Il Balkan Express
Sono su un treno notturno in partenza da Milano e diretto a Belgrado, in viaggio verso il primo incontro della Lost Highway Expedition (LHE), un progetto della durata di circa un mese [30 luglio-24 agosto 2006] organizzato dalla School of Missing Studies e da Centrala Foundation for Future Cities. Gli artisti Kyong Park e Marjetica PotrË hanno pianificato un itinerario di tutto rispetto, che percorre tutti i Balcani lungo la perduta Highway of Brotherhood and Unity (la strada della Fratellanza e dell’Unità), una strada genericamente chiamata “Autoput” e mai terminata, che avrebbe dovuto collegare le maggiori città dell’ex-Yugoslavia e rendere più salda l’unità geografica del Paese, e oggi una metafora della scarsa unione tra quello che resta del Sud Est Europa, dell’ex-Yugoslavia e dei Balcani. La LHE ha tracciato le coordinate dello sviluppo culturale e urbanistico in diverse città, da Lubiana, Zagabria, Novi Sad e Belgrado fino a Skopje, Prishtina, Tirana, Podgorica e Sarajevo. La missione, aperta a tutti e a metà tra un corso di turismo d’arte nell’Est e l’analisi, non ancora conclusa, della natura mutevole di questi centri individuali, si è svolta attraverso una serie di incontri e lezioni con diversi protagonisti della scena culturale. Alla LHE seguiranno seminari e mostre organizzate negli Stati Uniti e in Europa.
Dopo il Kosovo, mi separerò dalla strada principale per continuare il viaggio verso Sofia, Kiev e poi, nell’area del Baltico, Tallinn, Riga e Kaliningrad prima della partenza da Varsavia. Insieme ai viaggiatori della LHE, addetti ai lavori nel campo dell’arte, dell’urbanistica e dell’architettura mossi da un generale entusiasmo, questa spedizione all’insegna del “fai-come-ti-pare” è stata l’opportunità ideale per arrivare a queste città, per sondare la situazione e prendere contatti. Percorrendo la “strada perduta”, il fatto di venire a conoscenza delle strategie imprenditoriali e delle infrastrutture “fai da te” applicate all’arte e all’architettura mi ha fatto pensare alla balcanizzazione come a una condizione alternativa al bricolage.
L’era Post-Soros
Nel 1991, al momento del collasso dell’Unione Sovietica, quando ormai l’indipendenza era data per certa, l’Open Society Institutes di George Soros ha facilitato questa transizione, dando inizio a una serie di progetti per l’arte contemporanea senza precedenti e costituendo il Soros Centers for Contemporary Art (SCCA).
Questi centri hanno innescato una rete di collaborazioni nelle principali città, fornendo denaro, benefici, una banca dati di artisti locali consultabile anche da curatori stranieri, nonché infrastrutture per promuovere e attivare altri enti, ONG, eventi e programmi di ricerca. La loro presenza ha reinventato gerarchie di qualità e scuole di pensiero all’interno dell’istituzionalizzazione della cultura. A seconda della sede, i SCCA offrivano un modello di infrastruttura con gli archivi della Biennale di Venezia o di Documenta, ad esempio, o fornivano le informazioni necessarie per compilare un modulo di partecipazione a un premio, o quelle per creare un portfolio, fino alle istruzioni per l’uso di nuovi materiali.
La crescita o l’accelerazione del fenomeno culturale in ogni città si basa sulla ricerca del singolo. In East Art Map: Contemporary Art and Eastern Europe, pubblicato recentemente da Irwin, Lilia Dragneva, curatrice del Center for Contemporary Art Chisinau [ksa:k] in Moldavia, sottolinea la nascita dell’SCCA come la causa scatenante del sorgere della produzione artistica contemporanea moldava attuale.
Sebbene sia ancora impossibile generalizzare, poiché ogni Soros Center ha dato il suo apporto specifico in relazione alle scelte ammistrative in ogni città, il suo sostegno alle arti è un dato finora senza precedenti. Basti pensare all’Estonia, dove l’ex direttore del SCCA, Sirje Helme, ha fatto notare come il supporto finanziario nel 1995 equivalesse al doppio del budget di cui dispone il Ministero della Cultura per l’arte1.
