Luca Panaro: Dalla metà degli anni Settanta costruisci nel tuo studio edifici di dimensioni da tavolo, fatti di materiali semplici e forme essenziali, per poi trasformarli in realtà mediante l’ausilio del mezzo fotografico. Sei stato un pioniere di questa tecnica, anticipando il lavoro di Thomas Demand, Oliver Boberg, Edwin Zwakman e tanti altri che hanno intrapreso anni dopo un analogo percorso. Dove nasce l’idea della “scultura fotografica”?
James Casebere: Le radici del mio lavoro erano più legate alla scultura, all’Arte Concettuale, alla performance e alle installazioni degli anni Sessanta e Settanta — al lavoro degli artisti che usavano la fotografia per documentare le loro tracce, azioni, interventi ed eventi piuttosto che alla fotografia come disciplina distinta. Volevo eliminare l’impatto iniziale con l’evento o la performance e costruire uno scenario esclusivamente pensato per la fotografia. Inoltre, volevo che la fotografia diventasse qualcosa di più della semplice documentazione, essendo responsabile di ogni parte costitutiva — dei materiali, del punto di vista, della luce ecc. Dal momento che la mia esperienza dell’arte avveniva soprattutto attraverso la riproduzione, ero interessato al modo in cui le immagini fotografiche trasformano quell’arte “originale”, che sia pittura o scultura, e modificano la sua forma e il suo contenuto. Mi interessavano le pratiche fotografiche che permettono di disseminare immagini per un vasto pubblico — “l’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”.
LP: Hanno influito molto nella tua opera gli anni di formazione al Minneapolis College con lo scultore Siah Armajani?
JC: Siah ha esercitato una grande influenza su di me. Tra le altre cose, mi ha aiutato a pensare l’arte come qualcosa di utilitaristico che ha una sua funzione, proprio come la bellezza. Ci ha incoraggiati a riflettere sul Costruttivismo russo, sulla sua natura interdisciplinare e la sua integrazione nella vita quotidiana.
LP: E quanto ha inciso invece la passione per la fotografia?
JC: Non mi sono mai interessato alla fotografia come disciplina a sé stante. Nonostante ciò, devo dire che il Bauhaus, il Costruttivismo, De Stijl e l’uso della fotografia nel Surrealismo erano tutta un’altra cosa. La fotografia americana del dopoguerra era, invece, una pratica usurata che aveva perso il suo appeal e la sua rilevanza politica.
LP: Perché hai scelto proprio questo mezzo per “congelare” il tuo percorso di ricerca?
JC: Ero ancora interessato alla scultura e ho continuato a lavorarci fino al 1991 circa. Nonostante questo, la fotografia mi ha permesso di fondere i miei interessi per il cinema, la scultura, la pittura, l’architettura e il design in un’immagine finale che li contiene tutti. E che poteva circolare facilmente.
LP: Ritieni sia cambiata la percezione delle immagini fotografiche dopo l’introduzione delle tecnologie digitali?
JC: Sì, penso che sia cambiata completamente. Non credo che noi ci aspettiamo la verità dalle immagini, come accadeva un tempo. Credo che la fotografia come documento sia diventata una piccola sottocategoria e le immagini del reale sono sempre più rare. Penso che questo sia vero dal momento che noi cerchiamo sempre più di identificarci e di attaccarci a quei momenti fuggevoli che vivono attraverso la fotografia di quell’attimo. Le cose che comunicano il momento transitorio, come la luce cha cambia durante il giorno, il tempo o il susseguirsi delle stagioni sono progressivamente diventate ciò che noi identifichiamo come “fotografico”.
LP: L’architettura è il punto di partenza di ogni tuo progetto. Prima le case di periferia, poi gli edifici istituzionali, le carceri, il bunker sotto il palazzo del Reichstag… Con quale criterio scegli i soggetti che rappresenti?
JC: Ogni corpus di lavori è differente. Quando ho cominciato a fare foto ero interessato al modo in cui il mondo è costruito dagli altri per noi attraverso la fotografia — come potrebbe essere usata per condizionare le nostre opinioni, ciò che conosciamo del mondo e come questo possa essere arbitrario e manipolato. Volevo farlo decodificando la semiotica dell’architettura. Con il passare del tempo, ho seguito la storia di determinate costruzioni per comprendere il presente e per indagare quanto le nostre prospettive siano culturalmente e storicamente determinate, piuttosto che essere semplici fatti di natura che noi diamo per scontati.
LP: Ti sei ispirato direttamente anche alle opere di alcuni architetti come Victor Horta e Richard Neutra…
JC: È vero. Amo i lavori di entrambi ma ho voluto pensare a loro anche in rapporto alla globalizzazione (Neutra) e al colonialismo (Horta).
LP: Perché hai introdotto l’immagine a colori?
JC: Ho cominciato a usare il colore quando ho fotografato le prigioni. Più l’immagine si confrontava con la privazione sensoriale, più avverivo che avevo bisogno di includere una maggiore seduzione sensoriale.
LP: Hai lavorato recentemente anche in Italia, interessandoti ai canali sotterranei di Bologna. Dove nasce questo tuo interesse ricorrente per l’acqua?
JC: Amo Bologna e quando ci sono andato un paio di anni fa ho avuto la possibilità di visitare alcuni canali sotterranei che scorrono attraverso la città risalenti all’epoca romana. Ho usato l’acqua in vari modi nel corso degli ultimi dieci anni. Inizialmente sono stato ispirato dalle fognature di Berlino e dalle foto dei tunnel allagati sotto il Reichstag. Da un punto di vista simbolico suggerivano ogni genere di possibilità: il passato che si cerca di dimenticare, l’inconscio politico, il lutto, la perdita della memoria e il passaggio del tempo. Ma forse ancor più significativamente potevano riferirsi all’opposto della privazione sensoriale — immersione e abbondanza invece di separazione e mancanza. Mi piace l’opaca mancanza di chiarezza e l’idea nascosta non ancora venuta alla luce, il senso dell’essere nell’oscurità, in mezzo a un labirinto senza via di uscita, il senso di smarrimento e di abbandono a uno stato privo di controllo. Penso che i tunnel siano un po’ come io vedo Bologna: resistente a ogni comprensione e difficile da penetrare. È una città nascosta dietro muri e arcate, impossibile da afferrare nella sua totalità o da distinguere nelle sue diverse parti. Ma, oltre questa apparenza, una volta che ci si lascia andare, si scopre una città ricca e profonda.
LP: Dalla finzione alla realtà le tue immagini indagano la mitologia dei luoghi e i sistemi dominanti del nostro tempo. Quali aree geografiche intendi esplorare nei prossimi anni?
JC: Per adesso mi trovo molto vicino a casa e sto lavorando sulle immagini delle aree urbane e suburbane americane costruendo enormi prototipi di lottizzazioni e paesaggi ai margini della città. È il ritorno a un luogo e a un soggetto che avevo cominciato trent’anni fa.