Giancarlo Politi: Tante delle tue opere escono dalla fonderia che non riesco a immaginarti a lavorare nel tuo studio.
Jeff Koons: Lo studio non è un luogo di produzione, è un rifugio, un posto dove riposarsi dalle fatiche del mondo esterno, un luogo di contemplazione.
GP: Parli sempre di oggetti e mai di sculture, perché?
JK: Mi vedo come un artista e non come uno scultore. I miei lavori operano in uno spazio tridimensionale, forse perché è più concreto dello spazio illusionistico bidimensionale. Tale ambito definisce una realtà: nel sistema in cui sono cresciuto, il sistema capitalista occidentale, gli oggetti sono premi per la propria fatica e i propri successi. Tutto ciò che sacrifichiamo nella nostra esistenza — mete personali, fantasie — nello sforzo di ottenere tali oggetti, lo sacrifichiamo sull’altare di una determinata situazione lavorativa. Nel momento in cui l’accumulazione di questi oggetti è avvenuta, essi fungono da meccanismi di sostegno per l’individuo: per definire la propria personalità, per realizzare i desideri e riuscire a esprimerli.
GP: Cosa significa il tuo lavoro per te?
JK: In passato cercavo di definire degli stati che possono essere raggiunti dall’individuo, ma in tempi recenti il mio interesse si è rivolto a condizioni sociali lontane da quelle che potrei realizzare nell’arco della mia vita. Sia a livello personale che sociale, le mie mete sono consapevolmente irraggiungibili — in questo momento la biologia, la psicologia e l’economia parlano contro la loro realizzazione. Ultimamente le opere hanno assunto una dimensione di alienazione dell’io corporeo. Nella serie “The New” volevo rappresentare uno stato psicologico dell’individuo legato alla novità e all’immortalità: la figura complessiva, la Gestalt, proveniva da una visione di un oggetto inanimato — un aspirapolvere — posto in una condizione di immortalità. Le opere ora, le fusioni in particolare, rispettano l’integrità dell’oggetto al punto da far scomparire qualsiasi traccia d’intervento manuale da parte mia. Nulla può alterare la fiducia riposta dall’osservatore nell’oggetto, o la sua percezione psicologica. Un aumento o una diminuzione delle sue imperfezioni influirebbe in senso negativo sulla sua capacità di convincere nell’arena della sua esibizione.
GP: Che piacere ricavi dai tuoi oggetti?
JK: L’unico piacere che ne ricavo è quello puramente intellettuale di vedere l’oggetto realizzato. A quel punto diventa un sistema di sostegno e di garanzia per l’individuo.
Helena Kontova: Ma come può un oggetto fornire un sistema di sostegno per l’individuo?
JK: Il primo passo riguarda la conservazione della sua credibilità e della sua psicologia specifica. Per raggiungere questo obiettivo sto lavorando con materiali particolari; inoltre, cerco di catturare il desiderio individuale per l’oggetto, di fissare le aspirazioni dell’individuo sulla superficie, in una condizione di immortalità. In questo modo scompare gradualmente la fragilità fisica, psicologica e intellettuale dell’osservatore, che è in grado di determinarsi con totale sicurezza in se stesso.
GP: Le tue opere nascono da una ricerca di mercato o da una mera intuizione?
JK: Esse trattano la manipolazione dei desideri dell’individuo e il modo in cui sono diretti a oggetti particolari, ma fanno anche affidamento sul sé biologico, intuitivo. In questo senso, il mio lavoro è diverso, ad esempio, dall’Arte Concettuale: ha più un carattere “ideale” che concettuale. L’Arte Concettuale ha sempre creato dei meccanismi di conferma per coprire qualsiasi strappo all’interno della sua struttura. Le mie opere non ammettono che sorga nemmeno il bisogno dell’inganno. Se c’è una crepa, fa parte del sistema.
GP: Credi che l’arte abbia una dimensione sociale?
