Altered Earth,
o il flâneur tra gli schermi
Altered Earth (2012) è un’installazione video presentata da Doug Aitken nella Grand Halle del Parc des Ateliers di Arles, nello stesso spazio in cui si tengono gli estivi “Rencontres d’Arles”. Dodici grandi schermi bifacciali di 8,5 x 5 metri, sospesi a 60 centimetri dal suolo, sono disposti a stella in un ambiente industriale immenso e spoglio che ricorda un po’ l’HangarBicocca. Accompagnate da un soundscape minimalista e avvolgente, le immagini a circuito chiuso mostrano i paesaggi della Camargue, che l’occhio della telecamera esplora e scopre allo stesso tempo dello sguardo dello spettatore (Aitken non ha l’abitudine di fare dei sopralluoghi prima di girare). Su queste distese austere e desolate lo spettatore è invitato a proiettare altre geografie. Lontano da ogni intento documentario, Altered Earth racconta il modo in cui il paesaggio naturale viene rimodellato dal dispositivo tecnologico all’epoca digitale (la visita è completata da un’applicazione scaricabile gratuitamente). Racconta altresì il modo in cui evolve lo spazio d’esposizione, senza prospettiva né gerarchia.
Lo spettatore vive un’esperienza volatile generata dalla fluidificazione delle immagini in movimento da uno schermo all’altro. Volatile quanto prismatica e modulabile. Infatti in Altered Earth possiamo immergerci, essere in prossimità delle immagini in un modo impensabile al cinema, entrando nel campo dell’immagine e interferendo col cono della proiezione, oppure camminando all’esterno dell’installazione nel tentativo di perimetrarla. O, ancora, possiamo abbandonarci alla pulsazione e all’intensità visive come alla spazializzazione sonora, oppure sforzarci di raccordare le immagini tra loro, sfidando la loro natura refrattaria a ogni narrazione lineare.
Soluzioni multiple e inesauribili grazie alla struttura a doppia elica di Altered Earth, potente macchina di visione: le immagini sono in movimento quanto i corpi degli spettatori rispetto alle immagini. Questa struttura oggi molto diffusa riflette anche l’emancipazione del pubblico rispetto alla sua duplice cattività in una sala cinematografica, legato alla sua poltrona (spaziale) per tutta la durata della proiezione (temporale). Altered Earth offre una versione sofisticata di una tendenza affermatasi nell’arte contemporanea sin dalla metà degli anni Novanta, quella dell’installazione a più schermi (multiple-screen installations). “Artists’ film” (Tamara Trodd), “artists’ cinema” (Maeve Connolly), “gallery film” (Catherine Fowler), “cinéma d’exposition” (Jean-Christophe Royoux)1: nomi che designano lo stesso fenomeno, quello della produzione di un cinema d’artista destinato essenzialmente a dei contesti espositivi istituzionali.
Un fenomeno che presuppone infine, l’aspetto su cui insisteremo, quello che Dominique Païni ha chiamato “flâneur d’installations”2, che evolve tra superfici schermiche e non più tra i paesaggi naturali all’orizzonte o le insegne e le vetrine dei negozi. Per comprendere meglio questo passaggio — che riguarda in generale la nostra stessa condizione di spettatori — mi servirò di un compagno di strada eccezionale quale Roland Barthes.
I due corpi dello spettatore
Nel 1975 — l’anno in cui escono S/Z e L’impero dei sensi — Barthes pubblica su Communications un breve articolo, “Uscendo dal cinema”. Già dal titolo è evidente lo scarto rispetto agli altri testi che aveva consacrato al cinema a partire dai primi anni Sessanta. Per semplificare, possiamo distinguere tre fasi: la prima legata alla semiotica visiva (da Il problema della significazione nel cinema, 1960, a Semiologia e cinema, 1964); la seconda composta da due testi-cerniera, i più celebri tra quelli di Barthes sul cinema: Il terzo senso. Note di ricerca su alcuni fotogrammi di Ejzenstejn (1970) e Diderot, Brecht, Ejzenstejn (1973); la terza, che non ha goduto della stessa attenzione critica della precedente, legata appunto a Uscendo dal cinema3.
