Per inaugurare la nuova sede milanese di Lia Rumma, aerea fortezza intagliata nel cemento e legata in vetro e acciaio, niente di più congruo che un’esposizione di Ettore Spalletti: i suoi volumi e le sue superfici, se nel loro pacifico angolarsi o centinarsi si assortiscono allo spazio per simpatia, poi, con i loro colori attutiti, quel loro strizzare l’occhio a moduli della tradizione rinascimentale, e una certa qual patina di preziosità e alchimia, vitalizzano questo stesso spazio in un contrappunto soffuso e discreto.
Al piano terra ci aspettano le opere più recenti, riunite in un’unica installazione, dal titolo Lago, dormiveglia. Eseguite nel 2010, sette tavole recanti i consueti impasti di colore perlaceo e impalpabile, in cui sempre, come una luminosità interna, traspare un sottofondo di bianco, si racchiudono intorno a noi all’interno di un box cubico, geometria entro geometria. Questa disposizione, votata all’ortogonalità, cela nei suoi intervalli come un respiro delle superfici, diversamente squadrate o stondate ai bordi, nel loro farsi spessore: ne risulta un abbraccio tanto fermo nel suo andamento regolare, quanto mobile e pulsante, fatto di trasalimenti della forma e della materia, di ritmi che modulano questa serie come il metro poetico di un carme.
Proseguendo ascensionalmente il cammino, ecco ancora colori traspiranti e pallidi, che disarmano e sfumano il rigore geometrico delle sagome su cui si depositano. Sembra che ci troviamo di fronte a una sorta di inquietudine della verticalità: come se questa fosse sottoposta a spinte dal retro, a punture di matita, a divaricazioni impercettibili, ci accostiamo a pannelli color azzurro tenue, bordati dagli scivoli luminescenti di modanature in foglia d’oro, o segnati da fratture di spigoli che svelano un contorno in foglia d’argento. Se qualcuno pensasse di rapportare queste forme a una sensibilità di tipo minimalista si fermerebbe a uno stadio di abbozzo e di oscuro brancolamento dei volumi, a un loro limbo larvale precedente la discesa della luce, in attesa di quel tripudio atmosferico che ne sancisce il compimento e ne forma allo stesso tempo il carattere perennemente cangiante.
Al secondo piano — non si direbbe, da quanto siamo saliti in alto! — spiccano, tra un davanzale color antracite (Davanzale, 2000) e due tavole Così, rosa (2009), le Colonne perse (2000), tre steli erette a irretire la luminosità circostante, condividenti, ciascuna di esse, i connotati sia del prisma che del cilindro, liberamente traspiranti nei loro sfaccettamenti e nelle loro curve: una triade che sembra pigmentarsi d’aria, e reagire al bagno di luce in cui si trovano immerse con una sensitività cangiante e volubile, di natura, potremmo dire, meteorologica.
Rievocare, come termine di riferimento più compiuto ed eloquente, i moduli sperimentati da Piero della Francesca nel Quattrocento, come fa Nicola Spinosa in chiusura di catalogo, non è né esagerato né irriverente, ma sottolinea nella giusta misura un modus operandi asceticamente devoto all’artigianalità più genialmente innovativa della nostra tradizione plastica e pittorica.