JK: Sì, e credo che sia il suo unico modo valido di esistere. Se così non fosse diventerebbe autocompiacimento, come il sesso senza l’amore. L’arte può determinare mete e aspirazioni dell’individuo quanto altri sistemi, quello economico ad esempio, li determinano ora, e può determinare condizioni basilari d’esistenza in modo più responsabile dell’economia. Questo perché è in rapporto sia con la filosofia che con il mercato.
GP: Pensi di essere ancora all’interno dell’ambito artistico o di averlo superato?
JK: Spero che le mie opere mostrino nuove possibilità artistiche, ma allo stesso tempo cerco di guardare indietro, di vedere quali attributi dell’arte abbiano avuto effetti psicologici e di lavorare con tali attributi per determinare un nuovo ambito in cui l’individuo avrà totale fiducia nella sua condizione per merito degli oggetti di cui si circonda. Oggetti che non dovranno essere contemplati, ma esisteranno solo come meccanismi produttivi di sicurezza. Prevedo la formazione di una società in cui ogni cittadino sarà di sangue blu; l’individuo al suo interno vivrà uno stato di entropia, di riposo, e abiterà un ambiente decorato con arte oggettuale al di là di qualsiasi dialogo critico.
HK: Ciò significa che lavori per il presente o per il futuro?
JK: La trasformazione che preconizzo non può avvenire in una sola notte, ma le opere vanno già in quella direzione. Ad esempio Louis XIV concerne la fiducia che il principio monastico può sviluppare. L’acciaio inossidabile allude al lusso proletario, una componente essenziale di qualsiasi sistema politico di sostegno. E la luce che si riflette sull’acciaio dà un senso di intimità e passività, lo stesso tipo di intimità e passività che si avverte in una piazza con una fontana o una scultura.
HK: In chi l’opera dovrebbe produrre questa specie d’indolenza?
JK: Tutti i membri della società ne trarranno vantaggio. Nelle classi media e bassa condurrà a una condizione di riposo, mentre nelle classi più elevate significherà una situazione di sicurezza mai avvertita in precedenza.
Gregorio Magnani: Cosa intendi con “lusso proletario”?
JK: Nell’opera creo una situazione in cui colui che appartiene alle classi più basse può sentirsi economicamente sicuro grazie a una contraffazione. Oggetti lucidi e levigati sono stati spesso esibiti dalla chiesa o dalle classi più ricche per mettere in mostra una sicurezza materiale o una condizione di elevazione spirituale. L’acciaio inossidabile è un riflesso simulato, falso, di quella rappresentazione.
GP: Ci sono rapporti tra le tue opere e quelle del passato?
JK: Sono stato profondamente influenzato dalle opere di Duchamp, che sono state liberatorie per me nel loro spingersi nell’arena sociale. Il mio lavoro ha rapporti con il passato nella misura in cui ne fa un uso psicologico, nel raccogliere ad esempio i tratti positivi che alcuni artisti hanno attribuito alle loro opere, come ad esempio il senso di entropia o di equilibrio presente in certe sculture.
Giacinto Di Pietrantonio: Molti in questo momento parlano della componente di desiderio presente negli oggetti: conosci i termini di questa discussione filosofica? E vedi un rapporto tra queste posizioni e le tue? Mi riferisco in particolare a Jean Baudrillard.
JK: Baudrillard prevede un’epoca in cui l’arte sarà del tutto priva di funzione, mero termine di scambio economico. Per me il ruolo dell’arte è invece puramente funzionale, la vedo andare verso una cancellazione del suo valore di scambio, unicamente come mezzo di sostegno e di sicurezza. Da questo punto di vista, le mie opere hanno forti implicazioni biologiche: il rivestimento degli aspirapolvere, l’idea di distacco e protezione, e specialmente l’acqua in cui galleggiano le palle da basket negli “Equilibrium Tanks” rinviano all’immagine del grembo materno.
Elio Grazioli: Com’è possibile che l’immortalità dell’oggetto crei un senso di sicurezza nel soggetto?