Nella prima, Barthes s’interroga sulla possibilità di distinguere nel film delle unità discrete o la logica interna che lo rende a tutti gli effetti una pratica retorica. Il linguaggio è quindi il modello del cinema. La seconda fase mette in crisi questo assunto attraverso il cosiddetto “senso ottuso” e l’analisi di una selezione accorta di fotogrammi. Tale frammentazione rifiuta la natura cinematica e sintagmatica del film e, in ultima istanza, il montaggio.
In Uscendo dal cinema si consuma definitivamente il passaggio dall’analisi semiotica alla fenomenologia o dal film come testo al film come esperienza. Barthes non spende neanche un rigo per la sinossi del film che ha visto; tutta la sua attenzione è rivolta a ciò che lo precede “di strada in strada, di manifesto in manifesto” e, soprattutto, a ciò che lo segue una volta riconquistato l’esterno. In altri termini, la sua è una lettura topografica: il cinema viene inteso come un luogo prima che come un oggetto da guardare allo stesso modo di un quadro (ed è su questo sodalizio — il cinema come sala e come film — che si è giocato il destino del cinema moderno). Siamo lontani dalla visione televisiva, priva di quell’oscurità che costituisce l’elemento naturale della sala di proiezione e che già affascinava i surrealisti. La televisione rimanda alla casa, alla famiglia, a un erotismo addomesticato. Il film invece è, scrive Barthes con un’espressione felice, un “festival di affetti” da cui si esce come da un’ipnosi — “E dell’ipnosi […] ciò che percepisce è il più antico dei poteri: quello di guarire” (Barthes parla di sé alla terza persona).
Un festival di affetti in cui lo spettatore è coinvolto dallo svolgimento diegetico del film ma anche altrove. Altrove dove? Vediamo meglio: il primo atteggiamento è quello proprio del cinefilo che si siede nei primi ranghi identificando il suo campo di visione coi limiti dello schermo e schiacciando per così dire il naso sulla sua superficie (“l’immagine mi cattura, mi rapisce: mi incollo alla rappresentazione”). Come scriveva François Truffaut in difesa del cinemascope, “au cinéma, il faut en avoir plein la vue”4: al cinema bisogna riempirsi la vista. Essere così vicini allo schermo per aggirare la visione obiettiva e distaccata tipica della critica, ma anche per evitare che si manifesti il secondo atteggiamento, “un immaginario leggermente distanziato”.
È il punto centrale, che Barthes espone poche righe prima della conclusione e su cui non tornerà ulteriormente, quello dei due corpi dello spettatore. Ogni spettatore cinematografico avrebbe un corpo narcisistico e un corpo perverso, “lasciandosi affascinare due volte, dall’immagine e dai suoi contorni, come se avessi due corpi allo stesso tempo”. Il corpo narcisistico è quello del cinefilo che ricerca un rapporto empatico con lo schermo-specchio; il corpo perverso è invece “pronto a feticizzare non l’immagine, ma per l’appunto ciò che la eccede: la grana del suono, la sala, il nero, la massa oscura degli altri corpi, i raggi della luce, l’entrata, l’uscita”. Una distanza amorosa e non intellettuale, precisa Barthes.
Questi due corpi, è chiaro, convivono. Sono due polarità della stessa esperienza e non si darà l’uno senza l’altro, sebbene, a seconda dello spettatore, del film e del luogo di proiezione, uno prevarrà sull’altro. Di certo, in tale rapporto di tensione, l’unità del soggetto moderno che pretendeva dominare il mondo con un solo sguardo si sfalda, si lacera al suo interno. Ogni tentativo di suturare questi due corpi in un solo soggetto, di ricondurli a unità, sarà votato al fallimento.
