Si torna a parlare del Demiurgo nell’arte italiana di oggi: lo fanno esplicitamente Francesco Gennari e Gianni Caravaggio, di cui trattiamo qui, ma questa figura e questo concetto ricorrono, magari implicitamente, anche nel lavoro di altri fra i nostri più promettenti giovani artisti.
Pietro Roccasalva ha dato vita in pochi anni a un lavoro che è un vero sistema di pensiero, articolato come le stazioni di un percorso unico, dove ogni elemento si ricollega al precedente e rimanda al seguente, al futuro. Dentro questo sistema, che l’artista definisce “il cantiere”, la pittura, il quadro, agisce come causa efficiente che “pensa” e crea l’opera, giustamente definita come situazione d’opera. Il quadro, che è artificio per antonomasia, diventa in Roccasalva artefice, e viene esposto accanto a ciò che ha creato, avendolo pensato: la pittura diventa motore agente per le molte altre forme espressive impiegate nelle situazioni d’opera, dalla scultura all’installazione nello spazio, dalle sculture viventi agli strumenti audiovisivi.
La partecipazione del pubblico a queste epifanie è bandita; il pubblico, dichiara l’artista, trova nel “rapimento” l’unica possibilità di partecipazione, essendo, agli occhi di Roccasalva, ogni altra forma assimilabile all’opera d’arte totale, che viene rifiutata in quanto fonte di equivoci.
L’opera è dunque un universo a sé stante e l’artefice-quadro (artista) è il generatore (padre) di questo mondo. I termini di artefice e padre dell’universo sono quelli a cui, fra gli altri, ricorre Platone per definire il Demiurgo (nel Timeo ma anche nelle Leggi e in altri dialoghi), una figura su cui la filosofia ha molto discusso. Il Demiurgo, nella cui etimologia greca è contenuto l’artigiano, il lavoratore pubblico, contiene anche il divino pur non essendo egli stesso un dio: mosso dalla missione di portare il bene nell’universo, il Demiurgo ha anche creato gli dei tutti.
Da molto tempo, in arte, la figura del Demiurgo, e l’identificazione di esso con l’artista, è stata rifiutata, proprio in nome di quella partecipazione del pubblico che oggi Roccasalva vuole bandire di nuovo, a suo modo rovesciando il platonismo: se il filosofo esiliava dalla Polis l’artista in quanto corruttore della verità, il nostro artista emargina i cittadini relegandoli al ruolo di spettatori estatici davanti allo spettacolo dell’arte.
Pensiamo alle stagioni dell’arte processuale nelle diverse incarnazioni da essa vissute, Anti-form, Arte Povera, Comportamento, e i rapporti con la socialità; pensiamo a tutte le strategie di decentramento del soggetto che la cultura del Novecento ha messo in opera.
E d’altra parte queste affermazioni sono vere solo a metà: una voce contraria potrebbe a pieno diritto ricordarci che l’arte contemporanea nasce dai gesti dell’ultimo grande Demiurgo, Marcel Duchamp, il Re Mida che trasforma tutto ciò che tocca in arte, cioè in valore. E noi, pubblico, restiamo a bocca aperta a farci, se mai, scandalizzare.
Dal ready made duchampiano sorge l’unico criterio di attribuzione di valore artistico rimasto incriticato, almeno fino a oggi, quello secondo cui è arte, e assume valore, solo ciò che l’artista decide essere arte. La demiurgia dell’arte, effettivamente, non solo non è mai finita ma, per quanto riguarda noi, è platealmente ricominciata da qui.
Solo non veniva dichiarata come avviene oggi. Se il Demiurgo è il creatore del mondo, o di un mondo, anche Mettere al mondo il mondo (1972-1973) di Alighiero Boetti evocava un gesto demiurgico. Ma a realizzare l’impresa non era tanto l’artista, che da par suo si era sdoppiato in due, ma le molte, le mille mani degli esecutori (la prima versione dell’opera è stata realizzata da un uomo e da una donna, perché è così che si mette al mondo qualcuno) che riempivano di tratti a penna biro la superficie di carta prestabilita. Dietro l’idea, insomma, c’era una moltitudine operativa, una collettività agente, anonima e proprio per questo opposta, come istanza, all’unicità individualizzabile dell’artista.
E allora, con quali caratteristiche emerge oggi questa figura di Demiurgo e come, attraverso di essa, possiamo ricollocare la figura dell’artista?
Francesco Gennari ce ne dà una versione bizzarra, assolutamente personale, che non deve nulla alla filosofia ma che nasce interamente dalla fantasia, la quale non teme, lo dice l’artista stesso, di sconfinare nella megalomania. Il Demiurgo di Gennari, dunque, non è preso in prestito da Platone ma si pone al centro di una personale cosmogonia, un sistema che richiama quasi quello religioso per il fatto di porsi fuori dalla razionalità, almeno da quella classica. Nondimeno, questo Demiurgo svolge la stessa funzione che il filosofo greco ha delineato per la sua creatura: egli esiste per portare nel mondo un nuovo sistema di valori, un nuovo ordine. I nuovi valori però non vanno vagliati dalla coscienza ma se mai sentiti, saggiati, dal pensiero intuitivo. Le opere valgono come segni della potenza creatrice, che presentano il Demiurgo mostrando le sue caratteristiche, e le sue creature.