Al di là delle voci secondo cui George Soros sarebbe poco interessato all’arte contemporanea, quali sono gli interessi o i motivi che lo hanno spinto a supportarla così largamente? I centri SCCA hanno introdotto, in alcuni casi per la prima volta, programmi e supporti per i nuovi media, Internet e arte elettronica — che hanno raggiunto il loro sucesso in Occidente negli anni Novanta. Lo storico dell’arte Miπko ©uvakoviÊ ha teorizzato il carattere di omogeneizzazione che risulta dall’impatto di questi centri sulla produzione culturale locale nel concetto di “Soros Realism”2.
La specificità dei processi che approvano i progetti o quale tipo di arte sostenere (e perché) è un altro dei temi analizzati da ©uvakoviÊ. A questo punto, è fondamentale considerare il potenziale dei monopoli oltre alla strumentalizzazione della cultura, sebbene si tratti comunque di centri per la salvezza della “società civile”. Quali sono stati gli effetti dei finanziamenti, in meno di dieci anni? Sembra che non esista un’alternativa valida. Si è lasciato che i centri SCCA e le altre ONG supportate da Soros si costituissero da sole anche grazie ai finanziamenti provenienti da fonti esterne — locali, internazionali, governative o altro. Molti centri SCCA hanno addirittura cambiato nome, chiuso o tagliato il loro programma.
Alla luce di questi avvenimenti, la ricerca sul luogo si è dimostrata necessaria per investigare lo stato di queste città, nella loro condizione post-Soros e nella loro corsa verso la europeizzazione. L’LHE e il mio itinerario parallelo sono serviti a capire come oggi i membri delle ONG e le industrie dell’arte contemporanea si stiano avvicinando a soluzioni fornite da forme di supporto alternative e per la formazione e lo sviluppo di imprese autosostenibili e strategie di capitalizzazione.
Belgrado, Serbia
Kontekst Galerija è uno spazio non profit sostenuto da ProHelvetia — che, insieme alla European Cultural Foundation, Kulturstiftung des Bundes ed Erste Bank, è stata costantemente coinvolta nella sponsorizzazione di ONG e di artisti in tutta l’area. La galleria, aperta all’inizio di quest’anno dai giovani curatori Ivana MarjanoviÊ e Vida KneæeviÊ, rientra nelle “Small Actions” — un tipo di sovvenzione prevista dagli svizzeri. Kontekst ha contribuito a rinvigorire il centro culturale di Stari Grad, dove ha sede la galleria. Sin dalla sua apertura, i curatori hanno optato per le scelte giuste, registrando lo stesso numero di mostre previste generalmente in due anni di programmazione. In mostra c’erano anche i finalisti della quinta edizione del Mangelos Award, un premio per giovani artisti serbi che consiste in una borsa di sei settimane all’ISCP di New York. Sono diversi i premi per giovani artisti nell’Europa Centrale e nei Balcani a rendere omaggio a figure culturali di rilievo, come per l’artista concettuale e storico dell’arte Dimitrije BaπiÊeviÊ, conosciuto con lo pseudonimo di Mangelos. Il croato Mangelos è stato rivendicato come serbo poiché nato nella città di confine Sid, in Serbia. Mentre il Centro Culturale di Belgrado prepara il più importante evento internazionale della zona, l’annuale “October Salon” (Salone d’ottobre) quest’anno a cura di René Block, la mostra in corso “Postcard”, a cura di Aleksandra MirËiÊ e Una PopoviÊ, offre spunti per riconsiderare le nozioni stereotipate di città e nello specifico di Belgrado. Aleksandar M·caπev ha cercato di sviluppare un nuovo paesaggio attraverso immagini quotidiane della sua città, riletta psicologicamente come il set di un film horror nella serie “BeËej-Small Town Horror.” Il progetto di Predrag MiladinoviÊ apre un archivio della memoria associativa, composto da un gruppo di schizzi di volti presi dalla strada. Nella sua installazione Smelling Socks, presenta una panoramica di odori, nascosti in un assortimento di calze da donna.
