La forma della lettera K, che l’artista Jannis Kounellis ha disegnato nello spazio della Galleria Nazionale – Palazzo Arnone di Cosenza facendone, appoggio per un repertorio di materiali e immagini a lui (e grazie a lui anche a noi) consueto e noto, ci trasporta in uno spazio e in un tempo ampio. La lettera K evoca ai nostri sensi un suono geograficamente enorme, udito in giro in tutto il mondo. Un suono pungente e aspro ma anche ampio e generoso. Un suono che investe i nostri sensi e i nostri corpi come un vento freddo che ci entra dentro con i suoi fantasmi nordici fino a congelarci e dal quale non troviamo mai riparo, ma ci parla anche del sud da cui tutti veniamo, quel sud egiziano, poi persiano e infine greco, che ha trasformato i disegni e i suoni in lettere e parole. Forse non è casuale che la lettera iniziale del suo cognome corrisponda a quel valore fonetico che ho cercato di evocare; anche in lui, nel suo lavoro, si combinano e compongono questi due indirizzi geografici, questi due spiriti troppo spesso contrapposti in atmosfere inconciliabili. L’uomo e l’opera Kounellis sono proprio il risultato di questo incontro. Egli assume la forma di un tifone, conseguenza dell’incontro tra aria fredda e calda, e come un tifone scompagina tutto quello che incontra sul suo cammino: la nostra idea ordinata di successione storica, il nostro senso delle proporzioni e dell’orientamento spaziale, la nostra esperienza del raccontare e dell’udire storie; infine, il nostro gusto forgiato sulla pratica della contemporaneità e dell’anonimato.
Sono proprio questi ultimi due i termini, i valori direi, che lui tinge di nero mostrandoceli tristi, luttuosi, falliti, e, forse, non più necessari ai riti espositivi dei cultori dell’avanguardia.
Attraverso l’incisione, il raschio, della forma K nello spazio del museo sembra che egli voglia urlarci: “Eccomi! Sono qua ed ora”. Afferma un senso dell’attualità e del tempo presente che poco ha da spartire con la dimensione della contemporaneità, e molto invece con il protagonismo di una persona vivente che vuole sottolineare ogni attimo che scorre come qualcosa di prezioso, e lo fa esponendo il suo nome, la sua iniziale così evocativa, la sua biografia di immagini e persona.
Lo spazio espositivo che egli, in questa come in altre mostre, disegna, non ha nulla di quello spazio astratto e indistinto nel quale il pubblico che frequenta le mostre d’arte contemporanea ama specchiarsi; il nitore del bianco — specchio dell’anima, di un’anima luminosa e felice, che assolve tutti i mali del mondo attraverso la ragione e la comprensione ideale.
L’opera di Jannis Kounellis non è mai anonima, mai impersonale. In lui l’indistinto non ha spazio, ma ciò non significa che egli si esprima “soggettivamente” o addirittura arbitrariamente, fuori dal linguaggio. In lui, il generale, l’informe astratto su cui tutte le teorie e pratiche artistiche dette postmoderne si fondano, riprende il nome originale di Popolo, e non di un popolo-massa (come lo chiamavano i teorici di Francoforte) ma di un popolo-persone. Miliardi di persone con il loro nome e cognome, con le loro iniziali variopinte, le loro voci gioiose, con il loro carico di problemi; ognuna di esse, singolarmente, chiamata a salire a bordo di quella nave a forma di K poggiata (per adesso) su cavalletti metallici e pronta a salpare, attualmente ancorata dentro la Galleria Nazionale di Cosenza. Questo Popolo ha le sue icone, i suoi santi, e l’artista le issa usandole come vele, esso stesso vi soffia dentro per far navigare lo scafo, dal suo fiato esse prendono forma e potenza motrice.
Quei quadri di Mattia Preti che Kounellis dispone e ingloba nella sua opera portano il segno di quel vento, arrivando, grazie a questa spinta, fino a noi e oltre. Davanti (o durante) quest’opera — veicolo spaziale e temporale — è ancora più evidente che la distinzione tra arte antica e contemporanea è del tutto fasulla e prende invece evidenza formale, corpo fisico, la frase ormai consueta che dice: tutta l’arte è contemporanea perché essa è tutta visibile a noi contemporaneamente, in questo luogo e in questo tempo, adesso, nello stesso momento in cui noi parliamo, guardiamo, ci muoviamo. Mentre noi facciamo tutto questo, l’opera d’arte si trasforma sotto i nostri sguardi, i nostri punti di vista differenti, le nostre parole. In un deposito di senso che muta di continuo, Kounellis ha messo in scena questo mutamento; l’opera di Cosenza è un deposito mobile dell’arte (di tutta l’arte) spinto a forza da un Popolo che per un attimo si riconosce in questo gesto rendendolo legittimo, giusto e bello.
In questo senso Kounellis non è un artista d’avanguardia (cioè contemporaneo) bensì un artista popolare. Le sue opere sono ballate solitarie come quelle di Matteo Salvatore o come quelle di Bob Dylan e Tom Waits; oppure corali, come i Tenores di Bitti o i gruppi Gospel che cantano nelle chiese di periferia. Un’arte autenticamente popolare non è un’arte anonima. Anonima è la spinta che ci conduce a creare una forma, non ha nome quel vento ottenuto dal respiro di moltitudini di persone che l’hanno soffiato, quindi anonima può essere solo l’azione, non il suo attore che, al contrario può avere uno o più nomi, tutti egualmente riconoscibili. La voce del cantante popolare è invece singolare, proprio perché con la sua sensibilità e la sua conoscenza sente che quella massa infinita di nomi che hanno concorso alla creazione di un motivo arcaico la chiama alla responsabilità di doverne continuare la personalità nascosta, arricchendola di nuove prospettive e sensibilità attraverso una scommessa intima e autografa. Kounellis fa questo a Cosenza, autografa lo spazio del museo depositandovi la sua sigla, arrischia la sua iniziale facendone un’architettura abitabile tra cui, su cui, sarebbe bello dormire. Il suo atto autografo non vuole urlarci con violenza: “Questo è mio!”. Non è un gesto d’appropriazione ma una firma in fondo a una lettera privata, una sorta di comunicazione amorosa che dice: “Io sono con te grazie a te e con te vorrei dormire”. La manifestazione di un desiderio fisico di stendersi al fianco dello spazio cittadino e insieme ad esso trovare riposo nella forma perfetta di una mostra.
Infine, l’opera di Kounellis a Cosenza è da interpretare come una presa rapida, una confidenza immediata con le cose della città che la città dovrebbe sapere e volere valorizzare. Queste cose sono innanzitutto gli spazi numerosi che Cosenza potrebbe offrire all’arte, aprendosi ad essa come fa l’amante. Un posto dove la K, di cui abbiamo scritto, possa essere una sigla fra le altre e non il sigillo imperiale che (credo contro la volontà e la poetica di Kounellis) rappresenta la solitudine di un atto senza repliche.