno la capacità, talvolta, di smuovere memorie e di resuscitare immagini.
Nel lavoro di Uncini matura infatti una nuova fase, densa di meditazioni e di struggimenti, di suggerimenti archetipici affioranti da un’antropologia mitica, di riflessioni circa l’origine del costruire e dell’abitare. Quando pensiamo a certe sue affermazioni in cui dice: “Mi interessa il desiderio dell’uomo di costruirsi la propria dimora, l’azione del contadino nello squadrare il campo”, è impossibile non risalire con la mente a Heidegger, e non rievocare qui le suggestioni degli scritti sullo spazio del filosofo tedesco, del “poeticamente abita l’uomo”, del “luogo” che risulta da una “quadratura” e si configura, letteralmente, come “dimora”… Con il ciclo delle “Dimore”, all’inizio degli anni Ottanta, Uncini fa nuovamente ricorso alle tipologie architettoniche, i cui elementi sembrano venir livellati dalla patina di cemento, appiattiti in una sorta di silhouette mentale, in una dimensione ambigua, in cui lo spazio tridimensionale e la superficie si mettono reciprocamente a repentaglio. Le pareti, le finestre, le porte, gli archi sono suggeriti dal contorno di forme geometriche bidimensionali contigue, i cui piani si trovano a essere leggermente sfasati, così da originare una visibilità cangiante a seconda della distanza, quasi a rispecchiare sentimenti e memorie da cogliere e ricostruire senza tregua in noi, in una nostra interiore lontananza.
Le incursioni nello spazio esterno operate dai primi “Cementarmati” si ripropongono di nuovo e si moltiplicano capillarmente con un successivo ciclo di opere: negli “Spazi di ferro” la struttura portante si estroflette dal cemento solidificandosi in fasci di diagonali, in aggregazioni prismatiche, in estensioni volumetriche in cui i tondini disegnano lo spazio e al tempo stesso lo designano.
Del resto tra disegnare e fare scultura, in una ricerca che si poneva, come si è visto, al capo estremo di una lunga tradizione fondata sul primato del disegno, c’è un continuo interscambio, una simbiosi che fa corrispondere invenzioni e soluzioni di volta in volta escogitate nelle varie epoche dell’attività scultorea alle qualità dei disegni coevi. Così, se alla fine degli anni Cinquanta i disegni incorporano sabbie, calcine e polveri, negli anni Sessanta sono gli stessi tondini di ferro, nella loro presenza materiale, a piegarsi sulla carta per assumere la funzione di contorno. Se nel decennio successivo la scansione spaziale è resa attraverso la sovrapposizione di sagome ritagliate, negli anni Ottanta Uncini sperimenta le velature dell’acquarello e le superfici sabbiate, mentre negli anni Novanta la definizione delle forme è delegata a larghe striature di grafite.
Siamo ormai entrati nell’ultimo decennio di attività (Uncini muore nel 2008), ma c’è ancora tempo per gli “Spazicemento”, con i quali ritorna all’installazione a parete, e le “Architetture”, dove il raccordo di ferro diviene spranga e cerniera, ganascia che morde il piano e lo incatena al piano attiguo, morsa che lo fissa ed erpice che lo inchioda: ma tutto questo sembra ora effettuato dall’artista con distacco, con leggerezza composta, con un tocco calligrafico. Lo stesso materiale è ormai ben lontano dalla terragna gravità degli antichi cementi armati e, trattato con alchemica lievità, si autodipinge, si direbbe, come massa e volume. In queste ultime, severe strutture, dove la grinta del calcestruzzo nasconde un’anima fragile e danzante di lamiera traforata, dove gli ossimori tra evocata pesantezza e interna leggerezza si susseguono, dove i tondini di ferro funzionano da segno, linea di giunzione, punteggiatura, si distilla, forse per l’ultima volta, l’idea della grande tradizione italiana.