Oramai distanti da un falso intellettualismo che portava la pittura al rango di medium deprecabile, in quanto meramente commerciale, per la nuova generazione di artisti under trenta la pratica pittorica diventa strumento rinnovato grazie all’ideale interiorizzazione delle istanze discordanti provenienti dalla realtà. L’idea di una nuova società dell’informazione ha infatti influito sull’elaborazione estetica del dato pittorico: questo medium ha conferito una propria e funzionale risposta a una cultura mirante alla decostruzione del reale. Pertanto, al di là di un rinnovato interesse nei confronti del quadro, si avverte un nuovo eroismo da parte di coloro che si imbattono nel presente, imbracciando tela e pennello. Il primo dato da rilevare è che non vi sono filiazioni dirette rispetto alle ultime generazioni di pittori, dalla Transavanguardia ai poco più che quarantenni, ma laddove vi siano tributi o affinità, si parla di artisti che possono avere una sensibilità affine più che una pratica pittorica da seguire. Diverso il discorso per quanto concerne l’attenzione ai coetanei: i rapporti si intessono ormai a livello internazionale, con compagni di strada, o direttamente attingendo ai mostri sacri della storia dell’arte. Per cui accanto ai sempreverdi Picasso, Matisse e Bacon, intrigante, e non così scontato, risulta l’apprezzamento verso Gino De Dominicis o Gerhard Richter, verso cioè un dato non solo retinico ma “mentale” dell’operazione pittorica.
Nell’ultima generazione la scena di riferimento si amplia a dismisura: due gli ordini di maestri cui far riferimento secondo una linea pienamente pittorica, interessata alla materia del colore, alle suggestioni e al piacere della pennellata, o precipuamente concettuale, in cui il segno e la pratica sono cosa mentale. In questa duplice prospettiva si rilevano alcune conferme, ma anche molti protagonisti di riferimento che esulano dalla pittura propriamente intesa. Risulta infatti improponibile e interessante nel contempo come artisti quali Burden, Jodorowsky, Nauman, Costa Vece possano costituire dei punti di riferimento nel perseguire una poetica spesso volta a una tensione verso l’opera d’arte totale. Un crogiuolo contaminante dove la Street Art s’innerva nelle stampe ottocentesche, frullati fra skate, hip-hop e post-punk, e dove il ruolo performativo diviene sempre più rilevante anche in virtù di una rinnovata perizia tecnica, che presuppone un dichiarato ritorno alla fabrilità dell’opera. Il giovane pittore recupera l’immagine da una memoria collettiva, rendendola parte di un immaginario che abbraccia il lato senziente e irrazionale dell’essere. In tale prospettiva vi è un rimando puntuale all’inconscio, all’ancestrale, all’onirico, senza tralasciare la dimensione visionaria, mnemonica e del puramente immaginativo.
Secondo tali considerazioni programmatiche, Ericailcane si sofferma in un anacronismo dal sapore favolista, fabbricando un carosello d’altri tempi in cui incisioni e disegni si alternano a wall painting, video e sculture nel narrare favole macabre con graffiante ironia. Creature paradossali e grottesche sviscerano umane passioni attingendo a una collettiva memoria infantile. Disillusa la morale, la fiaba diviene narrazione cruda di angosce quotidiane, in cui la bellezza del segno apre a un universo visionario e immaginifico, inquieto e straniante, ma, nonostante questo, sorprendentemente poetico.
Umberto Chiodi esplicita invece le zone d’ombra dell’inconscio attraverso atmosfere perturbanti e vittoriane: in lui l’attenzione si pone su quel mondo fintamente naïf legato alla filastrocca e alla favola, che nasce come insegnamento morale nella tradizione popolare. Anche per Chiodi l’espressione visiva è sincretismo di suggestioni provenienti dal fumetto, dalla stampa pubblicitaria, dall’arte applicata, dalle vecchie foto-cartoline. Ernst, i simbolisti: la metamorfosi del vivente e la tensione sessuale che intercorre fra tali personaggi sono continuo motivo di riflessione.
Differente, ma sulla stessa linea di condotta, il lavoro di Davide Zucco asseconda il fascino dell’ibrido e del tragicomico sulla via della ricostruzione di una personale mitologia ispirata alle culture popolari e alle fonti esoteriche del passato: Barry McGee, Clayton Brothers, Katsuhiro Otomo e Henry Darger, per una commistione inedita tra politica e ricostruzione dell’aura, mirante allo sviluppo di atmosfere ancestrali intrise di una nuova spiritualità.
Su questo fil rouge si orienta anche la poetica di Matteo Bergamasco, che espleta attraverso scenari onirici o psichedelici la sua necessità di aprirsi a nuovi stadi di visione, a mondi paralleli fantasmatici. Rudolf Steiner, la letteratura occultistica dell’Ottocento intesa come una forza vitale, sottile, percepibile attraverso rilevazioni fisiche; itinerari fantastici, mondi surreali, esoterici, in un delirio di colore. Nolde, Bonnard, Chagall, secondo una linea tutta pittorica che conduce agli esempi di Terry Winters e Alex Grey.
