Le opere di Hidetoshi Nagasawa (Tonei, Cina, 1940; vive a Milano) richiedono all’osservatore una particolare attenzione poiché affondano le proprie radici formali e di pensiero in due differenti culture: quella orientale di provenienza dell’artista e quella occidentale di adozione. Risulta difficile, quanto inutile, definire i confini di appartenenza delle sue opere all’una o all’altra cultura nelle inedite formalizzazioni e nelle non comuni visioni, che da quasi mezzo secolo sono proposte dall’artista con stimolanti riflessioni sulla storia e sulla poetica scultorea: Nagasawa ha costituito in questi decenni un ideale ponte, a doppio senso, tra Oriente e Occidente. Per questo le sue opere offrono all’osservatore occidentale la possibilità di acquisire nuovi modi, attenzioni e tempi della contemplazione che sono propri del pensiero orientale e che affinano e arricchiscono il suo sguardo, stimolandolo a essere più curioso, aperto, profondo e riflessivo, non solo sulla contemporaneità ma anche nel suo necessario rivolgersi al passato. Dagli anni del suo esordio e fino ai più recenti esiti formali, Nagasawa offre continue occasioni di specifiche riflessioni su questioni proprie della disciplina scultorea, quali l’accostamento compositivo tra le parti e le proprietà fisiche della materia.
Nel maggio del 1966 Nagasawa lascia il Giappone diretto prima in Thailandia e poi, in bicicletta, sempre più verso occidente; dopo più di un anno, sulla soglia del Bosforo, l’ascolto casuale della musica di Mozart lo convince a proseguire. Dopo aver scoperto le bellezze culturali della Grecia e del territorio italiano, risalendolo da sud a nord, il viaggio si interrompe, determinante casualità del fato, per il furto della bicicletta a Milano. La città in quegli anni è una realtà artistica tra le più interessanti in Europa. Il lascito culturale di Fontana, Manzoni e Lo Savio, mediato dai contatti con effervescenti situazioni d’oltralpe, trova nuova vitalità in un ambito in cui operano Castellani, Dadamaino, Fabro, Trotta, Nigro, Agnetti e tantissimi altri artisti. Con molti di questi Nagasawa diviene subito amico e compagno di strada, vivendo anni determinanti per l’arte europea.
Nelle prime opere della fine degli anni Sessanta è già possibile notare l’attitudine di Nagasawa ad accostare i vari elementi delle sue composizioni con una sua specifica sensibilità, lontana dagli assemblaggi e dalla casualità tipica del clima irrequieto e sperimentale di quel periodo, come anche dalla processualità antitradizionale dei maestri nipponici dell’area Gutai, conosciuti in patria. La continua esigenza di mantenere l’armonia e l’equilibrio tra le parti è sempre puntuale e presente: tra il naturale e l’artificiale, tra l’oggetto e la sua immagine, tra i due differenti tempi che caratterizzano il processo creativo.
L’energia creativa di Nagasawa genera opere che marcano il passaggio a nuove modalità linguistiche e, come spesso segnalato nei preziosi testi che in questi anni hanno accompagnato le sue mostre, a una presa di coscienza nata dalla riscoperta delle sue radici culturali e dal nuovo rapporto tra il suo corpo e il reale e tra il naturale e l’artificiale, fondato sull’accostamento per contatto. Il disegnare è concepito come un veloce attraversamento della superficie nel gesto dell’autonominazione e come una verifica dell’esercizio della copia nella possibilità di definire il non visibile per somiglianza e completamento. Interessante risulta l’azione Toccata (1972), documentata in video da Luciano Giaccari, in cui l’artista traccia sulla tela, grazie al ricordo tattile, la copia del corpo della modella. L’idea incontra la materia non solo secondo la logica sensoriale che delega all’azione dei meccanorecettori la riconoscibilità del reale, ma piuttosto sulla base di una concezione più ampia di accostamento per contatto come rapporto tra sé e l’altro-da-sé, tra simile e dissimile e come intervallo spazio-temporale in cui si evidenzia lo scambio energetico.
