Umberta Genta: “Modern Times”, composta da undici fotografie che hai realizzato in occasione della XIV Biennale d’Architettura, prosegue la tua ricerca — iniziata negli anni Novanta — dedicata alle icone dell’architettura mondiale. Ma c’è una novità spiazzante: le immagini sono quasi completamente fuori fuoco, impressionistiche. È una scelta apparentemente contraddittoria se penso alla riconoscibilità che il tuo lavoro ha assunto nel tempo: in serie come “Theatres” o “Seascapes” — in cui l’utilizzo di esposizioni lunghissime permetteva alla tua pellicola di registrare il passaggio del tempo — le immagini colpivano proprio per l’estrema nitidezza finale.
Hiroshi Sugimoto: Ho usato la stessa macchina fotografica di grande formato che di solito mi permette di realizzare immagini nitidissime, anche se questa volta le immagini sono intenzionalmente fuori fuoco. Ciò che però emerge dettagliatamente sono le tonalità, dal nero al bianco, alle varie aree di grigio; con queste fotografie intendevo rappresentare ombre e forme che trovo interessanti, e dalle quali emerge la qualità onirica dell’architettura. Oggi penso che sia meglio guardare l’architettura in questo modo piuttosto che perfettamente a fuoco. Quando una cosa è fuori fuoco è ancora più riconoscibile perché la sua forma essenziale risalta rispetto alle sue parti in deterioramento. Dopotutto molti di questi edifici modernisti hanno quasi cento anni: hanno bisogno di un lifting!
UG: Sei anche un architetto, e ti occupi personalmente dell’allestimento di ogni tua mostra. In occasione della mostra alla Bevilacqua la Masa a Venezia, hai scelto di esporre immagini di celebri architetture moderniste come il Johnson Wax Building di Frank Lloyd Wright accanto a quelle di strutture recenti legate all’arte contemporanea, come la Serpentine Gallery di Londra. Il tutto avviene a palazzetto Tito, storica dimora veneziana. Quale pensiero o intenzione collega questi elementi?
HS: Volevo portare in questo palazzo — che ha una sua storia — una mostra su cosa il Modernismo fu nel suo tempo, mentre accadeva. Volevo mostrare il passaggio del tempo da un decennio a quello successivo. Credo che sia un buon modo per riflettere su cosa significhi “moderno” oggi, proprio perché il moderno è già nel passato.
UG: Questo rimanda al fatto che per te la memoria è vitale; hai detto che la fotografia è “una macchina del tempo della memoria” e che la tua fotografia funge da vera e propria “fossilizzazione”. Perché ti appassionano i fossili al punto di possederne una ricca collezione?
HS: I fossili rappresentano il mio “programma di istruzione”. Non trovo una controparte stimolante negli artisti contemporanei, quindi voglio cercare nella storia qualcosa con cui competere, non nell’era contemporanea. Mi interessano maggiormente i maestri del passato e i reperti che le civiltà antiche hanno lasciato, perché essi sono in grado darmi un senso di cosa le persone vivevano e “sentivano” nell’antichità. Non rifuggo gli artisti del mio tempo, perché condividiamo molte cose; ma allo stesso tempo ci dimentichiamo di cosa è stato il Medioevo, o di come era Venezia nel Cinquecento. Collezionare mi permette di contemplare l’insieme di questi oggetti, e “sentire”…
UG: Con un processo simile a quello della fossilizzazione, la fotografia analogica è la registrazione permanente di una impressione sulla pellicola. Per questo, o per quali altri motivi, prediligi questo processo rispetto al digitale?
HS: Per quanto riguarda la tecnica, scelgo sempre la strada più difficile perché mi diverte di più. Quindi, dato che cerco la più alta qualità di bianco e nero, soltanto l’analogico riesce a produrre la fotografia migliore. La pellicola a volte non si trova immediatamente, e spesso porto con me un kit per lo sviluppo delle immagini. Non si tratta solo di uscire e trovare qualcosa da fotografare, ma è totalmente diverso; mi occorrono sei mesi o un anno di preparazione prima di immortalare un luogo. È tutto molto artigianale. Questo mi consente anche di non essere copiato, proprio perché sarebbe difficile. È una bella sensazione pensare di essere gli unici a fare una cosa. Possiedo una fotocamera digitale, ma non produce la qualità che cerco nel mio lavoro. In un certo senso la fotografia digitale è come la pittura, dove si può manipolare ciò che si vuole per rappresentare la propria immaginazione. Ma la fotografia tradizionalmente è registrazione della realtà e della verità; ecco perché la polizia la usava come prova.
UG: Negli anni Settanta hai lasciato il Giappone e hai scelto New York come tua dimora. Cosa ti ha spronato a lasciare il tuo paese natio, e in che modo questa decisione ha influenzato la tua formazione?
HS: In Giappone ho studiato sociologia, filosofia ed economia marxista, il che significava affrontare l’opera di filosofi come Feuerbach, Hegel, Kant. Quando ho deciso di viaggiare in Europa ero giovane, non sapevo bene cosa avrei fatto nella vita e non avevo particolari intenzioni se non di vedere il mondo. Nel 1972 sono stato in California durante il Flower Power. Trovavo quel momento interessante e volevo capire cosa stava succedendo; così decisi di restare per un periodo, prima di trasferirmi a New York nel 1974. In California le persone mi chiedevano spesso che gli spiegassi che cos’è il Buddismo; e così ho iniziato a studiare più a fondo la filosofia orientale.
UG: Chi ritieni ti abbia insegnato di più nella tua pratica di artista? Rotary Demisphere, a cui dedichi una stanza di Palazzetto Tito (sede della Fondazione Bevilacqua La Masa, NdR), sembrerebbe un omaggio a Duchamp.
HS: Per quanto riguarda gli aspetti tecnici ho imparato molto da Ansel Adams e dai suoi cinque volumi di tecnica fotografica, che ho letto da giovane. Duchamp è una figura abbastanza unica; rappresenta lo stile della vita di un vero artista. In un’epoca ricca di movimenti artistici come il Dadaismo e il Surrealiamo, Duchamp non fece parte di nessuna corrente. Fu estremamente influente, ma altrettanto indipendente.