Questa intervista della critica d’arte francese Catherine Francblin è comparsa per la prima volta su Flash Art International n.130 (Ottobre – Novembre 1986).
Catherine Francblin: Sei uno dei pensatori francesi più citati dai protagonisti della scena artistica contemporanea. I critici usano i tuoi testi per commentare il lavoro degli artisti e gli artisti citano i tuoi testi per elogiare il proprio lavoro. Cosa ne pensi?
Jean Baudrillard: Mi piace, naturalmente. Considerato il mio rapporto ambiguo con l’Università, sono contento che il mio lavoro operi in altre aree. Ho notato che a Berlino, e anche in Australia, le figure più autorevoli nel campo delle arti plastiche o della performance si sono impossessati dei miei libri, spesso nella maniera meno ortodossa. Ma a dire la verità, non li ho mai incontrati. Quando stavo a New York frequentavo le gallerie, ma non mi è quasi mai capitato di parlare con un artista.
CF: La nuova generazione di artisti geometrici-astratti emersa negli Stati Uniti all’inizio degli anni Ottanta è molto in sintonia con la tua linea di pensiero. Peter Halley, che è anche uno scrittore, ha detto: “Leggere Baudrillard per me è come guardare un dipinto di Andy Warhol”.
JB: Ah, Warhol! Anche per me ha significato molto. L’ho citato quando mi sono interessato alla Pop Art e all’ Iperrealismo. Quello che mi piaceva di Warhol era il suo approccio alla serialità, la sua ironia, la volontà di abolire l’arte. Penso sia stata una delle rare persone capace in quegli anni di rendere l’idea della “macchina”. Con un’eleganza tutta sua e con grande rigore, ha disegnato un campo da gioco per un’anarchia logica, cosa abbastanza ammirevole. Alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta mi sono avvicinato anche ai Velvet Underground. Ma l’unico mio lavoro che tratta esplicitamente d’arte è un testo sul gesto e sulla firma, contenuto in Critica dell’Economia Politica del Segno.
CF: Mi sembra che tu non ti riferisca mai ad artisti specifici.
JB: È vero, non ho mai scelto un canone “religioso” per l’arte. Ho preso quello che capitava. Tuttavia, dopo la Pop Art e l’Iperrealismo, mi è sembrato che non ci fosse molto altro da dire, almeno per quanto riguarda il discorso del “simulacro”, che dopotutto resta piuttosto vecchio per me. Dopo di ciò, ho trovato a malapena idee sulla logica storia della forma e dell’immagine. Questo quasi mise in subbuglio tutto quanto, anche se ogni sorta di variazione, manierismo e posizione estrema doveva ancora arrivare.
CF: I cosiddetti “Neo Geos”, come vengono chiamati i geometrici a New York, non credono più che Warhol rappresenti una sorta di purezza o di verità nell’arte. Usano un’astrazione di citazioni.
JB: Parlando in generale, trovo che il gioco delle citazioni sia noioso. Posso capire che il Postmodernismo, l’intertestualità, ecc. possano provocare una vertigine, ma a mio avviso siamo ancora lontani dal suo definirsi come una pietra miliare, e di per sé non è mai un obiettivo! Penso che l’infinita incubazione, il gioco delle citazioni di secondo e terzo grado, sia una forma patologica della fine dell’arte, una forma sentimentale. Credo che sarebbe più interessante cercare qualcosa oltre il punto della scomparsa: una iper-simulazione, una sorta di scomparsa oltre la scomparsa. Questo è quello che ho cercato di ipotizzare con il termine “fatale”. Se solo l’arte potesse compiere l’atto magico della propria scomparsa! Invece continua a far credere che stia scomparendo anche se se n’è già andata. Forse oggi l’arte si sta dibattendo nell’ombra della minaccia del fenomeno delle “nuove immagini”, proprio come ha fatto la pittura nei confronti della fotografia. Dall’altro lato, sull’orizzonte della simulazione, ero interessato a qualcos’altro — la seduzione. Non penso che la seduzione venga messa in discussione nell’arte di oggi. L’arte infatti sembra non avere assolutamente niente da mettere in discussione.
