Vorrei riportare l’attenzione del lettore su due episodi di cronaca estranei tra loro e tuttavia per molti versi accomunabili, occorsi uno di recente e l’altro tre anni fa. Il primo concerne l’incresciosa distruzione, da parte delle autorità cinesi, dello studio dell’artista Ai Weiwei; il secondo riguarda la stupefacente scoperta, nelle profondità della giungla amazzonica, di una tribù di Indios mai venuta in contatto con il resto del mondo. Molti di noi ricorderanno come una mattina, sfogliando i nostri quotidiani d’informazione, fummo sorpresi nel vedere degli “uomini rossi” scoccare le loro frecce contro lo stesso aeroplano dal quale venivano immortalati. Per nulla intimoriti, rispondevano a una minaccia spaventosa come avrebbero fatto con una fiera o una tribù nemica. Forse dotati di credenze religiose, avranno inteso quell’oggetto volante come una divinità roboante scesa dai cieli per punirli, e tuttavia molto presto eclissatasi in quello stesso nulla dal quale all’improvviso era venuta.
Ora, è ipotesi per nulla peregrina il fatto che la tribù in questione, a seguito di un evento tanto traumatico, possa nel frattempo aver incominciato a decorare il proprio vasellame e gli altri manufatti accogliendo tra le consuete decorazioni un nuovo ideogramma, quello dell’aeroplano, o meglio di quel numinoso “inia alato” che noi interpretiamo come “utile mezzo di trasporto”. Se ciò fosse davvero accaduto, i risultati ottenuti non dovrebbero essere dissimili da quei casi di finto primitivismo che tutti ben conosciamo, e che vedono trasposti all’interno di contesti arcaici proprio degli elementi tecnologici, come per esempio accade nei celebri cartoon dei Flintstones ma ancora meglio sulle terrecotte neolitiche di Weiwei, dove il logo “Coca-Cola” sembra integrarsi alla perfezione con gli antichi reperti in quanto motivo ornamentale stridente e insieme verosimile. In caso di rinvenimento di una serie di terrecotte decorate a idrovolanti, potrebbe risultare impossibile stabilire se trattasi di artefatti confezionati da un artista contemporaneo, oppure di prodotti autentici di artigianato indio. Nel primo caso esse costituirebbero un’impostura consapevole e premeditata sul piano della forma, mentre testimonierebbero un grosso abbaglio sul piano del contenuto qualora si rivelassero come vessilli apotropaici di un trauma collettivo. In entrambi i casi non sarebbe stata effigiata la verità, a riprova del fatto che i segni facilmente sono menzogneri. Se poi fosse vero — come in effetti è stato suggerito da alcuni commentatori — che l’incredibile scoperta di una tribù isolata da sempre è in realtà il frutto di una messa in scena ideata insieme agli Indios per sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto alla minaccia del disboscamento, ebbene, ciò costituirebbe solo un’ulteriore evidenza circa l’inattendibilità universale tanto dei segni, quanto degli intendimenti.
A fronte di quel manipolo di impavidi indigeni potremmo dunque essere in presenza di una formidabile messa in scena. A noi interessa ora stabilire se anche in questo caso è possibile rintracciare delle analogie con Weiwei. Le autorità cinesi, infatti, hanno preso di mira un loro concittadino molto particolare, in quanto artista critico nei confronti del governo. Ma anche in quanto artista “postmoderno” che fa “metalinguaggio”, e che dunque può dare molto fastidio a un regime autoritario rappresentando una sfida alla credulità nei segni, ovvero nelle idee. Se denuncia i rischi di una occidentalizzazione coatta della Cina anche attraverso il suo operato di artista, come fa con la celeberrima e già citata serie dei “vasi Coca-Cola”, occorre disinnescarlo intanto distruggendogli lo studio. Nel caso degli Indios, invece, a far paura è stato il disboscamento intensivo, a cui una finzione prossima a quella dell’arte ha cercato di porre rimedio. In quanto potenzialmente eversivo, Weiwei è stato causa di distruzione, mentre appare come effetto di distruzione il diversivo escogitato al fine di ostacolare ruspe e motoseghe. In entrambi i casi — la falsa scoperta di una vera tribù e la vera distruzione di una fabbrica di finzioni — il risultato non cambia: a un’azione collettiva distruttiva sta opposta una rappresentazione creativa sostanzialmente individuale, una forma di resistenza armata solo dell’ingegno menzognero dei segni con la loro carica sovversiva e de-mistificante. Una dotta e consapevole “guerriglia semiotica” nel caso del colto Weiwei, un nondimeno geniale “terrorismo mediatico” nel caso degli Indios e degli intraprendenti sceneggiatori. Ecco un bel vademecum per attivisti pacifici, a prescindere dal fatto che le cose stiano davvero così. Perché, fino a prova contraria, la notizia della distruzione dello studio di Weiwei potrebbe anch’essa rivelarsi un falso, mentre la scoperta della tribù al contrario potrebbe essere autentica, e ogni afflato rivoluzionario andare a farsi benedire. In effetti, parrebbe che altre visite al villaggio siano seguite a quella prima, e che le autorità cinesi abbiano raso al suolo un intero quartiere di studi d’artista, tra cui anche quello di Weiwei, solo per favorire un nuovo piano edilizio, imposto magari con prepotenza e tuttavia non direttamente lesivo nei suoi confronti. Sorvegliato speciale, sembrerebbe che il nostro abbia cavalcato la notizia a suo vantaggio, inquinando un poco la verità dei fatti. O sono state le autorità a farlo?
Come si vede, nessun ideogramma dell’aeroplano preoccupato di restituire l’incontrovertibile verità del reale, né la certezza di eroi senza macchia scagliati contro i rispettivi Golia sembrano stagliarsi sullo sfondo di questo avvincente intreccio tra graffiti senza tempo e puntuali agenzie. Ma solo una strutturale anarchia dei segni, e in particolare di quei sistemi informativi globalizzati e onnipotenti i quali, proprio come l’arte e il sogno, tendono a confondere le notizie con i fatti e viceversa (leggi pure la realtà con le sue rappresentazioni) ma che, a differenza dell’arte e del sogno, appaiono refrattari a ogni verifica e inattendibili nella loro presunzione di verità.