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Cinematica

15 Luglio 2015, 1:53 pm CET

Shame di Andrea Bellavita

di Andrea Bellavita 15 Luglio 2015

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Gli artisti che fanno cinema (pensiamo solo agli sciagurati esempi di Julian Schnabel, Miranda July o Piero Golia) sono una iattura seconda soltanto a quella dei registi che decidono di dedicarsi all’arte. Fare cinema non significa soltanto produrre oggetti audiovisivi di una certa durata, sperimentare con l’immagine e il movimento o delocalizzare il proprio paradigma estetico o interpretativo in altri luoghi, spazi e momenti. Ecco perché oggetti volanti non identificati come Philippe Parreno, Piotr Uklański, Apichatpong Weerasethakul, Matthew Barney rimangono straordinariamente sospesi fra i due mondi, e incantano (o turbano, alternativamente) dai due lati dello specchio. Fare cinema significa accettare di confrontarsi con un linguaggio, un dispositivo, una struttura narrativa, un rapporto con lo spettatore, spesso con un circuito di distribuzione. Cioè giocare un altro sport. Anche all’epoca dell’ibridazione e della rilocazione, della fruizione liquida di ogni contenuto su ogni supporto e in qualsiasi condizione, rimangono sport diversi. E difficilmente un campione di triathlon sarà un grande corridore, o nuotatore, o ciclista. Steve McQueen, con Hunger, era riuscito in questa impresa titanica: fare cinema innestando e innervando una struttura classica basata sulla regolarità narrativa e di messa in scena con una sostanza stupefacente che gli veniva dalla sensibilità ed esperienza di artista visivo. Hunger è stato il kubrickiano lattepiù del cinema contemporaneo. Questo perché mostra uno straordinario rispetto per l’oggetto cinema, e insieme riesce a drogarlo con la capacità dell’esperienza artistica di generare evento dalla frattura delle regole di causa/effetto (le pitture materiche con le feci di Bobby Sands sui muri della cella), dalla contemplazione estetico/estatica (il lunghissimo dialogo in piano sequenza e camera fissa tra Bobby Sands e il confessore) e dalla trasformazione della materia (la martirizzazione alla Mantegna del corpo di Bobby Sands). Con Shame questo incanto si è spezzato. Forse non del tutto, perché McQueen continua a esercitare dietro la macchina da presa la sua stupefacente capacità di congelare il tempo e il reale nell’inquadratura fissa e nel punto di vista: l’esibizione canora di Carey Mullligan che interpreta New York New York, l’appuntamento tra il protagonista Brandon e la sua collega, o una singola, perfetta inquadratura di un amplesso ripreso da lontano, attraverso una vetrata. Perché McQueen è in grado di costruire uno spazio fisico in scena che diventa spazio mentale, labirinto claustrofobico percorso dalla ripetizione dei gesti meccanici (l’appartamento di Brandon, la macchina da presa posizionata di fronte a un angolo, la scansione camera, bagno, cucina), nel quale lo spettatore può perdersi, senza riuscire a trovare punti di riferimento con i quali orientarsi.

Steve McQueen, Shame, 2011.
Steve McQueen, Shame, 2011.

E poi perché McQueen ha Michael Fassbender, la cosa umana più vicina ad una materia prima vergine che un regista sia riuscito a inventare negli ultimi dieci anni. Però in Shame manca quel rispetto, e quella calda osservanza del cinema che faceva di Hunger un capolavoro. Dà le vertigini il saliscendi e la schizofrenia tra esibizione narcisistica di bell’immagine (e background sonoro: no, vi prego, le Variazioni Golberg di Bach eseguite da Glenn Gould per raccontare la metropoli, no…) e necessità di spiegare, spiegare tutto, e soffocare il racconto e il personaggio nel nesso di causalità. Brandon è ossessionato dal sesso, è un pornomane compulsivo, sostanzialmente anaffettivo. E questo è molto chiaro, fin troppo: da una parte c’è l’ossessione del regista (speculare a quella del personaggio) di esibire tutte le forme possibili di anti-erotizzazione dell’atto sessuale, in cui Fassbender diventa corpo meccanico, livido, bianco, levigato. Dall’altra c’è l’ansia di trovare motivazioni a priori (l’incesto latente, addirittura il fantasma del conflitto sociale in Irlanda…) e conseguenze a posteriori (la discesa agli inferi, l’omosessualità repressa che sfocia nel sesso rubato modello dark room, l’orgia compulsiva, il suicidio tentato). In mezzo, fuori dalla bellezza delle immagini, dei corpi, e dalla perfezione (gelida) della ripresa, non c’è magia, non c’è sorpresa, non c’è incanto. Ma soltanto tecnica. E dire che anche in un film programmaticamente anti-erotico (e per questo per nulla scandaloso) come questo c’è almeno una scena di erotismo davvero incandescente: quella dell’incontro tra Brandon e la sconosciuta in metropolitana, proprio all’inizio. I due (e noi finalmente, accompagnati per mano dal regista) si guardano, si sfidano, si eccitano, e arrivano anche a sfiorarsi. Lei distoglie lo sguardo, e immagina: dietro il suo viso e i suoi occhi sfuggenti, dietro le sue labbra che si increspano, sotto i suoi vestiti, ci sono tutti i pensieri di ciò che lei vorrebbe fare con lui. Lei immagina come e quanto il loro sesso potrà essere caldo, coinvolgente, sfrenato e perverso. Nella sua mente i loro corpi si toccano, si incollano, si profanano, si mordono e si stringono. Cioè tutto quello che vedremo, dopo, nel corso nel film, con altri corpi e altri ritmi. Ma nella sua mente, in questo preciso momento, che dura poche fermate di metropolitana, il sesso torna a essere erotico e non meccanico. Di questo noi, naturalmente, non vediamo niente. Perché è il mistero. Del cinema e dell’arte.

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