CF: Dopo aver adottato la trasparenza come criterio — sto pensando all’Arte dimostrativa degli anni Settanta — oggi l’arte sembra confessi al contrario un rifiuto alla comprensione. Un pittore francese come Gérard Garouste, che era un artista concettuale, oggi dichiara: “Non siamo qui per capire”.
JB: Il segreto della seduzione, tuttavia, non risiede nella riproduzione di una specie di opacità da trompe l’oeil! Il nascondere le cose, il travestirsi, non ha niente a che fare con la simulazione! Quello di cui abbiamo bisogno è un nuovo insieme di regole di gioco. Nonostante io venga definito un postmodernista, ritengo che le idee più importanti dei nostri tempi, in arte, filosofia, politica, appartengano ai primi venti o trent’anni del secolo. Negli anni Sessanta e Settanta si è fatto un passo avanti, specialmente nell’ambito della teoria — che ha comportato il diffondersi delle scoperte dell’inizio del secolo. Ma il Postmodernismo, se così vogliamo chiamare il periodo che è venuto dopo, non mi sembra si sia rivelato all’altezza di quello che lo ha preceduto. Sul piano immaginativo l’età che stiamo vivendo mi sembra la più povera di tutte, e la gente subaffitta i rimasugli delle idee forti di inizio secolo. Forse la cultura è obbligata a sottoporsi a un processo di gestione dei rifiuti? Ad ogni modo, questo è quello che sta succedendo ora. Prosperano intelligenza e acutezza, ma mancano idee forti.
CF: Nel sistema di segnali che circolano da te descritto, la morte è molto presente.
JB: Ho cercato di farne un punto alla base di un gioco indefinito. Un’altra cosa che cercavo di dire era che dalla stessa scomparsa può derivare una grande energia. Prendi Nietzsche, poteva ancora scrivere una genealogia di morali e trovare nella morte di Dio una visione mitica oltre questa morte. Per noi, Dio non è morto; è scomparso, ecco tutto. La questione della scomparsa spesso è molto complessa, ed è stata un punto forte negli anni Sessanta e Settanta quando, al di là della consapevolezza della scomparsa, le persone prendevano tutta l’energia che potevano. Siamo stati testimoni della scomparsa di un gran numero di concetti, di forma, di miti antichi. Ora non dobbiamo nemmeno portare il lutto; l’unica cosa che resta è uno stato di malinconia. Questo apice della scomparsa è stato studiato tra Nietzsche e gli anni Venti e Trenta. Gente come Canetti e Benjamin hanno vissuto sia l’apice della cultura sia l’apice del suo declino. Oggi vediamo il risultato di questo processo di declino e tutti si chiedono come poterne trarre un dramma. Personalmente, l’unica ripercussione che ho trovato è l’America. Tramite una sorta di dislocamento sono riuscito a visualizzare il fenomeno della scomparsa della cultura in una versione più grandiosa, intensa e spettacolare. Un po’ come aveva notato de Tocqueville, che in Francia fu testimone della scomparsa dei valori aristocratici e dell’innesto di una rivoluzione-restaurazione che per metà fallì. Ritenne comunque che dall’altra parte, in America, dove questi valori non erano mai esistiti, almeno erano scomparsi fin dall’inizio, e questo fatto poteva forse produrre risultati più impressionanti rispetto a quelli che aveva visto in Francia. Come dato di fatto, attraverso un trasferimento, l’America mi ha dato la possibilità di carpire la perdita dei nostri valori borghesi e della nostra cultura. Qui la loro scomparsa è stato un evento abbastanza eccezionale. Un desiderio spontaneo e generale esiste, come se ci fosse ancora una qualche cultura, valori comuni, ecc. Questo è facile da osservare in politica: un’intera classe politica, come se esistesse ancora un’ideologia politica. Può questo tipo di cultura, questo trompe l’oeil, essere mantenuto ancora per molto? La rigenerazione dei valori sentimentali e affettivi, anche in politica con i Diritti dell’Uomo, con SOS su questo e su quello, può avere dei fondamenti reali? A mio avviso, questo non è altro che un tipo di solidarietà completamente formale, volta a produrre l’illusione di un legame sociale, della partecipazione di tutti per giungere allo stesso obiettivo. Anche il comico francese e critico sociale Coluche ha partecipato a questo sforzo. Ma è impossibile negare che dietro a tutto questo non ci sia molto. Quindi forse l’unica alternativa è quella di negoziare la propria indifferenza come fa l’arte, come l’arte sta negoziando la sua scomparsa da circa mezzo secolo. Le persone, gli artisti non stanno solo morendo nel loro angolino; stanno facendo della loro scomparsa un oggetto di scambio.