JK: Qualsiasi insicurezza possa creare sarebbe prodotta dalla consapevolezza di non vivere in uno stato di entropia, di equilibrio, e dal desiderio che ne deriva di ritornare nel grembo materno — una meta irraggiungibile.
EG: Come concili il valore metaforico con la presa di distanza da qualsiasi valutazione critica? Non dovresti eliminare anche quello?
JK: Credo che le mie opere abbiano ancora quel valore metaforico. La serie “scultorea” e la mostra “Luxury and Degradation” lo avevano; le opere “Jim Beam” usavano metafore del lusso per determinare la struttura di classe: un secchio diventava simbolo del proletariato, un cristallo di Baccarat marcava il confine della classe medio-alta. L’opera ora funziona a partire da metafore dell’arte: Louis XIV è una metafora per l’arte nelle mani di un monarca; Vase of Flowers, arte che tenta di creare un senso di stabilità economica; i Trolls, una metafora della mitologia. Lavoro ancora sulla metafora per riuscire a produrre una finta faccia che abbia però sostanza. Nelle condizioni economiche attuali deve esistere una finta faccia, ma deve possedere stabilità e sicurezza in se stessa.
GP: Che differenza c’è tra un oggetto kitsch e una delle tue opere?
JK: Alla fine degli anni Settanta lavoravo con oggetti che appartenevano effettivamente al regno del kitsch, come i fiori gonfiabili dai colori vivaci, ma poi ho abbandonato il kitsch a causa delle sue implicazioni sessuali, per le quali non ho alcun interesse. Non credo che gli aspirapolvere siano kitsch, e nemmeno i serbatoi. Nella mostra “Luxury and Degradation” ho lavorato sul kitsch quando trasforma il significato degli oggetti o ne enfatizza le potenzialità; ma lì il problema era lo spostamento dell’arte dallo spazio mentale dell’artista e la sua liberazione da preoccupazioni di carattere formalistico. Nella mostra di “sculture” ho lavorato sul kitsch in modo più specifico: quella serie di opere, che rimandava a un’arte priva di funzione, mostrava cosa accade quando l’arte abbandona il contesto proprio dell’artista per cadere nelle mani dell’aristocrazia, da una parte, e delle masse dall’altra. Volevo affermare che quando l’artista non è più direttamente implicato, l’arte inizia a riflettere l’io di chi la controlla politicamente. Quando siamo posti davanti al kitsch è facile dare un giudizio critico. A essere giudicata è in primo luogo una situazione socio-economica: “Sono al di sopra del kitsch, sono migliore, sono più vicino a una condizione di sangue blu di quanto lo siano questo oggetto kitsch o la situazione socio-economica da cui proviene”. Io dò agli oggetti una sorta di lusso artificiale, un valore artificiale che li trasforma, ne cambia la funzione e li sottrae al giudizio critico. Le superfici sono la facciata finita di una degradazione sottostante.
Corrado Levi: Nelle tue opere c’è un’estrema, sacra malizia e monelleria che penso possa essere di ostacolo al raggiungimento dell’altro tuo obiettivo, quello di produrre un’arte capace di favorire una trasformazione sociale. Non credi che questa malizia possa interferire con i tuoi progetti a livello sociale?
JK: Le opere funzionano su una base molto ampia, toccano tutti i membri della società e favoriscono un livellamento delle differenze di classe. Allo stesso tempo tentano di dare espressione al dolore dell’individuo, all’insoddisfazione verso il sistema attuale, in modo che l’individuo possa avvertire una sublimazione del suo dolore. E ciò è valido sia per l’aristocrazia che per le classi più povere. Non annacquo le mie idee per renderle più accessibili. Il vocabolario che uso tenta sempre di produrre mobilità, di spingere l’aristocrazia verso il basso e le classi più povere verso l’alto.
GM: Come il non sentire dolore può provocare mobilità? Non dovrebbe, al contrario, produrre appagamento?