Rischi dell’immersione
Al cinema siamo spettatori narcisisti e perversi — fino a qui Barthes. Proviamo ad andare oltre, considerando questi due corpi in rapporto alle arti visive e, soprattutto, nel loro sviluppo storico. In sintesi, il corpo narcisista, pienamente coinvolto nell’immagine, è identificabile con il modernismo, laddove il corpo perverso emerge non appena questo movimento entra in crisi. Quante manifestazioni artistiche a partire dagli anni Sessanta sono una feticizzazione di tutto ciò che eccede l’immagine, dominio del narcisista? E in tale passaggio a una spettatorialità perversa, le installazioni — come quelle del cinema d’artista — giocano un ruolo fondamentale. Uno sguardo disattento su qualsiasi esposizione confermerà quasi banalmente che quello dell’arte contemporanea è, in senso barthiano, un corpo perverso, se non la sua apoteosi.
Ora, è precisamente questo punto che vorrei controbattere. Le installazioni, non c’è dubbio, hanno contribuito a far emergere un corpo perverso che, prese le distanze dall’immagine, si relaziona con lo spazio quanto con gli spettatori. Ciononostante, nella nostra epoca postmediale non stiamo assistendo a un ritorno, se non a una vera e propria regressione, verso il corpo narcisista? Un ritorno, ecco uno dei tanti paradossi, agevolato dallo sviluppo tecnologico e dalla virtualizzazione dell’esperienza estetica, dal passaggio dal multimedia ai New Media5. Come se, a forza di voler immergere lo spettatore all’interno di dispositivi tecnologicamente sofisticati, il corpo perverso fosse sempre più irretito, depotenziato dal corpo narcisista. Non a caso molte installazioni video somigliano a “una sorta di pittura murale elettronica” (Catherine Elwes)6, un nuovo pittorialismo che si associa all’immobilità del pubblico.
Il nodo della questione è nella spinta all’immersione, una delle preoccupazioni maggiori delle installazioni cinematografiche. Le cose non sono sempre andate così, ribatte Chrissie Iles, curatrice al Whitney Museum of American Art, dove nel 2001 ha organizzato “Into the Light. The Projected Image in American Art, 1964-1977”, la mostra che ha riacceso l’attenzione per la proiezione nelle arti visive nonostante il suo doppio vincolo storico (1964-1977) e geografico (solo gli Stati Uniti). Gli spazi di diffusione del cinema contemporaneo hanno una natura eccessivamente immersiva, da quando hanno rimosso ciò di cui prima si era consapevoli: il proscenio, lo spazio teatrale, lo schermo di dimensioni ridotte, il suono che proveniva da dietro lo schermo, la presenza del pubblico, gli spazi limitrofi7. Elementi che contribuivano ad affrancare lo spettatore perverso dalla cieca identificazione narcisistica con il film.
È un’osservazione preziosa, sebbene il problema mi sembra più complesso. Basta considerare in una prospettiva storica questa spinta all’immersione per rendersi conto che, lungi dall’essere una preoccupazione recente, rimonta al XIX secolo, ovvero alle origini della modernità. Una fase storica imprescindibile per comprendere i dispositivi di visione e, in genere, la cultura visiva contemporanea. Panorama, galleria, passage, esposizione universale, vetrina dei negozi, affiches, parco d’attrazione, circo, fête foraine, vaudeville, show business, museo di cera, flânerie metropolitana, stampa illustrata: nel XIX secolo le immagini sono meno un oggetto di contemplazione (narcisista) che di attrazione e consumo (per loro natura perversi)8. Non sorprenderà che la visualità del XIX secolo è al centro delle ricerche di diversi studiosi poco letti in Italia, legati alla storia dell’arte (Jonathan Crary), ai Media Studies (Friedrick Kittler), ai film studies (Tom Gunning) o alla più recente media archaeology (Thomas Elsaesser, Wolfgang Ernst, Erkki Huhtamo, Siegfried Zielinski).
Da Dan Graham a Olafur Eliasson.
Crisi della scala somatica
Torniamo alle immagini proiettate nei musei. Christine Ross distingue due fasi storiche. La prima, legata agli anni Sessanta – Settanta, è segnata da “an aesthetics of self-criticality, distanciation, and reality-versus-illusion”; la seconda, a partire dagli anni Novanta, da “an aesthetics of immersiveness, relationality, and real-virtual continuum” propria della realtà aumentata9. Dalla riflessività critica all’interattività, fino all’ecumenica estetica relazionale.