La presentazione è avvenuta nel corso della più recente personale di Gennari alla Galleria Zero… di Milano, dove l’artista si è autorappresentato come Demiurgo incarnato. L’opera 7 enigmi per il mio loden (2006) è costituita da sei appendiabiti in metallo dorato di diverso formato affissi al muro allineati. A un certo punto, il giorno dell’inaugurazione l’artista è entrato in galleria e ha appeso a uno degli appendiabiti il loden che indossava: così l’opera ha ricevuto il suo compimento, rappresentando il loden il concetto e l’appendiabiti la materia che da esso prende forma (l’artista in loden rappresenta poi il settimo enigma del titolo). Ogni appendiabiti è infatti la matrice di un processo di messa in forma che si attua solo grazie a quell’azione. Ogni volta che l’artista compie quel gesto, l’opera assume compiutezza, altrimenti essa puramente consiste come entità beante, in attesa di formalizzazione. Dopo averlo visto agire quella sera, ho personalmente chiesto all’artista di ripetere l’atto di formalizzazione, ma si è rifiutato. Ogni azione del Demiurgo è perciò definitiva e definitoria e si può effettuare una volta sola.
Nella stessa mostra comparivano altri due ritratti: Autoritratto con (2006) è una fotografia dell’artista visto di spalle con indosso il loden e una bottiglia di gin in mano, mentre Autoritratto tra un quadrato e un triangolo (2006) è una doppia scultura in marmo nero posta a terra e sviluppata in lunghezza, sulla cui superficie era stato versato del gin. Si trattava delle fattezze del Demiurgo in forma umana, effigiato nella fotografia, e sotto forma di spirito, cioè di liquido alcolico, effigiato nella foto dell’artista con bottiglia (che regge se stesso) e presentato nella sua entità liquida atta a penetrare anche nelle superfici più solide e a vaporizzarsi. Si tratta qui di intuizioni poetiche quasi deliranti che danno origine a immagini e a eventi plastici forti, pregnanti, di un fascino indiscutibile. Non sono assimilabili a un sistema filosofico riconoscibile (se mai, abbiamo detto, si avvicinano ai dettami di una religione, un nuovo paganesimo come afferma l’artista) ma ne hanno la coerenza interna, e l’intelligenza.
È poeticamente forte l’immagine di La terra gira le spalle al sole (2007), dove un parallelepipedo di ferro fa da base per una scultura in marmo nera a forma di doppio cono schiacciato. Sull’apice del cono superiore è stato ottenuto un foro anch’esso a forma di cono rovesciato, che dunque entra dentro la struttura. Il Demiurgo dà un significato all’opera ponendo all’imboccatura del foro un tuorlo d’uovo che col passare del giorno è destinato a scivolare lungo la cavità, dentro il corpo dell’oggetto. La parte superiore però resta in vista almeno fino alle fine del giorno, e questa permanenza è cruciale: il tuorlo rappresenta il sole che, nella cosmogonia reinventata dall’artista, viene inghiottito dalla notte per ripresentarsi il giorno dopo, risorto grazie a un altro atto demiurgico.
L’opera del 2006 La degenerazione di Parsifal (Natività) raffigura invece, o simbolizza, un conflitto fra sistemi ordinativi diversi. Dentro un cubo composto da cinque lastre di vetro colorate di rosso e tenute insieme da morsetti, l’artista ha posto della farina e l’ha poi pressata fino a dare al materiale la consistenza e la densità sufficiente perché la forma del cubo vi restasse impressa. Ha poi tolto le lastre liberando il cubo di farina, questa forma/idea impressa nella materia. L’opera consiste nel processo che il cubo di materia organica subirà nel tempo: non più soggetta alle leggi costruttive del Demiurgo, la materia formata dal momento in cui viene rivelata sottostà alle leggi fisiche del mondo, alla forza di gravità, alla tendenza all’entropia, insomma a ciò che regola l’universo reale. Detto in altri termini, la materia si sgretolerà intaccando la perfezione geometrica creata dall’artefice e diventerà progressivamente un cumulo informe… ben sapendo però che questa degradazione verso il caos, il disordine, non è altro che la formazione di un cosmo, di un ordine alternativo. Il titolo dell’opera è anche Natività, giacché nella farina abbandonata a se stessa, ma non inerte in quanto organica, col tempo agiranno forme di vita, nasceranno larve e farfalle…
Insomma, il Demiurgo si confronta con gli universi altri da quelli da lui creati, si relativizza, fino al punto di accettare di vedere sconfitti i valori che ha portato nel mondo, nel sistema che chiamiamo la realtà.