Oro di Ofir (1971), il cui titolo richiama l’aspetto mitico della cultura biblica, è opera audace e fondativa per l’artista e diviene importante caposaldo per gli sviluppi futuri sia dell’arte italiana che giapponese: due elementi in oro riproducono lo spazio interno alle mani chiuse dell’artista. Il gesto determina la forma nell’incontro tra il pensiero, la materia aurea e la tecnica antica della colatura. Il pensiero orientale del Ma, presente già nelle opere precedenti, è qui elemento generante dell’opera. La sua definizione marca la differenza tra Oriente e Occidente. Il Ma in Oriente è strettamente connesso al concetto di vuoto, mai in opposizione e disgiunto dal pieno, e può essere inteso come una durata temporale ma anche come una distanza, una misura, o una relazione tra persone o cose, quindi all’interno di un concetto di contatto. Per l’artista, la scultura trae origine dal contatto: “Volevo toccare lo spazio che non esiste, che non si vede. Io penso che il senso della scultura è di toccare e creare dove non si vede”. Il contatto diviene sostanza e immagine e Hidetoshi Nagasawa definisce con precisione il confine della forma di un sé presente/assente.
Negli anni Settanta le opere presentano la frattura come luogo del contatto tra il naturale e l’artificiale e l’idea di accostamento per contatto tra le due parti viene definita nella riproduzione e nella reintegrazione di un’assenza, annunciando il concetto di “doppia natura”, esplicitato in seguito dall’artista. Nel 1972 nascono sculture come Colonna, presentata alla XXXV Biennale di Venezia, in cui gli undici rocchi sinuosi in differenti marmi possiedono alle estremità l’esatta frattura delle due pietre adiacenti, precedente e seguente. Si richiama la continuità di un pensiero che da Colonna senza fine di Brancusi giunge alle contemporanee proposizioni concettuali dell’opera come parte di un tutto infinito. L’osservatore nella sua mente rende possibile la continuità e la tensione dell’intervallo tra l’una e l’altra superficie delle fratture che separano i rocchi di diverso marmo: parimenti al manzoniano Socle du monde, nello spazio tra il limite dell’ultimo e del primo rocco è compreso il mondo.
La riflessione sull’accostamento per contatto, coniugata con il pensiero del Ma, trova un ulteriore riscontro in opere successive nelle quali permane il doppio richiamo all’antica cultura orientale e all’idea della scultura occidentale intesa in senso classico: la tensione definisce lo spazio tra gli elementi che costituiscono l’opera, per dare forma a ciò che prima non ha forma e non si mostra all’occhio.
Nel 1976 viene pubblicato un libretto con riflessioni e conversazioni tra Jole De Sanna, Luciano Fabro, Antonio Trotta e Nagasawa: il titolo é Aptico, parola antica che richiama il tatto, ma anche la piega, scelta per la ridefinizione dell’idea della scultura nella continuità dello spazio-tempo presente, ricco di riverberi del passato e del futuro. La storia della scultura, dall’arte preistorica a Bernini, Brancusi, Rosso, Fontana e Melotti, viene rivisitata in un’idea del tempo che Nagasawa definisce come “tempo zero”, inteso sia come annullamento della distanza temporale tra le cose, sia come attenzione allo stato del dormiveglia meditativo, momento epifanico dell’idea. Questo fa sì che nel panorama contemporaneo le opere di Nagasawa, più di altre, comportino per l’osservatore la necessità di instaurare con esse relazioni che dischiudano piani della visione e dimensioni del pensiero differenti e desueti, per gli occidentali: la compresenza nel momento contemplativo della logica razionale e dell’abbandono alla capacità intuitiva dei sensi. L’artista stesso più volte parla della necessità, “dove l’intelligenza non è sufficiente”, di usare anche “l’intuizione che riconduce a una dimensione antica e totale ormai dimenticata”. In questo senso diviene interessante richiamare Selinunte – Dormiveglia (2009) o soprattutto Paravento S (2014); in quest’opera la materia, tagliata e semplicemente accostata, induce lo sguardo a conquistare nuove dimensioni immaginifiche della visione che giunge a evocare nel contempo i paesaggi della cultura giapponese e i marmi preziosi delle basiliche imperiali del tardoantico: la materia sembra trascendere in altro, dimentica di una propria fisicità.
