L’ultima mostra di Francesco Bonami in qualità di direttore artistico di Villa Manin lascia un segno incisivo, un vero e proprio solco che appare come un invito, se non addirittura una preghiera. Rivolta a coloro che decideranno del futuro del Centro d’Arte Contemporanea di Passariano, aperto nel 2004, affinché quel solco possa continuare a essere inciso dall’arte che guarda dritto negli occhi, nei gesti e nell’anima dell’esistenza quotidiana collettivamente condivisa. Attraverso le opere di trenta artisti internazionali, “God & Goods” affronta il tema della spiritualità e il concetto di sacro. Non solo ponendo in relazione l’arte con la religione sul terreno del dubbio; anche, se non soprattutto, mettendo in scena il sottile ma intenso filo che intreccia sacro e profano, che dilata il senso del divino oltre l’iconografia religiosa, ma portandosi appresso le sue indelebili simbologie, per disseminarlo nei più reconditi anfratti dell’esistenza. L’impressione, insomma, è quella di partecipare a un atto di fede, a un credo nei confronti della vita, dove sia l’arte che la religione ci chiedono di aderire ai pensieri, ai gesti e alle cose di tutti i giorni, anche quelle che disegnano i profili del consumismo e l’identikit della globalizzazione. Il tutto raccolto e relazionato nel sottotitolo dell’esposizione: “Spiritualità e Confusione di massa”, che suona come un monito alla lettura della simbologia religiosa nelle opere esposte e, da lì, nella vita di ogni giorno.
A partire dall’interrogativo circa la vicinanza tra Dio e l’artista, affrontato da Christian Jankowski nel video in cui un predicatore televisivo di una congregazione evangelica americana mette in scena una performance in bilico tra arte e religione, oggettualità e spiritualità, marketing e predica, in cui la serietà delle questioni poste è smorzata dall’assurdo e dall’ironia. Se la fede è cieca, come suggerisce Abraham Cruzvillegas occultando con pittura nera pagine di giornali, lettere, cartoline e prescrizioni mediche affisse a parete in un puzzle astratto, l’offerta e la comunione ci vedono benissimo, come dimostrano Mircea Cantor con la bara di terracotta trasformata in salvadanaio in una sorta di impegno-promessa dell’Aldilà, e Felix Gonzalez-Torres con l’installazione a terra di centinaia di caramelle dalla carta blu riflettente: cielo stellato del presepe o manto azzurro della Vergine, verso i quali il visitatore si inchina, ne raccoglie e ne assume il corpo, assaporando. È così che la spiritualità arriva alla pancia, come accade innanzi alla grande installazione di Cai Guo-Qiang, in cui una moltitudine di lanterne di seta rossa metamorfizzate in oggetti diversi dichiara il suo arbitrio, teso tra sogno e realtà, in balia del vento che agita un grande drappo rosso facendo sobbalzare l’intera sala, così come la pelle e l’animo di chi la attraversa. Con le fotografie di Darren Almond il viaggio tra arte e religione sfocia poi, con una virata nella storia, dell’arte e dell’uomo, nel paesaggio notturno in cui la Luna disegna l’evanescenza di una luce metafisica che strizza l’occhio al romanticismo di Caspar David Friedrich. In questo eterno confronto tra l’uomo e la natura, che allo stupore affianca il timore, all’evidenza l’ambiguità, s’innalza, dagli alberi del parco della Villa, Frau C. (2007) di Maurizio Cattelan. Donna qualunque, assolutamente terrena nella sua concretezza quotidiana, che apre le mani al cielo, sollevandosi sopra le case e le cose per librarsi nell’epifania di un’estasi mistica.