CF: Parli di indifferenza per i valori culturali. Una mostra come quella viennese al Centre Pompidou non è un segno di non-indifferenza, il segno di un interesse, addirittura di una passione per il passato?
JB: Se lo è, è una passione postuma! Questa passione per il passato secondo me ha a che fare con la redenzione piuttosto che con la predestinazione. Il passato non è fatale, non ci obbliga a fare niente. Questa drammatizzazione spirituale della nostra memoria va di pari passo con la nuova tecnologia che può solo essere utilizzata per archiviare materiale, cancellando la memoria. I “ricordi” sono quelli che funzionano meglio ai nostri giorni! Ma i computer non producono una nuova visione del mondo; il sistema è solo una vasta macchina che permette lo sviluppo della compilazione. Indifferenza: è una parola ambigua. Per noi ha un’accezione negativa. Tuttavia, quando la usavano gli stoici, era dinamica. L’indifferenza verso la natura ha prodotto una sorta di sfida verso il mondo. Non vivevano l’indifferenza come un encefalogramma piatto, ma piuttosto come una condizione tragica a cui bisogna rispondere con un’indifferenza altrettanto grande. Qualsiasi genere di cosa può accadere attorno alla categoria dell’indifferenza; la seduzione, ad esempio, perché il gioco della seduzione include sempre un momento di interazione con il desiderio. Di solito parlo di desiderio in modo ironico. Per me l’indifferenza implica che “qualcosa venga coinvolto”. Penso che dovremmo fare dell’indifferenza un punto, una strategia: drammatizzarla. Perché non considerare l’indifferenza come la “porzione dannata”? Ad ogni modo, non credo che possiamo cercare nel passato i valori perduti. Il Postmodernismo registra la situazione presente, la perdita di significato e di desiderio, l’aspetto da mosaico delle cose, ma non fa della decadenza un evento grandioso. Per far questo, bisognerebbe essere dei mediatori, magari nella scrittura: un oggetto che sarà provocatorio proprio nella sua indifferenza.
CF: Nel contesto artistico attuale, l’obiettivo è spesso quello di creare dei modulatori d’ambiente. Quando si lascia il senso alle spalle, l’arte tende a volte verso il decorativo.
JB: Vale la pena cercare il significato della struttura? Per la drammatizzazione di cosa? Chi saranno i nuovi sceneggiatori e i nuovi attori? Tutti sembrano dire: “Sto allestendo un nuovo palcoscenico, ma in questo spazio, con questa luce, nessuno oserà nemmeno muoversi, non ci sarà nessuno spettacolo. Questo è piuttosto il modo in cui vedo l’ambiente di Buren al Palais Royal: una scenografia all’interno di un’altra scenografia. Questo mi sembra sempre far parte dell’estetica delle rovine. Gli attori sono scomparsi; solo le quinte e parte della scenografia restano!