1764-1992
Si parla di mercato delle pulci, di ciarpame, di leggerezza e di mente scevra da ogni pensiero. Il contesto non è chiaro e tantomeno lo è il significato di queste affermazioni. Chi parla e perché? Dove siamo? Un indizio, Manhattan. Una persona che veste jeans, camicetta di seta e scarpe da tennis. È titubante, il mercatino delle pulci la incuriosisce, la confonde e l’attira. Il dubbio l’attanaglia, troverà quello che cerca? Ma cosa cerca, questo non sembra chiaro ne a lei ne a noi. Il desiderio la guida, la voglia di ascoltare la incita e la eccita. Infine prende coraggio ed entra.
Chi sia questa figura e cosa rappresenti non sarà mai dato sapere ai lettori del libro di Susan Sontag, L’amante del vulcano (Mondadori, Milano 1995)[i]. La storia come si può desumere dal titolo ha poco a che vedere con New York, e con i mercatini delle pulci ancor meno. È il vulcano e nello specifico il Vesuvio ad essere il protagonista indiscusso di questo racconto che narra le vicende di Sir William Hamilton, un distinto emissario della corona inglese giunto a Napoli nel 1764. Temi di natura politica e sociale s’intersecano a un triangolo sentimentale – quello tra Hamilton, la sua giovane e bella seconda moglie Emma e il valoroso ammiraglio Nelson – che nel Diciottesimo secolo fece parlare di sé a tutta Europa.
Al contempo storico e romanzato, il racconto della Sontag pone l’accento sul rapporto osmotico che presto s’instaura tra Hamilton e il Vesuvio. Travolto da una passione irrefrenabile, che gli valse la nomea di vulcanologo ante litteram, Hamilton sfidava neo-nati crateri e massicce colonne di fumo avventurandosi su per la vetta del Vesuvio. Come sostiene l’autrice, “collezionare il vulcano era la sua grande passione disinteressata”, e infatti a differenza del collezionismo che praticava per fini puramente mercantilistici, il vulcano fu per Hamilton fonte di incondizionata gioia. [ii] A conferma di questa tesi sono le parole fatte pronunciare da Sontag all’ambasciatore inglese in punto di morte: “Il vulcano non mi ha mai fatto alcun male. Lungi dal punirmi per la mia devozione mi ha dato solo piacere. Questa volta non lascerò più uscire aria dalla bocca. Ho avuto una vita felice. Vorrei essere ricordato per il vulcano”.[iii] In effetti l’audacia e la passione per il vulcano vengono ancora ricordati tra i tratti che più distinsero Hamilton agli occhi dei suoi contemporanei.
Ne L’amante del vulcano, il vulcano non è solo fonte di una devozione scientifica smodata da parte di Hamilton, ma è anche simbolo di una passione dai risvolti tragici, e infine è metafora di un’instabilità politica che sfocerà in rivoluzione portando l’ambasciatore inglese ed i suoi simili ad abbandonare Napoli. Il vulcano è quindi a tutti gli effetti il protagonista del libro e i personaggi e gli eventi che si stagliano a ridosso del suo pendio sono meri amanti sospiranti.
1972-2018
Negli anni il vulcano come mito e simbolo ha tratto a sé orde di amanti. Nelle arti visive, in particolare, è stato stimolo di avventure impossibili come testimonia Pierre Restany con la sua Operazione Vesuvio (1972), un progetto in cui proponeva la conversione del Vesuvio in un “Parco Culturale Internazionale”. Improntato sulla falsa riga di una campagna elettorale, il progetto di Restany vide l’affissione di cartelli promozionali che lasciarono i napoletani attoniti, accendendo invece la fantasia di artisti provenienti dai quattro angoli del mondo. Alina Szapocznikow s’impegnava per esempio a trasformare il fondo del cratere in pista da pattinaggio, mentre Gina Pane suggeriva la conversione del vulcano in tomba per un turista sconosciuto. Altrettanto ambiziose erano le proposte che vedevano la trasformazione del vulcano in bottiglia di champagne o la riconversione di una fumata in stella rossa. L’ironia la faceva da padrona in questa operazione vulcanica che nonostante l’assurdità si poneva in prima linea rispetto alla neo-nata Land Art e alla presa di coscienza ambientale che a breve avrebbe invaso anche il campo artistico. L’Operazione Vesuvio di Restany con il suo parterre caleidoscopico di artisti e di chiara impronta vulcanica, anticipava Volcano Extravaganza, il festival istituito da Fiorucci Art Trust e a cura di Milovan Farronato che dal 2011 porta sull’isola di Stromboli giovani artisti e non, che si cimentano in performance ed eventi site-specific tra le pietre laviche, le pendici del vulcano e le acque che lo circondano. Il contesto diviene parte dell’opera e il vulcano si fa nuovamente protagonista.