Questa apertura dialettica, questo maneggiare i termini relativi al Demiurgo fuori da istanze assolutistiche, è presente anche in Gianni Caravaggio. Per lui, l’atto demiurgico è insito nell’opera più che nelle intenzioni dell’artista, in quanto l’opera è concepita come disposizione a creare mondi possibili. La relazione forte che si pone con l’opera è poi agita dall’osservatore, che nel caso di Caravaggio è ben lontano dall’essere meramente tematizzato o addirittura fisicamente emarginato dal processo creativo vero e proprio. Lo si vede fin dalle prime opere, quali Giocami e giocami di nuovo (1996), dove è l’azione dell’osservatore, come un Demiurgo per delega, a mettere in funzione l’opera: si tratta qui di cinque piccoli elementi in metallo, fusi a partire da cera d’api, che l’artista ha manipolato fino a dare a ciascuno la forma, sia pure sommaria, dei cinque continenti (fondendo insieme l’Eurasia). Gli elementi vengono ogni volta giocati, cioè gettati come dadi da un contenitore sopra un tappeto ovale tessuto di diverse gradazioni di azzurro. Il formato dell’ovale deriva dal calcolo preciso, riportato nelle esatte proporzioni, dell’orbita disegnata dalla Terra nella sua rotazione intorno al sole. Lo spettatore che getta i dadi ogni volta ricrea il mondo, simbolizzando il gran gioco dell’origine dell’universo e portando la figura del Demiurgo sul piano dei fenomeni. Lo stesso discorso può valere per Che cosa sono le nuvole? (1997), opera composta da una rete appesa a mezz’aria nello spazio e dalle silhouette dei continenti che giacciono nella sua faccia superiore, dove è ospitata anche una piccola palla arancione. Lo spettatore è invitato a lanciare la palla, spingendola da sotto, nelle direzioni che gradisce, come fosse un sole che il Demiurgo sposta a piacimento in questo planisfero reinventato.
In questi lavori emerge un certo spirito ludico e una certa tendenza alla messa in scena, che in Caravaggio si accoppiano a un’attenta considerazione delle teorie scientifiche sull’origine della dimensione spazio-temporale in cui viviamo, come a trovare un substrato o uno sfondo probante per le sue creazioni poetiche.
La maggior parte delle opere dell’artista comunque non comporta questi aspetti performativi, ma esprime una processualità in potenza, sono le opere stesse possibilità di cambiamento, in attesa di un atto scatenante che fa dell’opera il generatore di una trasformazione strutturale. Si tratta in questo caso per lo più di sculture in marmo di piccole dimensioni posate direttamente a terra. Concorrono poi altri materiali, decisamente incongruenti con il linguaggio della scultura ma coerenti con il sistema di senso creato dall’artista. Cosmicomica (2006), per esempio, è un poliedro di marmo nero che reca in corrispondenza degli spigoli piccole cavità, atte ad accogliere ciascuna una lenticchia (un seme, elemento organico che significa la crescita e la generazione). Altre lenticchie sono sparse intorno al poliedro. Se la scultura viene spostata, alcune delle piccole nicchie si rendono inservibili e la lenticchia cade, mentre altre diventano operative. Così la configurazione dell’opera muta a seconda della sua relazione con lo spazio, e questa è almeno in parte delegata alle scelte di chi guarda. In questo senso Caravaggio è esplicito: l’idea è di elevare lo spettatore a Demiurgo e far sì che la struttura dell’opera sia un dispositivo per atti demiurgici. Opera e spettatore si plasmano a vicenda. Opera e spettatore sono gli agenti di un gioco formale che l’artista ha predisposto ma che non può governare completamente; la demiurgia dell’arte in questo caso prevede la posta ai margini del soggetto-artista, diversamente da quanto avviene in Gennari, che sente la necessità di incarnare il Demiurgo e di presentarlo nei suoi stravaganti auto-ritratti.
Una delle opere più recenti di Caravaggio riassume un po’ tutte le caratteristiche fin qui delineate, e si intitola programmaticamente Attendere un mondo nuovo (2006). Un poliedro bianco è conformato come una piramide allungata; stesa a terra, si sporge in avanti e ha decisamente un aspetto instabile. Potrebbe cadere in avanti da un momento all’altro, o rimanere in quella posizione per sempre, ma se cade dà vita a qualcosa di nuovo che vale come un’altra opera, un altro mondo. Sul lato che si sporgerà in avanti toccando terra col vertice, leggermente incavato, l’artista ha steso uno strato di farina e uno di borotalco, praticamente invisibili sul bianco del solido, mentre sopra i tre vertici del piano ha collocato tre lenticchie. Quando e se la catastrofe avverrà, da essa si genererà un nuovo mondo provvisto di proteine, di minerali e di vegetali, elementi atti alla continuazione della vita, nel senso che, anche qui come nella fine di Parsifal, dalla catastrofe nascono nuove possibilità di esistenza, nuovo ordine dal disordine, nuovo cosmo dal caos. Il Demiurgo si identifica integralmente col caso e con le circostanze fenomeniche del luogo dove la possibilità intrinseca può o non può estrinsecarsi. Artificio dove osserviamo le stesse leggi che governano i grandi sistemi, drammaticamente dipendente dal caso, quest’opera nella sua piccola dimensione evoca nient’altro che la catena di eventi che probabilmente ha reso possibile la nostra stessa esistenza.