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Vado a vivere in Italia

15 Luglio 2015, 1:43 pm CET

Marìa Rosa Jijòn di Alessandro Galletta

di Alessandro Galletta 15 Luglio 2015
María Rosa Jijón, Il Popolo dell’Acqua, 2003.Stampa lambda su carta, 50 x 66 cm.

 

María Rosa Jijón, Il Popolo dell’Acqua, 2003.Stampa lambda su carta, 50 x 66 cm.
María Rosa Jijón, Il Popolo dell’Acqua, 2003.Stampa lambda su carta, 50 x 66 cm.

La casa che non è in nessun posto è la vera casa.
Lao Tze
Alessandra Galletta: La Biennale era tra i tuoi obiettivi quando sei arrivata in Italia?

María Rosa Jijón: Era un sogno, e quando il curatore del Padiglione Latino-Americano Alfons Hug è venuto nel mio studio a Roma, ero già felice così. Quando mi ha scelto per la Biennale, ho sperato che il mio video Paradosso Manta-Manaos, girato nell’Amazzonia ecuadoriana, potesse aiutare a far luce sul megaprogetto che prevede la costruzione di un asse fluviale e stradale tra Manta, in Ecuador, e Manaus, in Brasile, davvero in tema con il Padiglione.

AG: Conflitti, contraddizioni, perdita della Storia e dei valori sembrano i temi al centro della tua ricerca, come artista e come mediatore culturale.

MRJ: Il mio lavoro racconta cosa si prova quando si è stranieri. Quando non c’è appartenenza si è più fragili ma anche più forti. È questa la contraddizione che mi interessa narrare.

AG: Come nel work in progress Rojo.

MRJ: Ho iniziato ironizzando sulla frase “Fratelli d’Italia”, dove i veri fratelli sono soltanto gli italiani, gli altri sono solo cugini, o lontani parenti! Mi è piaciuto virare immagini di immigrazione al rosso, come i vecchi manifesti politici degli anni Settanta, un omaggio al manifesto di protesta.

AG: Gli italiani sono così razzisti?

MRJ: No, è più una questione legale. Nelle relazioni sociali non ti senti straniero, e inserirsi in Italia è molto facile. Diventi straniero quando non hai gli stessi diritti degli altri, quando non puoi andare dove vuoi e lavorare per chi vuoi, quando le leggi ti impediscono di vivere e anche di morire determinando il tuo futuro e quello dei tuoi figli. A diciotto anni diventi un clandestino e allora devi vivere a metà solo per una legge che ti esclude.

AG: Infatti le seconde generazioni sono il soggetto di alcuni tuoi video come Forte e Chiaro o G2.

MRJ: Certo, a tutti piace il cibo italiano ma non è questa l’integrazione e nemmeno parlare l’italiano. L’integrazione è la società che deve capire che ti deve includere, anche se le leggi te lo impediscono.

AG: Lo racconti nel video It’s Just a Game, dove game in inglese è sia “gioco” che “preda”.

MRJ: Ho montato le immagini notturne fatte a infrarossi per rintracciare i corpi caldi alle frontiere, e si vede anche l’obiettivo perché sono nel mirino come prede. Ho messo la musica del videogame di Supermario Bros — che poi hanno usato veramente a Guantanamo — e senti che la caccia all’immigrato è un gioco serio.

AG: Qui hai usato immagini dal web, ma la tua produzione video è fatta per lo più di interviste raccolte da te, quasi un lavoro da regista e autore.

MRJ: Per me il video è uno strumento che agevola la narrazione, è un atto politico. Ma chi è che narra? La mia ossessione è chi è che racconta l’altro; questo fa la differenza tra la videoarte, il videogiornalismo, il videomaker. Tutti possono usare uno strumento narrativo. Il problema non è “dar voce” all’altro, ma alzare il volume di questa voce: ecco perché è uno strumento politico.

AG: Quindi è necessaria la collaborazione delle persone da intervistare?

MRJ: Quando guardo negli occhi una persona immigrata, quando mi concede il suo tempo, la sua storia, sento che il mio video racconta una verità. L’immigrazione non è una massa informe, è fatta di persone con sentimenti, famiglie, culture, vissuti.

AG: Una ricerca anche al femminile?

MRJ: Le donne sono sempre presenti nel mio lavoro, penso a Kika, a La Casa, a Tres Mujeres. Non sono femminista e non mi interessa l’arte “al femminile”, credo però che il mondo più dolce, più sincero, sia quello delle donne. Quando parliamo tra noi, emerge un’emozione vera e mi sento del tutto a mio agio. Le donne non sono una categoria di un’altra qualità.

AG: Anche quello della casa è un tema presente; per esorcizzare la nostalgia?

MRJ: Ogni volta che ritorno dall’Ecuador ho il cuore a pezzi, e chissà come tutti i pezzi stanno ancora insieme! Allora, per non perdere la mia casa, la catturo in immagini che diventano video, nostalgie esorcizzate. Anche se impari un’altra lingua e fai carriera, non sarai mai italiana. Però quando sono a casa mia mi dicono che parlo e gesticolo come un’italiana: non appartengo più a nessun posto e dunque penso di essere qui per fare un lavoro di resistenza!

AG: Credi davvero che l’arte possa intervenire sul mondo reale?

MRJ: L’arte oggi non è solo produzione è anche fornire elementi per agevolare processi di trasformazione sociale. Mi piace l’arte con la qualità di uno sguardo trasversale, richiamare l’attenzione su temi che non potresti ottenere in un altro modo. L’arte deve avere pure un’estetica di qualità e indagare lo stupore, trovare il poetico, l’innamoramento, sennò non è arte. Non bisogna però creare false aspettative: non puoi cambiare la realtà, puoi solo leggere il mondo da persona libera Noi artisti abbiamo uno sguardo interessante e poetico da raccontare, e credo che basti.

AG: Dove ti vedi nel futuro?

MRJ: Io ho imparato moltissimo qui, ma adesso sento che sta arrivando il momento di restituire qualcosa, per questo io e mio marito Francesco pensiamo a una Fondazione che metta a confronto artisti visivi e pensiero politico. È un sogno, ma si può restituire qualcosa proprio attraverso un nuovo spazio di ricerca e di produzione.

AG: Dove?

MRJ: Non lo sappiamo ancora. Forse in America Latina, anche se la nostra anima sarà sempre nomade.

Alessandra Galletta è critica d’arte e autrice televisiva. Vive e lavora a Milano.

María Rosa Jijón è nata nel 1968 in Ecuador. Vive e lavora a Roma.

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