Le opere di Nagasawa pongono anche la specifica riflessione sulle proprietà fisiche della materia in opere spesso definite come “antigravitazionali”, nelle quali le tensioni, i pesi e le masse trovano inedite soluzioni ricche di riverberi con la storia e la contemporaneità. La levità che esse possiedono deriva non tanto dall’artificio magistrale messo in atto, che rimane solo fatto tecnico della composizione, quanto dalla capacità di raggiungere l’idea di equilibrio che l’artista da sempre persegue. L’opera è “seconda natura” e deve possedere la medesima armonia della “prima natura”. Le regole che portano alla definizione di equilibrio, simmetria, relazione spaziale tra pieno e vuoto, rapporto dell’uomo con il tutto/mondo, armonia e proporzione, sono differenti in Oriente e Occidente. Lo studio e la conoscenza di entrambe le culture permettono a Nagasawa di misurare distanze e prossimità tra il suo pensiero e quello fondato sulla Grecia antica, creando quel ponte ideale e reale tra le due differenti concezioni del mondo e dell’opera.
La condizione di lontananza, ottenuta attraverso il continuo e contemporaneo raffronto tra le due culture, consente all’artista di acquisire la necessaria libertà prospettica per creare opere che dalle radici di una complessiva storia traggono qualità e ragioni. Esse sono felici sintesi poste nella pausa di un intervallo e fondate, usando un altro tropo, sulla leggerezza dell’equilibrio di un’immaginaria stadera dove la sospensione diviene esattezza: da una parte il peso, la fisicità e le proprietà di ciò che si vede, dall’altra l’immaterialità dell’idea misurata in tutta la sua valenza storica. La misura perfetta non è data a priori, ma ritrovata assecondando il materiale che si inchina come un fiore sotto il peso della rugiada, e la dimensione aurea è misurata con il gesto che ripete la forma esperendola ogni volta con diverse intensità e rettificandola con le proprietà energetiche e cromatiche del materiale.
Galileo Galilei notava che gli antichi “negando totalmente la levità e ponendo tutti li corpi esser gravi” non rendevano possibile il moto all’insù, ovvero il galleggiamento nello spazio. Nagasawa giunge all’affrancamento dalla gravità attraverso le affermazioni di una storia della scultura che attraversa i secoli, da Bernini a Canova, Boccioni, Fontana e Melotti. È il caso di Epicarmo (2012) in cui la questione del peso è superata dalla forma: un solo blocco di marmo di una tonnellata definisce il limite di un quadrato assente, tenuto sospeso in alto, nello spazio, da duecento tondini edilizi in ferro che ne trafiggono i vertici. Il miracolo della sospensione può forse trovare compendio nelle parole che l’artista utilizza parlando di un’opera del 1989: “ Il mio lavoro diventa sempre più leggero, forse un giorno sparirà”.
Jole de Sanna nel 1999 afferma che il lavoro di Nagasawa “si alleggerisce per la sapienza costruttiva dell’autore, perché sale dal profondo della mente che intenziona”. Rispondono a questo Eone (1992), presentato alla IX dOCUMENTA di Kassel, Gaia (1992), e Iride (1993) o i più recenti L’albero di farfalle (2008), Andromeda (2014), ma anche Sette anelli (2015).
La levità è concetto legato a quello del peso e Nagasawa non nega mai ai materiali le loro caratteristiche fisiche che sono sempre ben presenti e individuabili. Ma la scultura “deve stare in aria”, afferma l’artista, ed è riuscita quando “c’è equilibrio, quando anche cinquecento chili vengono fatti galleggiare nell’aria e sembrano leggeri”. La loro spaziosità diviene infatti equilibrio di proprietà materiche e volumetriche che genera solidi la cui concezione comprende il vacuum leonardesco- pacioliano. Sono da richiamare in questo Ipomea (1995), Yugao-Jole (2005–13), Spirali dal cielo (2014) e Tre cubi (2015).
L’immagine del braccio nudo sospeso sul panorama di una vallata con Oro di Ofir sulla mano diviene così emblematica del contatto e della levità del lavoro scultoreo, del protendersi del corpo nella dimensione dello spazio. Nelle opere di Nagasawa l’antico atto del porgere delle statue antiche o dell’Ebe canoviana, sembra mutarsi in invito nella contemplazione a esercitare diversamente lo sguardo e i propri sensi verso il superamento della materialità apparente.