Se l’impatto della rete e della digitalizzazione della produzione e dei mercati su questa traballante economia di inizio millennio è ormai unanimemente riconosciuto, quando si passa al mercato dell’arte il discorso si fa diverso. Se escludiamo l’effetto della rete sulla globalizzazione del mercato dell’arte e la mediatizzazione di molti processi, il mercato dell’arte sembra fermo agli anni Novanta. Fino a pochi anni fa, molte gallerie non avevano un sito web — e ancora oggi, sono numerose quelle che hanno un pessimo sito web, appiattito sul modello “vetrina” a quasi un decennio dall’avvento del Web 2.0. Il modello della fiera d’arte è stato portato online solo nel 2011 con discutibile successo dalla Vip Art Fair — impressionante se si pensa che Amazon vende libri online dal 1995 e che eBay è stato fondato nello stesso anno. Ancora più impressionante se si pensa che gli altri mercati della cultura sono già da tempo alle prese con la creazione di un modello di business che renda sostenibile la circolazione digitale dei loro prodotti, dagli eBook agli mp3.Questa resistenza è indubbiamente legata, da un lato, alla struttura sociale del mondo dell’arte e, dall’altro, alle peculiarità di un mercato che privilegia la fruizione diretta, e che si fonda su un’economia della scarsità.
Ma ci sono anche ragioni strutturali. Nell’era dell’iPad basterebbe una buona connessione a Internet, inclusa nel pacchetto offerto alle gallerie, per trasformare ogni fiera in una fiera online. Chat e webcam alla mano, i galleristi potrebbero mantenere contatti a distanza, organizzare tour virtuali del loro stand, e offrire ai loro collezionisti un’esperienza del lavoro più soddisfacente di quella consentita dal modello della Vip Art Fair, che si affida a riproduzioni e video di documentazione. Invece, la connessione a Internet rimane, per molte fiere, un servizio extra, a pagamento e poco affidabile. Al primo annuncio della Vip Art Fair, ho pensato che potesse essere l’occasione perfetta per favorire la fruizione di opere da sempre penalizzate dal formato della fiera: video, opere di sound art, lavori digitali, time-based e magari persino “interattivi” potevano finalmente essere fruiti dal visitatore dal comfort del proprio appartamento, e nella propria location ideale. Finalmente possiamo vederci dall’inizio alla fine un lungo video, comodamente seduti in poltrona, e non in una inquietante black box, torturati dal rumore di fondo, dall’aria condizionata e dalle vesciche ai piedi. Illuso. Il video è rimasto uno dei linguaggi meno rappresentati in entrambe le edizioni della fiera; e solo nella seconda i siti web sono stati introdotti da una organizzazione non profit (Rhizome), che ha proposto i lavori online di Rafaël Rozendaal. Lavori che non potevano essere visitati, dato che l’interfaccia della Vip Art Fair non consentiva di pubblicare link verso l’esterno: come un’installazione qualsiasi, erano documentati da una banale jpg. Ho citato i siti di Rozendaal perché credo che la parte più interessante della questione stia proprio qui: nel vedere se e come si sanerà il contrasto tra le arti visive, tra le più aperte alla sperimentazione con i nuovi linguaggi, e il loro mercato di riferimento, il più conservatore tra i mercati della cultura; nel vedere se e come una economia della scarsità riuscirà a conciliarsi con un sistema di distribuzione fondato sulla riproducibilità e il libero accesso; o, per riprendere dei termini cari alla comunità open source, nel vedere se e come un mercato organizzato a cattedrale si sposerà con il bazaar della rete.
L’artista olandese è stato un pioniere anche in questo, mettendo a punto e condividendo, nel 2011, un contratto di vendita per i siti web in grado di conciliare le esigenze della rete con quelle del collezionista. Secondo Rozendaal, il punto di contatto sta nel nome di dominio, “una delle poche rarità della rete. Sono unici, non possono essere falsificati e venduti”. Con questa formula, l’accesso ai siti è pubblico, la loro proprietà esclusiva. Più difficile applicare le regole della scarsità ai file digitali svincolati da un supporto fisico o da una collocazione unica (il nome di dominio). Ci ha provato Harry Blain, già direttore di Haunch of Venison, che sempre nel 2011 ha fondato un sito da cui vende in edizioni limitate a un prezzo accessibile lavori digitali di nomi celebri, fra cui Damien Hirst, Shepard Fairey, Mat Collishaw, Tracey Emin e Bill Viola. S[edition] abbraccia il digitale non tanto come linguaggio autonomo, quanto come strumento che consente di offrire multipli di qualità in edizione limitata, come in passato facevano le stampe: immagini statiche, video e animazioni “derivati” da pezzi celebri. Ogni lavoro è accompagnato da un certificato di autenticità, e la loro circolazione è limitata, come per gli eBook, da un sistema di digital watermarking. L’iniziativa è originale, ma è difficile capire se vada davvero, come proclama, nella direzione della democratizzazione dell’arte o se si limiti a titillare il nostro desiderio per oggetti inarrivabili. Un’animazione del teschio di Damien Hirst scaricabile per iPad per 600 sterline è davvero l’ultima frontiera dell’arte digitale? Con l’iniziativa The Download, Rhizome consente ai membri della sua community di scaricare gratuitamente opere digitali di giovani artisti. L’edizione, se vogliamo usare questo termine, corrisponde al numero dei download, e l’opera non è accompagnata da alcun certificato di autenticità (un limite che potrebbe essere facilmente sanato); tuttavia, grazie a The Download si può dare vita a una collezione di lavori originali (non surrogati di altre opere), spesso interessanti, non vincolati a una sola piattaforma, che possono essere donati e condivisi. The Download rifiuta la filosofia della scarsità come sistema di controllo del mercato e della circolazione dei lavori, e sposa invece la filosofia della libera circolazione delle informazioni e dell’abbondanza come strategia di conservazione. Qualora poi volessimo sostenere economicamente il lavoro degli artisti, cominciano a essere messe in campo iniziative come Artmicropatronage, “uno spazio espositivo online che consente di vedere e sostenere arte che si può esperire in maniera ideale attraverso la rete”. Il sito ospita mostre curate e consente al visitatore di “investire” somme più o meno grandi su opere specifiche, con un range che va da 50 centesimi a 20 dollari. In termini economici, per ora il mercatino dei multipli digitali di s[edition] sembra staccare di netto questa filantropica iniziativa di mecenatismo disinteressato, ma potrebbe rivelarsi, prima o poi, un interessante apripista verso una nuova economia dell’arte. Dall’eccesso all’accesso: sarebbe un bel colpo da maestro, per il teschio di Hirst.