Ilaria Bombelli: Il primo lavoro tuo che ho visto è stato Denkmal 2 (2004), a Manifesta 5, nel cantiere navale Ondartxo di San Sebastian: l’avevo trovato anonimo, neutro, impersonale. Mi aveva colpito di più la nave-relitto abbandonata e la verde cornice naturale della baia di Pasajes…
Jan De Cock: Quando ho visto il mio primo Brancusi non sono stato in grado di capirlo. Ho dovuto vedere più opere di Brancusi per riconoscere l’esistenza di un linguaggio, e più lo studiavo più lo capivo. Quando sei venuta a San Sebastian hai visto il lavoro di un artista che ha il suo linguaggio, faccio la stessa cosa da 15 anni. Faccio sculture. Tu pensi che siano anonime, neutre e impersonali: bene, vedo queste come tre qualità del mio lavoro. Perché c’è una grande differenza tra me e tutti gli altri artisti: io non lavoro con le idee ma con qualcosa di concreto, che non necessita di alcuna spiegazione.
IB: So che hai scelto tu di lavorare alla Pasajes San Pedro e che non è stato facile ottenere l’autorizzazione dal sindaco di San Sebastian…
JDC: Non voglio fare un lavoro che posso realizzare anche nel mio studio o in qualsiasi altro white space del mondo, e questo è stato un po’ il problema di Manifesta. Se fai una mostra deve esserci una necessità, un bisogno, così ho tirato fuori la moto dal mio furgone e perlustrando le montagne ho visto la baia e uno strano edificio. Non era possibile raggiungerlo né con la moto né con l’auto. Il luogo, il paesaggio, la scala dell’edificio mi hanno fatto dire: “ok, facciamo qualcosa qui”. Ho portato il mio studio alla Pasajes, che per tre mesi è diventata il mio atelier.
IB: Nel 1999 hai presentato The Industry of Human Happiness come esame finale all’Accademia presso il Belvedere, in cima alla torre della Universiteitsbibliotheek di Gent progettata da Henry Van de Velde. Nello stesso spazio sei intervenuto nuovamente nel 2004 con Denkmal 9. Perché hai deciso di ritornarvi?
JDC: Quando ero molto giovane ho avuto il fegato di lavorare all’interno di un luogo così complicato, di un architetto così importante, senza però riuscire a trovare il giusto equilibrio tra l’opera e l’edificio, senza comprendere lo spazio, cosa che sono riuscito a fare solo 5 o 6 anni dopo. Se metti un’opera d’arte qui [prende un bicchiere e lo posiziona sul muretto di fronte a noi], questa ha bisogno di sopravvivere allo spazio. Non avevo capito, in quel momento, che se vuoi costruire un monumento all’interno di un altro monumento non dev’esserci competizione.
IB: Cosa intendi per competizione?
JDC: Quando parli di competizione parli di dimensione. Ti faccio un esempio: quando hanno chiesto a Jeff Koons un’opera per il Guggenheim di Bilbao, la cui architettura è la protagonista assoluta, lui ha realizzato uno dei suoi Puppy, ma alto 12 metri, fuori, di fronte al museo. Ha ingrandito la sua opera per adattarla alla dimensione del museo. Non è questo il modo in cui lavoro io. Completamente diverso. Io non “allargo” le mie opere, lavoro su una scala enorme, che è diverso dal fare opere enormi. Se lavori rapportandoti alla scala, come Barnett Newman, l’opera riguarda l’esperienza. Questo è un esempio di competizione: grande Puppy contro grande museo. C’è poi un’altra cosa da dire. Van de Velde avrebbe voluto riempire di opere d’arte la Universiteitsbibliotheek una volta finita ma questo non fu poi possibile a causa di problemi finanziari. Così, nel 2004, ho pensato che sarebbe stato interessante lavorare su questa idea di opera dissimulata. Come puoi mettere in una stanza un’opera di 85 tonnellate di legno senza farla notare? In Denkmal 9 l’intera stanza era ricolma di opere ma avevi comunque la sensazione che fosse una biblioteca. Un lavoro molto discreto. Questo è ciò che intendo quando dico che non c’è competizione: la scala è tale che il lavoro svanisce, come sono svanite le opere di Van de Velde… Tanti, a San Sebastian, si appoggiavano alla parete di Denkmal e mi chiedevano: “Allora, dov’è il tuo lavoro?”. Perché non riuscivi più a vederlo.
IB: Dal 1999 al 2003 i tuoi lavori si intitolano tutti Randschade (Collateral Damage). Il termine — danno collaterale — entra in uso ai tempi della guerra in Vietnam da parte di militari americani per indicare un danno la cui caratteristica essenziale è la non intenzionalità. Il tuo “danno” è intenzionale?