Una traiettoria che va, per prendere due opere iconiche, da Present Continuous Past(s) (1974) di Dan Graham a The Weather Project (2003) di Olafur Eliasson, esposta nella Turbine Hall della Tate Modern di Londra. In entrambi i casi, la presenza dello specchio confonde i parametri spazio-temporali, la realtà e l’illusione, il piano psicologico dell’introspezione critica e quello tecnologico della moltiplicazione della propria immagine. Ma le somiglianze si fermano qui. Graham gioca abilmente sullo scarto tra lo schermo e lo specchio attraverso diversi espedienti tecnici, “varying the arrangement of cameras and monitors, combining live and prerecorded feedback, inverting viewers’ images, divorcing cameras from their monitors, and introducing time delays”10. Eliasson abolisce invece ogni presa di coscienza, ogni attivazione della soggettività: il pubblico (piuttosto che lo spettatore) è steso sul pavimento della Hall alla ricerca del suo riflesso lillipuziano sul lontanissimo soffitto a specchio. Una forma di narcisismo collettivo o di spettacolarizzazione del narcisismo.
Negli anni Settanta gli artisti erano consapevoli di esporre le loro opere in uno spazio istituzionale in presenza di un pubblico. In questa triangolazione tra opera, spettatore e contesto espositivo, i tre termini tendevano ad avere lo stesso valore. Al contrario, oggi sempre più “lo spazio non entra a far parte della struttura concettuale del lavoro”11, puntualizza Iles, e l’operazione artistica si risolve in un rapporto biunivoco tra opera e spettatore, dove la prima tende a controllare le reazioni del secondo. Un narcisismo ai tempi della video-sorveglianza.
Determinanti sono anche le dimensioni: dalla “scala somatica” di Graham si è passati alla “scala architettonica” di Eliasson, per utilizzare una distinzione di James Meyer12. Il corpo dello spettatore non si misura più nello spazio proporzionato del white cube (o della sala cinematografica) ma nello spazio architettonico del museo intero il quale, per così dire, scioglie il soggetto nelle sue proporzioni colossali. Solo la scala somatica, a misura d’uomo, permetteva al corpo perverso di proliferare, come nella scultura minimalista, né troppo grande né troppo piccola, né monumentale né ornamentale. Questa divisione resta naturalmente porosa, se pensiamo agli artisti che hanno vissuto entrambe queste fasi come Richard Serra, uno dei protagonisti del Post-Minimalismo che, con Promenade (presentata al Grand Palais di Parigi nel 2008), si ricongiunge a The Weather Project.
La riaffermazione del corpo narcisista comporta un revival di quel modernismo da cui pensavamo di esserci liberati una volta per tutte. Una tendenza che coinvolge non solo l’arte contemporanea ma anche il cinema. Penso in particolare alla nostalgia di molti studiosi francesi, da Jacques Aumont a Raymond Bellour, per il dispositivo della sala cinematografica su cui insistono proprio mentre Aitken espone in Francia Altered Earth. Nel frattempo i Cahiers du Cinéma si chiedono se e in che misura le installazioni video costituiscono una minaccia per la sopravvivenza del cinema.
La domanda mi sembra mal posta, perché tale divisione tra cinema e installazione non è più adeguata oggi che persino un regista come Werner Herzog — che non ha mai nascosto il suo disinteresse se non la sua avversione, verso l’arte contemporanea — realizza Hearsay of the Soul, un’installazione video presentata alla Whitney Biennial del 2012. Un caso singolare, se pensiamo all’influenza che ha esercitato Herzog sugli artisti. Più proficue sono le convergenze, a partire dalle ragioni del corpo narcisista che si traducono in specifici dispositivi di visione e proiezione. È difficile tuttavia che, senza le ragioni del corpo perverso, il “flâneur d’installations” andrà molto lontano.