Vengono in mente Herzog & de Meuron, che hanno trasformato l’eau de quotidian di Rotterdam in un vero profumo. Passando attraverso una nube alla O3ONE Gallery (che si pronuncia “ozone”), gli artisti Lukas Mettler e Cris Faria hanno dato vita a un espediente simile alla Gagosian Gallery di Berlino, ideata dalla Wrong Gallery, creando un’Art Basel Geneva Belgrade. Con caratteri piratati, campagne pubblicitarie e champagne ghiacciato non si poneva ovviamente come una fiera d’arte, ma ha dimostrato quanto le vendite stellari o la credibilità di certi prezzi durante questi eventi siano fuori luogo se solo si attraversa il Danubio. Questo tipo di operazione ironica coincide con il programma didattico organizzato dal curatore Marko Stamenkovic, che esplora gli ambiti esistenti tra arte ed economia con argomenti del tipo: in che modo spazi come O3ONE si relazionano a finanziatori privati o corporativi e alla creazione di un profitto?
In questa capitale dell’ex Yugoslavia, con molte fondazioni e giovani spazi non profit, non sembra debba passare molto tempo prima che una fiera d’arte possa funzionare al meglio.
Skopje, Macedonia
Skopje è un tesoro nascosto nel cuore dei Balcani. Dopo il terremoto del 1963, che ha distrutto gran parte della pianificazione originale, la città è stata rimessa in piedi grazie a un’ondata di finanziamenti per la sua ricostruzione. È diventato il piano di lavoro di personaggi come l’architetto giapponese Kenzo Tange, il cui master plan corrispondeva al piano urbanistico della città attuale.
Andare in giro con l’artista Oliver Musovik è stato come fare una visita a raggi x, osservando il dramma urbano di tutti i giorni. La città in sé è già visivamente satura, ma Musovik ha evidenziato particolari altrimenti invisibili, come le strade lastricate di pietre, i sentieri, i monumenti più anomali ma anche ingressi all’apparenza comunissimi ma che si rivelavano particolari.
Musovik offre una scomposizione aneddotica dei traumi sociali, delle tensioni governative o l’armonia di una sublime banalità.
Da Press to Exit, lo spazio d’arte contemporanea sponsorizzato da ProHelvetia, Jovan Shumkovski presentava modelli ipotetici di una Skopje del futuro. Il suo stadio per le Paraolimpiadi del 2052 sembrava tranquillamente realizzabile nell’attuale contesto di avanguardia architettonica. Nella sede della galleria, dall’altra parte della città, i dipinti del giovane Velimir Zernovski, della stessa cifra ironica del tour di Musovik, rappresentavano monumenti culturali con una certa freschezza di impatto. Un’immagine mostra il Museo d’Arte Contemporanea abbarbicato sulle colline, un’istituzione nata in poco tempo dopo che, in seguito al terremoto, ha accolto 4.000 opere d’arte donate da tutto il mondo e che costituiscono la collezione oggi. L’enorme white cube, con una vista ponoramica sulla città, è affiancato dai resti fatiscenti della fortezza turca, arroccata come la roccaforte della cultura vecchia e di quella nuova. Musovik mi spiegava che nel 2003 i membri del governo locale, convenuti sulla mancanza di un Palazzo presidenziale, hanno proposto di trasformare il MoCA nel nuovo palazzo.
Scandalizzato da questa proposta, ma al tempo stesso ispirato da uno humor costruttivo, Musovik ha messo a punto l’idea, in collaborazione con il museo e utilizzando a tale scopo guardie ufficiali, tappeti rossi, decorazioni e insegne regali. L’azione sovversiva di Musovik consisteva nel trasformare momentaneamente il Palazzo del Parlamento nel nuovo Museo d’Arte Contemporanea.
Recentemente, il museo e la città hanno ricevuto un’altra ondata di aiuti, questa volta dal Governo italiano, pari a tre milioni di euro, soldi che saranno impiegati per la costruzione di un nuovo tetto e di nuove grondaie per l’edifcio, altrimenti soggetto a infiltrazioni.