JDC: L’arte ha sempre a che fare col denaro. La conseguenza del mio modo di lavorare è che, commercialmente parlando, la mia opera non esiste solo in quanto tale, e in questo senso, non volendo scendere a compromessi con il sistema dell’arte capitalistico, innesco una sorta di danno collaterale, facendo in modo che diventi l’opera stessa. Lavorare in un museo significa permettere alle persone di vedere le stesse cose in modo diverso. E anche in questo caso provochi un danno collaterale. Perché se non metti in discussione il museo non puoi fare una buona mostra.
IB: È in Randschade fig. 7 (2002) al Gent Museum of Fine Arts che usi per la prima volta il termine “Denkmal (Monument)” per etichettare le diverse sezioni dell’installazione, e a partire da Denkmal 10, al De Appel di Amsterdam, lo sostituisci a “Randschade”, facendolo seguire da un numero che corrisponde a quello civico della location specifica.
JDC: La serie di “Randschade” era finita e ho iniziato qualcosa di nuovo. Ma nel lavoro di un artista niente è mai nuovo: stavo già lavorando a Denkmal prima di realizzare Denkmal.
IB: Lo hai definito un “modulo che è trasportabile altrove”, ma ricorda una struttura prelevata dal linguaggio architettonico, “senza capo né coda” (fondamenta e tetto)…
JDC: Io faccio sculture non architetture, significa che non ho regole, che posso creare qualsiasi tipo di struttura. Le sole regole che uso sono quelle che formulo per me stesso e per le persone con cui lavoro.
IB: È vero che Denkmal fa riferimento all’affermazione di Adolf Loos secondo cui le uniche due architetture che appartengono all’arte, perché prive di scopo, sono il monumento e il cenotafio?
JDC: Sì, ma c’è anche un secondo significato. In fiammingo “Denkmal” è formato da due parole: “denk”, che significa “pensare”, e “mal”, che significa “modulo”. Perciò, quello che faccio è creare moduli per pensare, perché se lavori in modo anonimo, neutro e impersonale, questo modulo diventa una forma astratta di pensiero.
IB: Loos era un estimatore dell’inarrivabile grandezza dell’antichità classica. Qual è il tuo rapporto con la classicità? So che il tuo museo preferito è il Museo di Pergamo a Berlino.
JDC: Il Modernismo, che considero il periodo più importante e ancora vigente, per me inizia col romanismo. Il classicismo è già Modernismo, l’età classica ancora governa. Il Museo di Pergamo dovette essere ricostruito diverse volte per ospitare gli antichi edifici nella loro scala reale — come l’Altare di Pergamo o la Porta del Mercato di Mileto. E questo è il mio sogno, il mio modo di lavorare: far sì che l’opera, che sia un tempio o un dipinto, “costruisca” il museo. Per Denkmal 4 ho lavorato un anno e mezzo con Daniel [Buren], Francesca e Massimo [Minini] per cercare il modo migliore di creare un museo attorno alla periferia di Milano, con una mostra a Brescia, una a Milano e una alla Casa del Fascio di Como.
IB: Proprio alla Casa del Fascio Denkmal 4 diventa un “monumento al quadrato”…
JDC: Ho sempre ammirato Giuseppe Terragni, in quanto architetto razionalista usava il quadrato e il rettangolo in un modo simile al mio. E se pensi al periodo storico in cui l’edificio fu costruito ti rendi conto che il problema allora era la trasparenza, cioè rendere la Casa del Fascio così trasparente da poter essere vista da tutti, perché il partito fascista doveva dare, attraverso questo simbolo, un messaggio alle persone: stiamo-lavorando-per-voi. Ma niente era trasparente, tutto il contrario. Così ho voluto lavorare su questa idea di trasparenza in relazione all’edificio e sulla trasparenza come elemento in contrasto col mio lavoro, che è invece molto raccolto, Denkmal è come una conchiglia…
IB: Alla Casa del Fascio Terragni propose una sorta di lettura “filmica” del paesaggio: le finestre non percepiscono passivamente il panorama, la piazza e il Duomo antistante, ma lo interpretano scomponendolo in settori e calibrandone i pesi.
JDC: Sì, ma il problema è che oggi l’edificio è ancora di proprietà dello Stato, è la sede della Guardia di Finanza, e pertanto normalmente non puoi accedere alla lettura filmica di cui parli. E questo è lo stesso problema che ha anche il mio lavoro, in cui non puoi entrare ma solo girarci attorno. Ho cercato quindi di fare in modo che l’esperienza filmica diventasse quella tra l’opera e l’edificio, e il pubblico un soggetto attivo nel modo di percepire entrambi.