Diverso l’approccio nei confronti della fantasia e dalla memoria nel lavoro di Andrea Mastrovito, dove la capacità di metabolizzare e manipolare dei modelli si associa a una resa pittorica ottenuta con l’uso della carta intagliata. Poi vi sono l’ironia, il gioco irriverente. Generoso nella ricchezza del lavoro, eppure velato da un ineffabile spleen intellettuale. Boetti, Gonzalez-Torres, Arienti sono i mentori di tanta leggerezza, mentre le sue ricerche possono essere avvicinate a Kara Walker, Matt Saunders, Alexandre Orion.
Per Matteo Fato la ricerca si attiva grazie al dato percettivo e si espleta in maniera differente partendo dall’indagine di De Dominicis, nella quale l’importanza del concetto di mimesis conduce a una continua riflessione sulle diverse possibilità di interpretazione simbolica delle cose e degli eventi. Realismo e fantasia, dettaglio naturalistico e materiale immaginario convivono in prossimità nei suoi lavori, che, accostando disegni, fotogrammi e partiture musicali, mostra i codici di una ricerca tutta posta sul confine tra rappresentazione e imitazione, dove Nauman convive con David Hammons e Zhou Chunya.
Il pittore si pone contro la perdita del vedere dei nostri tempi: l’approccio è diretto, è una marcata relazione fisica con l’oggetto della visione. Oggi il vedere, più che un atto, è diventato un’azione e mai così forte è stata l’illusione che non esista più alcun mistero, alcun invisibile. Sempre più stimoli retinici minano la densità dell’immagine che diventa intransitiva e scorre come un ritmo di sottofondo, un brusio indistinto. Da questo punto di vista la tela torna a essere centrale in un recupero antropologico dell’immagine per le sue modalità procedurali e le caratteristiche tipologiche del medium. Sempre sul filo della memoria corre pertanto Noga Inbar, che estrapola dal flusso di coscienza lacerti di rappresentazione per un recupero antropologico dell’immagine. Le sue figure sono legate sempre a un racconto e a un vissuto, ricordando da certi punti di vista il lavoro di carotaggio e di prelievo fotografico del primo Gorky, da maestri vagamente demodé come Ben Shahn e Robert Gwathmey, e dall’intellettualità eccentrica ma estremamente originale di Romare Bearden e Alice Neel. Riferimenti e stratificazioni che incidono sul testo multiplo di Benny Chirco. Anche qui la storia dell’arte impiegata come collage, come composizione paratattica, con una grande libertà espressiva nella pennellata: illustrazioni, diari, manufatti dal passato si riverberano sulla tela.
Ancora sulla memoria si concentra Ian Tweedy, volto a intraprendere una vera e propria sfida per ricrearsi una storia, che lo spinge a ricercare, e successivamente ad archiviare, “materiali personali”, come ama definirli l’artista stesso, che racchiudano una traccia del passaggio di mano in mano. Recupera documenti, fotografie, mappe della guerra fredda su cui incidere una nuova storia, personale, attraverso la sovrapposizione di disegni, scritti, immagini e collage. Rauschenberg, certo, ma ancor più Richter, Francis Alÿs, Manfred Pernice, Neo Rauch, Beuys, per proseguire per affinità e stima ai più vicini Roman Ondak, Andro Wekua, Sam Durant e Matthew Monahan.
Di similare formazione è Blu, figura nomade nel suo continuo peregrinare nelle periferie del mondo che, attraverso i suoi personaggi dalla grande forza espressiva, crea delle creature-simbolo intimamente connesse alle problematiche della realtà contemporanea. Le sue figure sono generate da una tensione vibrante e da una necessità profonda dell’inconscio, così come le tele di Elena Monzo che ritrae figure femminili spigolose, esacerbate, memori dei disturbi psichici di freudiana memoria. L’impiego massiccio di stickers, secondo una procedura installativa per un intervento ibrido quale segno di una crisi, diventa organicamente commisurata alla sua condizione di donna occidentale alle prese con una società in perpetuo sommovimento. Gli antecedenti sono tutti scultorei e femminili, passando da Louise Bourgeois a Carol Rama, da Kiki Smith a Tracey Emin.
In questa generazione, dopo un inno alla parcellizzazione e volatilità di un pensiero debole ascrivibile agli anni Novanta, si comprende nuovamente che nell’opera d’arte, e ancor più nella pratica pittorica, nulla è strumentale, niente deve entrare che non sia compreso nelle proprie possibilità espressive, pena l’annullamento del senso complessivo. Una sfida, una ricerca di segni che sappiano declinare all’universale; una ricerca di metafore potenti e di linguaggi rigorosi. Ma, soprattutto, ipotesi per nuove realtà.