Nel 1985 un’inattesa e spettacolare esplosione del vulcano partenopeo, attrasse a sé l’americano Andy Warhol, che ben presto sottopose il Vesuvio a un trattamento pop. Serigrafato e dai colori psichedelici l’imponente vulcano qui si trasforma in un souvenir celebrativo ma poco impegnativo alla stregua delle riproduzioni in vendita nei negozi per turisti. Di natura più riflessiva e scevra di colore è l’immagine di Stromboli che ci dà Marina Abramović nel suo video Stromboli (2002), dove troviamo l’artista riversa con gli occhi chiusi sul bagnasciuga di una spiaggia dell’isola. Mentre l’inquadratura rimane ferma sul volto immobile dell’artista, l’acqua del mare scorre a tratti regolari sotto l’arco del suo collo, finché un’onda la travolge destandola dalla sua impassibilità. Stromboli con le sue eruzioni regolari fa da sfondo a quest’inno all’abbandono, dove le reazioni corporee sono dettate dai fenomeni naturali circostanti.
Sempre Stromboli e la vicina Panarea, ispirarono nel 1956 il leggendario artista-designer Bruno Munari e suo figlio a creare il Museo Immaginario delle Isole Eolie, dove la fantasia aveva la meglio sulla realtà e ai frammenti di oggetti esistenti si sovrapponevano storie di pirati e quant’altro. Come ricordava Munari stesso: “Stromboli lanciava nella notte chiara ogni dieci minuti un punto rosso luminoso, l’aria odorava di zolfo e di mare e alla sera si aprivano, profumatissimi, i fiori dei capperi. Fu così che pensai a queste ricostruzioni non rigorosamente scientifiche ma liberamente suggerite dallo stesso frammento e completate scrupolosamente dalla fantasia, fino a rendere visibile l’intero oggetto immaginato”[iv]. L’immaginazione prende il sopravvento sull’autenticità degli oggetti, che nel contesto esplosivo di Stromboli si fanno portatori di messaggi genuinamente falsi.
1926-1965-2011
Una scenografia teatrale, una fotografia e un libro; questo è ciò che rimane di tre relazioni vulcaniche distinte. La prima, vede Enrico Prampolini interpretare Vulcani (1927), il dramma di Filippo Tommaso Marinetti attraverso le sue “scenodinamiche”. La seconda, ha come protagonista Giovanni Anselmo e la sua ombra assente sulla cima del vulcano di Stromboli il 16 agosto 1965. Infine, la terza recupera un libro dell’epoca vittoriana dal suggestivo titolo Wonders of the Volcano, alterandolo in modo apertamente ambiguo da Salvatore Arancio. In tutti e tre i casi assistiamo a un oscillazione che rivisita il fenomeno geologico in chiave mitologico-fantastica. L’imponderabilità del vulcano che esplodendo genera effetti cataclismici, sembra dare alla triade Prampolini-Anselmo-Arancio una licenza poetica che li rende al contempo amanti e mistificatori dei loro rispettivi vulcani.