Prishtina, Kosovo
Nella corsa verso l’indipendenza, il Kosovo è stato investito da una ventata di progetti coraggiosi e da un impareggiabile ottimismo per il futuro. A Prishtina, può capitare che il nome di Bill Clinton dia il nome a ditte che fanno affari d’oro; come la concessionaria di marmo dal nome dell’eroe nazionale che ti accoglie all’arrivo alla stazione dei pullman. A Clinton è anche stata dedicata una via, che attraversa ironicamente quella intitolata al suo avversario alle presidenziali del 1996: la Bob Dole Ave. La Prishtina House di Marjetica PotrË, in mostra al Portikus di Francoforte all’inizio di quest’anno, analizza puntigliosamente le strategie dell’abitare. L’aspetto assolutamente “fai da te” della progettazione, permette di incorporare bellissimi mosaici kitsch di scisto oppure lasciare l’ultimo piano in costruzione. Le stazioni di benzina sembrano le più gettonate, soprattutto nel tratto da Prishtina a Peja.
Spesso, alla costruzione di una stazione seguono nel tempo quella di un hotel e di un ristorante, che si vanno ad aggiungere a un sistema che permette la creazione di un microcosmo economico. Queste sfumature tra economia formale e informale, o di “parallelismo” come lo definisce l’artista e curatore Erzen Shkolölli, scorrono alle radici della storia recente del luogo. L’arte contemporanea sembra aver comprensibilmente raggiunto una certa importanza in questi luoghi. Anche l’EXIT Contemporary Art Institute di Peja — del quale Shkolölli è cofondatore —, il Laboratory for Visual Arts, sua controparte didattica, e il Center for Humanistic Studies Gani Bobi di Prishtina, hanno formalizzato in tre anni un sistema economico, che altrimenti sarebbe rimasto privo di una struttura, basato su un’avanzata produzione culturale che, nei casi più difficili, si è manifestata come un sistema didattico parallelo, con l’occupazione abusiva di zone della città, oppure con mostre spontanee in luoghi inusuali. Qui è possibile essere un pioniere se hai delle buone motivazioni.
Da EXIT, a Peja Akram, Zaatari presenta due film. Il lungometraggio This Day (2003) ripercorre la storia di un beduino sulla base delle sue meditazioni e attraverso pubblicazioni recenti. Il film analizza la condizione dei nomadi e della loro terra sempre più soggetta a una modernizzazione sregolata. Le fotografie usate nel film, intense e visivamente ricche, sono opera del fotografo armeno-egiziano Van Leo e sembrano estratte dal poderoso archivio dell’Arab Image Foundation di Beirut, di cui Zaatari è co-fondatore.
Nel film, la ripresa delle immagini a opera della telecamera è decisiva, mentre la visione panoramica analizza la relazione soggetto/oggetto che trasforma, relativamente, gli scatti asciutti di fine secolo in un teatro semiotico. Il racconto, che sottintende il messaggio di questo beduino, si pone in relazione con le interpretazioni attuali mentre, dalle immagini d’archivio, emergono rapporti di interrelazione e rivisitazione con la fotografia contemporanea. Nelle riprese del deserto, le immagini di un cammello o di un colono appaiono come dei flash di memoria scoloriti, frazioni di secondo in bianco e nero. Il rumore del vento del deserto viene pian piano sostituito dal rombo dei caccia F16 utilizzati durante l’invasione di Beirut da parte di Israele nel 1982. “This Day”, così Zaatari dà inizio al suo diario in quel periodo, registrando tutto, dagli spostamenti militari ai cambiamenti atmosferici. Sebbene si muova all’interno dell’aspetto personale della storia di Zaatari e nelle analisi dirette della guerra, il film prende le dovute distanze dalle differenziazioni culturali mentre ne analizza allo stesso tempo i limiti imposti. La mostra si è tenuta profeticamente in concomitanza con la recente invasione israeliana di Beirut, attualmente in fase di ritiro.