IB: Nel 2004 Dan Graham ha presentato proprio sul sagrato della Casa del Fascio il padiglione Half Square/Half Crazy. In quell’occasione aveva dichiarato: “Vedere un edificio di Terragni è vedere un livello di astrazione superiore a quello di Sol LeWitt”.
JDC: Dan Graham è un artista che usa lo specchio, riflette l’ambiente, mentre io preferisco decostruire l’ambiente, non riflettere ma rompere le cose e cambiare il punto di vista. Per Dan Graham l’astrazione è l’edificio, mentre io “aggiungo” un’astrazione all’edificio.
IB: In Denkmal 4 l’intervento di Buren consisteva proprio nell’inserimento di specchi…
JDC: Il lavoro era ancora chiuso, gli specchi aprivano un poco la conchiglia, rompevano la superficie ma non assorbivano totalmente l’ambiente perché c’erano delle strisce verticali, quelle tipiche di Buren, che suddividevano il contesto. Non c’era pura riflessione.
IB: Capita che una tua opera, pur occupando una stanza interna dell’edificio si ripeta o si sviluppi all’esterno, o che tramite i light boxes “dialoghi” con altri tuoi lavori installati, contemporaneamente o in un passato recente, in altri luoghi. Avvolge il suo contrario, il suo “fuori scena”…
JDC: Devi vederlo più come una sorta di “montaggio”, non come in un film perché in quel caso lo spazio è solo al di là dello schermo, mentre con un’opera composta da altre opere fai un montaggio reale di spazio e di tempo. Ti permette di avere una diversa esperienza dello spazio in cui ti trovi, e puoi davvero dire di trovarti off screen.
IB: Questo tentativo di produrre una consapevolezza del contesto in cui è esposta l’arte richiama l’outil visuel di Daniel Buren, il suo “principio di confrontazione” o le sue Cabanes, “architetture leggere” costruite per demoltiplicazione di un modulo. Sei d’accordo con lui quando dice che “il museo camuffa più di quanto mostri”?
JDC: Sì, completamente. Perché un buon lavoro deve arrivare dalle persone, dal loro modo di percepire le cose.
IB: Condividi con Buren anche il fatto di lavorare in situ/ex situ?
JDC: Non è esatto. Io lavoro ex situ, mentre Buren lavora in situ: il suo studio è il luogo in cui si trova, mentre io, anche qui a Milano, lavoro nel mio atelier, perché ogni volta sposto il mio studio nel luogo in cui devo lavorare. Io e Buren abbiamo molte cose in comune, ma pur ponendoci quesiti simili, le nostre soluzioni sono molto diverse e la mostra a Como, Milano e Brescia parlava proprio di queste differenze.
IB: Hai dichiarato: “L’immagine cambia ogni passo che fai”. Me lo spieghi?
JDC: Ogni volta che cambi il tuo punto di vista muovendoti attorno a una scultura questa ti restituisce immagini sempre diverse di sé. Lo esemplifica perfettamente Forme uniche nella continuità dello spazio (1913) di Umberto Boccioni. Se vedi un film hai un unico punto di vista, in questo caso invece ti muovi attorno allo schermo.
IB: Di nuovo fai riferimento al cinema. Sembri avere una certa confidenza con il linguaggio cinematografico…
JDC: Mio nonno è stato il primo ad avere una cinepresa in Belgio. Il cinema è l’ambiente in cui sono cresciuto, so cosa pensa la videocamera e so come vede. Direi che chi mi ha lasciato il segno più profondo in assoluto è stato Jean-Luc Godard, da lui ho imparato molto per il mio lavoro. La mia opera ideale è un film di Godard e la mia sfida è quella di fare sculture come Godard faceva i suoi film.
IB: Hai pubblicato tre libri autoprodotti che raccolgono immagini dei tuoi lavori e di opere di artisti che ti hanno influenzato. Per quale motivo fai queste raccolte?
JDC: Penso sia importante che un artista mostri le sue fonti, per fare il punto su ciò che per lui è importante e ciò che non lo è. Queste “enciclopedie” mi permettono di fare un tipo di montaggio diverso da quello che faccio con la scultura. L’enciclopedia stessa è un’opera, è uno spazio museale in cui creare un nuovo ambiente. Devi mostrare le tue fonti, come Piero della Francesca, o Giotto, il primo che ha dipinto all’interno delle chiese racchiudendo le figure in ambienti cubici. Giotto è Donald Judd avant la lettre, no?
IB: Hai nominato diverse volte il tuo atelier. Prima di incontrarti ho conosciuto, per caso, i componenti dell’Atelier Jan De Cock. In quell’occasione Mathieu mi aveva detto che il vostro è come l’atelier di Rubens…
JDC: Devi crearti un sistema in cui sopravvivere prima come essere umano che come artista. E se riesci a crearti una famiglia con cui lavorare allora molte cose diventano possibili.