Esiste una linea “manieristica” o “neo-manieristica” nella critica d’arte italiana degli anni Sessanta che rimanda in larga parte (ma non esclusivamente) a Luciano Pistoi, Carla Lonzi, Giulio Paolini e Luciano Fabro; all’attività della Galleria Notizie e all’interesse per un’arte sì di ricerca ma non sprovvista di salde radici in una specifica eredità culturale, forte di rigore e insieme curiosa di infrazione, tenuta in sottile equilibrio tra norma e sprezzatura sull’esempio di Lucio Fontana (e, certo, anche di un americano “italianizzante” come Twombly).[i] È a questa linea, pressoché dispersa e vanificata sul finire degli anni Sessanta dall’americanismo di Sperone e Celant, che occorrerebbe in primo luogo riportare determinate riflessioni contenute nell’Ideologia del traditore[ii] e in una fitta serie di articoli e interventi apparsi su Flash Art a cavallo tra Settanta e Ottanta[iii]: se lo facessimo, sarebbe semplice riconoscere nel testo di Bonito Oliva un trattato di arti visive che si situa entro una tradizione stilistica e metaforica almeno in parte già tracciata. Se non che, qui, nell’Ideologia del traditore appunto, una propensione post- o anti-storica al “veleno” si sostituisce all’attitudine di coltivata fedeltà ai Maestri; e le retoriche del “cinismo” o del “narcisismo” alle ragioni della limpida verifica sperimentale. In altre parole: il “manierista”, con Bonito Oliva, sale sul palco cacciandone il “manierismo”. Al primato della forma subentra il primato dell’ego autoriale – una differenza sostanziale.
Esistono, per Bonito Oliva, due diversi tipi di traditore. Il primo tradisce per furore di fedeltà: il “tradimento”, nel suo caso, conferisce maggiore cogenza e rispettabilità alla norma. È il caso di Pontormo, Bronzino, Rosso Fiorentino e quanti Bonito Oliva stesso indica come esempi di manierismo antico, post-rinascimentale. Il secondo invece abbandona, consegna e svende, diserta. La “strategia” citazionistica, nel suo caso, non implica rispetto, omaggio, appartenenza, che anzi rifiuta; né disperata devozione.[iv] È per semplice diletto (o per “cura del corpo”[v]) che il secondo tipo di traditore si volge alla storia dell’arte. Vi si aggira come per un trovarobato teatrale. Cerca abiti d’epoca sempre nuovi da indossare e costumi di scena per suoi episodici exploit. Vale qui la pena segnalare un paradosso, se non un’incongruenza teorica tout court. Se infatti la retorica transavanguardistica si nutre volentieri di adornamenti patriottici,[vi] il senso ultimo del “tradimento” è da cercare invece nel rifiuto (post-storico, disidentitario e anti-nazionale insieme) di un qualsiasi senso di appartenenza o vincolo o “eredità” o “Storia” che discenda da un’eredità culturale condivisa.[vii]
È in larga parte al secondo tipo di “traditore” – americanizzante, per così dire, per via di folklore peninsulare e relativo spaccio – che occorre guardare nel considerare la Transavanguardia quale è descritta – e soprattutto prescritta – da Bonito Oliva: un “traditore” che usa il quadro, cui si è tornati a cavallo tra Settanta e Ottanta, come pretesto autoevolutivo, pettegolezzo mitografico e gioco promozionale.[viii] Questo il punto: alla data della collaborazione con Flash Art, la Transavanguardia è (diventata) un (nuovo) internazionalismo, sia pure (e che importa?) a carattere neofigurativo, “etnico” o “pittoresco”.[ix] Mediata dalla retorica del “nomadismo”, l’ideologia del mercato interrompe qui un rapporto che sussisteva da lungo tempo, nell’arte italiana di tradizione modernista, tra processo creativo e “nazione culturale” (le origini di questo rapporto ci riportano indietro, sino almeno al Risorgimento); rimuove il vincolo della responsabilità civile; e avvia l’artista sulla strada (direbbe Umberto Eco) del “superomismo di massa”. (Dissonanze interne alla Transavanguardia – penso all’inquietudine crescente di un artista a suo modo “identitario” come Enzo Cucchi – datano ai primi anni Ottanta e si spiegano alla luce di una simile congiuntura, “strategia” di internazionalizzazione o frangente.)
Malgrado pochi anni separino l’uno dagli altri, un profondo iato storico-politico, ideologico e artistico-culturale divide L’ideologia del traditore, apparso nel 1976, dai testi pubblicati su Flash Art che qui scelgo di considerare. Se il movimento studentesco del 1977 sembra segnare al tempo l’eclissi definitiva, sul piano della rappresentanza, dei tradizionali partiti di sinistra, il rapimento e assassinio di Aldo Moro precipitano la crisi di assetti politico-istituzionali consolidatisi negli anni del dopoguerra e della Guerra Fredda, senza che al tempo stesso se ne intravedano di nuovi. Non è questa la sede per una digressione storico-politica: tuttavia vale la pena segnalare che niente di tutto questo è presupposto dal libro, né, per semplici ragioni di cronologia, potrebbe esserlo. Lo è invece dagli articoli pubblicati a distanza di qualche anno, che s’incaricano di adattare a un nuovo quadro (artistico, sociale, politico) tesi formulate in precedenza con riferimento a un contesto di tutt’altro tipo.
