Suggestioni astratte e memorie minimaliste avvolgono l’osservatore che varca la soglia della Galleria Christian Stein, dove otto sono i lavori esposti dell’artista inglese Jason Martin.
Lo sguardo è subito travolto da We Walk e We Walk there (2023), due dipinti di oltre cinque metri quadrati ciascuno, realizzati a olio su strutture di alluminio. La materia pittorica abita la superficie con vitale aderenza e la trasforma in palcoscenico di ancestrale gestualità. Lamine argentate, tortuosi blu e vibranti verdi, profondità violacee e lacerazioni di luce: è una pittura che protrude verso l’occhio dello spettatore invadendone lo spazio visivo.
In effetti la pratica pittorica di Martin non si è mai accontentata della statica bidimensionalità: fin dagli esordi, sul finire degli anni Novanta, fra le fila degli Young British Artists, l’artista ha ricercato una metamorfosi del linguaggio pittorico, animando la superficie con gesti performativi che generano forme quasi scultoree. Nelle sue opere il gesto creativo e la materia sono protagonisti di una lotta vitale. In bilico fra resistenza alla fisica e casualità, fra rigore ed energia, fra tensioni gravitazionali e percorsi spiraliformi, la materia ribolle eroicamente con il gesto dell’artista che tenta di governarla. Questi dipoli si confrontano senza sosta fino all’ultimo attimo/atto: l’epilogo non sancisce sconfitte o vittorie, ma concede spazio allo stupore ossia all’opportunità per la pittura di non essere solo pittura. Cos’altro allora? “Nei miei lavori – scrive Martin – la trasparenza, bilanciata e misurata, viene essenzialmente consumata dalla saturazione dello spinel black, unico pigmento nero trasparente.”
È questo il punto: così come al nero è permesso di essere trasparente, ugualmente alla pittura è consentito essere performance e altorilievo, quasi scultura. A ben vedere, però, la potenzialità della ricerca di Martin non si consuma nella sola contaminazione fra generi.
L’opportunità che queste opere sperimentano è svelata dal titolo della mostra milanese, “Reminiscence”. Richiamando alle mente miti platonici, tali reminiscenze alludono all’esistenza di una memoria del mondo che preesiste alla materia. Remoti desideri ed esperienze vissute in vite passate, luoghi immaginari o forse inabitati, incontri sfumati ed emozioni future, tenebre dimenticate e albe acerbe si avvicendano tra loro incessanti sulla superfice e disegnano intrecci narrativi. Sono soprattutto i moti della mente e del sentimento che generano la trasmutazione della materia, la quale si riversa tanto nella disarticolata profondità del monocromo proteso nello spazio, che si ritrova in What She Said e Almost Midnight, entrambe del 2021; quanto fra le onde increspate di colore in Eterno, Flip Turn River e in Down We Go, realizzate nel 2023.
Ulteriori reminiscenze, di natura storico-artistica, sono evocate da Sergio Risaliti nel testo che accompagna queste opere, tramite un sapiente e condivisibile rimando alla tradizione romantica del paesaggio e alle pennellate dense della pittura ottocentesca. Aleggia l’ombra di Tuner, Constable, Courbet ma al contempo mi sembra inevitabile ripensare anche a quella passione viscerale e alla fiducia immaginifica che Jean Dubuffet riconosceva nella materia, descritta in Note per i fini letterati: “Sospingere a forza la mente fuori dei tracciati nei quali abitualmente si svolge, e introdurla in un mondo ove cessano i meccanismi delle abitudini, ove le trame delle abitudini si infrangono, ed in modo che tutto appaia carico di nuovi significati, formicolante d’echi, di risonanze, di armonie”.