Se L’amante del vulcano, rapportava l’ossessione di Hamilton per il vulcano alla sua infatuazione per Emma, così Vulcani (presentato dalla Compagnia del Teatro d’Arte di Fausto Pirandello al Teatro Valle a Roma il 31 marzo 1926) vede la lava che inarrestabile si fa strada giù per il pendio dell’Etna fare da sfondo a una competizione tecno-scientifica. Mirabolanti macchine “fermalava”, superstiziosi abitanti e scienziati stravaganti sono i protagonisti di questo dramma futurista dai connotati sintetici, dinamici, simultanei, irreali, plastici, e astratti. A differenza del teatro cosiddetto storico o passatista, contro il quale sia Marinetti che Prampolini si erano apertamente schierati, il teatro futurista prevedeva la sovversione di qualunque forma teatrale canonica in nome di una sensibilità “fisicofolle”. Per Prampolini la scenografia non doveva imitare la realtà, la doveva surclassare. Le scene erano concepite come opere d’arte autonome, in cui luci, colori sgargianti e piani geometrici avevano la meglio su quinte teatrali convenzionali. Tramite gli elementi astratti gli spettatori, non più passivi ma attivi, si trovavano immersi in un’atmosfera che li chiamava a sé con forza magnetica.
L’Etna, protagonista senza rivali di Vulcani, fa la sua comparsa nella terza sintesi (l’opera si divide in otto sintesi, la prima è a tema pirotecnico mentre la seconda è dedicata alla futuristica macchina fermalava), dove si staglia sul fondo di una città multicolore. Un semplice cono nero, il vulcano è in pieno fermento mentre si prepara a prendere parte alla gara del fuoco. Come rimarcato dagli astanti “Dei forestieri sono venuti a tormentare il Vulcano! Si dicono scienziati. Mettere in gara un fabbricante di fuochi artificiali con l’amato Etna”[v]. Il testa a testa che mette a confronto artificio e natura, richiama le tensioni tra teatro futurista e teatro passatista e introduce un’altra rivalità che va svelandosi nella sesta sintesi, quella tra due scenografi di credenze opposte. L’“Elettrico Trasfiguratore” vicino alla sensibilità futurista di Prampolini prova disprezzo per il “Placido Realista”, che al contrario di lui rimane legato alla una tradizione teatrale. Mentre il Placido Realista aspira ad un mimetismo che si avvicina il più possibile alla realtà, l’Elettrico Trasfiguratore dà libero sfogo alla sua immaginazione. L’Etna è al centro di questo dibattito e come ci mostra Prampolini nella quarta sintesi il lato trasfigurativo sembra avere la meglio su quello realista. Il cratere – stilizzato e ridotto a piani geometrici che ricordano in egual misura la frammentazione cubista e il dinamismo futurista – viene cooptato dall’ideologia futurista che non celebra il frangente naturale del vulcano ma lo strumentalizza a favore di un’artificialità meccanica.
Mentre Prampolini sottoponeva l’Etna a una rivisitazione in chiave cubo-futurista, Anselmo ci mette a confronto con un vulcano scevro da interpretazioni stilistiche che grazie alla sua vigorosa semplicità la fa da padrone ne La mia ombra verso l’infinito dalla cima dello Stromboli durante l’alba del 16 agosto 1965. Una fotografia che, come suggerisce Andrea Viliani, “non è infatti né la documentazione di un’opera, né un’opera”,[vi] rappresenta un ibrido dal carattere epifanico. Dopo aver trascorso la notte ad osservare il vulcano in azione, Anselmo inizia la sua discesa all’alba ed è proprio in questo fatidico frangente che viene fotografato. Lo scatto dall’aria casuale ci riporta al momento in cui Anselmo in piedi sul pendio di Stromboli, si rende conto che la sua ombra non si proiettava al suolo come di consueto ma si proiettava verso l’infinito, un effetto mirabolante dal carattere trascendentale, che racchiude in sé i semi di molte opere future. Come afferma Tacita Dean in un testo interamente dedicato a quest’umile scatto dal grande valore simbolico: “D’ora in avanti [Anselmo] avrebbe lavorato dall’interno, come parte integrante dell’invisibile tumulto di energie irradiate sopra e sotto di lui sui neri declivi di Stromboli”.[vii] In altre parole, all’alba del 16 agosto 1965, Anselmo si trova in un punto nevralgico tra velocità della luce ed effetto del sole che la fotografia per quanto simbolica non sarà mai in grado di catturare. Come sostiene Anselmo stesso, “Quella fotografia è solo un souvenir, una cartolina. L’opera è quello che successe lassù in quel momento”.[viii]
Come un souvenir dall’aria vissuta, La mia ombra verso l’infinito dalla cima dello Stromboli durante l’alba del 16 agosto 1965 è testimone di un momento rivelatore consumato sul fianco di Stromboli e che esiste nell’intimità di quell’istante tra amante e il suo vulcano. A differenza delle “scenodinamiche” concepite da Prampolini per Vulcani che facevano della rappresentazione dell’Etna un manifesto per il teatro futurista, la fotografia di Anselmo rimane circoscritta ad un evento privato dal carattere però determinante. Decisamente più ambiguo è il rapporto instaurato da Arancio con il vulcano, che ne mette in rilievo la natura mitologica: con ironia mista a fascinazione mostra come sia l’artista che il vulcano siano un coacervo di mitologie dai tratti fantastici.