Precisiamo meglio. Nel 1976, per Bonito Oliva e non solo, l’arte italiana è nella condizione del primo traditore, il più illustre e disinteressato: il “traditore” di tradizione rinascimentale. Si autoalimenta in condizioni di isolamento (pensiamo a Vettor Pisani), innalza vessilli scudocrociati (ancora Pisani), proclama la propria identità cattolica e latina (De Dominicis e Pisani). Si muove in cerchio per ebbrezza di impasse. Vive di citazione. I riferimenti artistici contemporanei dell’Ideologia del traditore, accuratamente nascosti al lettore, sono appunto De Dominicis e ancor più Pisani – artista, quest’ultimo, in auge nella Roma di inizio anni Settanta perché capace di sospingere verso impreviste dimensioni performative e teatrali il partito preso classico o classicistico di Giulio Paolini. Nel 1976, il ritorno alla pittura è di là da venire: parliamo infatti di artisti che fanno performance e installazioni. Tutto cambia invece a distanza di poco tempo; e, tra il 1979 e il 1981, per Bonito Oliva, l’arte italiana è ormai matura per interpretare la parte del traditore di secondo tipo: l’“opportunista”.[x]
Mutiamo fronte, volgiamoci alla teoria. L’importanza di Edoardo Sanguineti critico per la genesi dell’Ideologia del traditore emerge in maniera indubitabile da pochi semplici confronti, come pure la divergenza delle posizioni. Sanguinetiane appaiono, in Bonito Oliva, le concezioni relative all’“esaurimento dell’avanguardia” (esposte in Ideologia e linguaggio, saggio sanguinetiano del 1965 [Feltrinelli, Milano]) e le retoriche neo-folkloriche che Bonito Oliva dispiegherà appena in seguito, sulla scorta di convinzioni (sue e prima ancora dell’autore di Laborintus [Magenta, Varese, 1956]) circa il primato “antropologico” delle tradizioni artistiche meridionali. Ma il punto di vista di Bonito Oliva è ludico e affermativo, deproblematico, tale da dissolvere ogni opposizione e, in definitiva, tragicità. Blandita nella sua differenza dal progetto epico-politico, l’arte diviene culto e insieme parodia della maschera e del “simulacro”, restauro dell’istituzione, semplice Ersatz. Se, tra Cinquanta e Sessanta, la neoavanguardia aveva prodotto una severa critica sociologica dell’innovazione culturale nel contesto neocapitalistico, ecco allora che il “manierista” di Bonito Oliva (o meglio: il “neo-manierista” di cui scrive nel 1981 su Flash Art[xi]) assume mercato artistico e “cattiva coscienza” come proprio destino. L’ideologia del traditore agisce una formidabile “volontà di potenza” già solo con l’appropriarsi voluttuoso e perifrastico di studi e ricerche recenti, riportando le fonti solo episodicamente; e ancor più con l’omettere di fare riferimento agli artisti cui guarda nel proposito di istituirsi come origine di se stesso. È “debolismo”, post-strutturalismo, post-modernismo tutto questo? Non pare proprio. Qui il “manierismo” – dunque il post-moderno – è già inteso neoliberisticamente, e dunque da Destra, come un’apologia della merce, non (da Sinistra) come politica della differenza: malgrado si affermi il contrario.[xii] Non a caso riconduce a una restaurazione del principio di autorità (curatoriale).[xiii]
Nel 1959, su Appia antica, Emilio Villa aveva profetizzato “l’imminente ormai l’eclisse e la sparizione dell’arte contemporanea in quanto tecnica, spontaneità e linguaggio e natura dell’anima”[xiv]: eccessi di produzione, fortune estrinseche o contingenti, conformismi e dilettantismi di vario genere ne avrebbero in breve tempo “distrutto la validità come coerenza, ragione, mistero, segretezza e verità stessa”. Questo, concludeva, era il nuovo “manierismo”. Sulle pagine di Flash Art, in “New York New Work” Bonito Oliva ci spiega che la “[nuova] condizione antropologica determina un comportamento che non riconosce alternative, che ha perso speranza nel futuro, giocato sulla possibilità di un recupero di tutta la storia e di tutta la storia dell’arte fuori da qualsiasi feticismo archeologico”. La sua posizione è la stessa di Villa, solo mutata di segno. Se Villa invitava i pochi artisti “veri” a “sottrarsi dalla baraonda, a rientrare nell’eremo della propria oscura e serena vitalità”, Bonito Oliva suggerisce invece di aderire sempre più strettamente alla “tribù”; di ricondurre saviamente le inquietudini pro-rivoluzione al limite “immobile” e “impotente” dello stile; di lasciare da parte “attardati esercizi accademici di performances e videotape, arte ambientale e azioni effimere”; e di concedere infine nuovo credito ai “luoghi sicuri”, cioè alle “gallerie d’arte private e non [alle istituzioni] genericamente pubbliche o municipali”.[xv] È questa l’“ideologia del traditore”, privatistica, estetizzante, neoermetica, ostile a (e non semplicemente critica di) una qualsiasi dimensione che sia autenticamente pubblica: ideologia agita dal fortunato libello, non semplicemente esposta o illustrata.