Wonders of the Volcano è un libro dall’aria genuinamente vittoriana. Scritto da Ascott R. Hope nella seconda metà del Diciannovesimo secolo questo testo con la sua grafica fiorita e i contenuti romantici rimanda a un’epoca in cui la vulcanologia era una scienza dai tratti mistico-mitologici. Non dissimile dai libri voluti da Hamilton per celebrare le sue imprese epiche sul monte Etna, Wonders of the Volcano è un ritrovato storico di incoerenza assoluta. Non vi è infatti alcuna traccia di verità in questo testo e nelle immagini auliche che lo accompagnano. È precisamente questo tratto fantastico che per primo ha attirato Arancio, quando in un mercato delle pulci – simile a quello tratteggiato dalla Sontag nell’incipit del suo libro – si è soffermato sul volume. Invece di rapportarsi ai misteri del vulcano vaneggiati da Ascott dall’alto delle sue conoscenze moderne, Arancio ne ha volto seguire la trama, imponendo alla mitologia popolare ivi rappresentata una ulteriore perversione fantastica. Sottoposte a una manipolazione che ne accresce la finzione invece di dissimularla, le illustrazioni vengono tramutate – tramite Photoshop – in finzioni dai tratti surreali. Scevre di presenze umane, le illustrazioni di Wonders of the Volcano (Nero, Roma 2011) rivisitate da Arancio sono testimoni di un processo di metamorfosi in cui il Vulcano subisce traumi post-apocalittici che riportano alla mente le scenodinamiche fisicofolli di Prampolini. A differenza del futurista, Arancio non tenta di surclassare il passato e il presente con una visione avveniristica del futuro, ma ci pone di fronte ad un quesito che vede il passato estendersi all’infinito e il futuro rivelarsi nel presente. Ansia e ambiguità hanno la meglio sulla trepidazione futurista prampoliniana.
In conclusione torniamo al punto di partenza e cioè alle parole di Sontag:
“… [la] bocca d’un vulcano. Si, bocca; e lingua di lava. Un corpo, un mostruoso corpo vivente, maschio e femmina insieme. Espelle, erutta. È un interno anche, un abisso. Qualcosa di vivo, che può morire. Qualcosa d’inerte che entra in agitazione, di tanto in tanto. Che esiste solo a intermittenza. Una minaccia costante. Se prevedibile, di solito non prevista. Capriccioso, indomabile, maleodorante.[ix]
Vivo ed inerte, capriccioso e maleodorante, imprevedibile e quant’altro, il vulcano con la sua bocca fumante ha fatto da sfondo ad una carrellata di opere, eventi e performances, che con ironia accentuavano una realtà già di per sè mitica. Le opere di Prampolini, Anselmo e Arancio, sono per molti versi diverse tra loro, ma come Hamilton e tutti gli amanti che a lui sono seguiti i tre artisti non hanno resistito al richiamo della ‘bocca d’un vulcano”.