JK: L’individuo reagisce a un riflesso nella memoria del dolore sopportato nello scambio lavorativo. Dapprima c’è un senso di insoddisfazione, poi subentra la consapevolezza che a questo punto l’oggetto si riflette sul suo artefice. Nello scambio lavorativo innumerevoli anime hanno scambiato i loro desideri con un oggetto, che era concesso loro solo perché l’aristocrazia lo riteneva privo di funzione. Ora l’oggetto è stato svuotato dell’anima e può mostrare finalmente come può agire funzionalmente da riflesso dei desideri defraudati, assorbiti dalla sua produzione.
HK: Che rapporto c’è tra le tue posizioni socio-politiche e il sistema americano, rappresentato da Reagan e dai suoi adepti?
JK: Il reaganismo annulla la mobilità sociale: in luogo di una struttura composta di livelli di reddito basso, medio e alto, assistiamo alla polarizzazione dei due estremi, dove la sensazione di insicurezza è più elevata. Le mie opere si oppongono a questa tendenza.
GP: In che modo pensi che la critica possa avvicinarsi alle tue opere?
JK: All’inizio le si metteva in rapporto con il consumismo, accennando appena al dialogo socio-politico che la gente ha con gli oggetti, quasi sempre senza alcun riferimento al lato tragico: il mio lavoro riguarda invece molto da vicino la tragedia di condizioni irraggiungibili, e il solo modo in cui è possibile giudicarlo criticamente è quello di riferirlo alla realtà del desiderio di ottenere tali stati irraggiungibili. Il mio lavoro è una continua ricerca della perfezione, di per sé inarrivabile; malgrado questo, continuo e persevero in questa tragica ricerca.
EG: Più Brancusi che Duchamp?
JK: Intellettualmente mi sento più vicino a Duchamp, anche se la realtà della mie opere è più vicina a Brancusi.
GDP: Hai detto che le tue opere sono come una finta facciata. Anche la cultura postmoderna è simile a una finta facciata: come possono le tue opere andare al di là del Postmoderno?
JK: Quando parlavo di finta facciata mi riferivo all’apparenza generata dallo sviluppo dell’opera in uno spazio sociale, economico, politico. I valori devono cambiare perché vi sia un senso di uguaglianza. Il lavoro nella sua interezza non è una finta facciata, ma il sistema di sostegno non è ancora nato e la direzione politica verso cui va non è ancora definita. La finta facciata non tenta di ingannare ma di togliere il velo reale. Con le mie opere metto in evidenza una posizione morale, anche se non dico: “Come osi andar dietro al lusso?”, ma piuttosto: “Stai lasciando la tua posizione di forza. Se vuoi distruggerla vai avanti così”. Io non sono di questo avviso, credo che dobbiamo mantenere le basi della nostra forza e che la situazione economica debba essere elaborata in una finta facciata. Ma il contesto individuale non può essere una finta facciata.
Paul Blanchard: La“finta facciata” non è forse la differenza tra un simbolo e il suo significato, o tra un segno e il suo referente?
JK: Proprio così. È possibile usare qualsiasi simbolo nel momento in cui gli si sottrae contenuto critico. Louis XIV è una finta facciata, è un simbolo di qualcosa per una generazione, ma ora viene presentato fuori contesto, con la sola sicurezza materiale dell’oggetto. È una finta facciata del materiale, lusso finto. È impossibile creare una struttura economica senza un senso materiale di valore. Un materiale di poco costo dovrebbe essere reso più solenne per produrre mobilità nelle classi più povere, e allo stesso tempo per appagare l’aristocrazia. Prendi per esempio l’acciaio inox confrontato con l’oro e l’argento: è uno dei metalli più duri, è difficile piegarlo, mentre l’oro è così duttile da piegarsi in mano. La fiducia nella materialità è molto importante: non dev’essere necessariamente l’acciaio inox, è solo una direzione possibile.
GM: Come può la tua arte avere un effetto sociale se la sua circolazione è controllata da una cerchia limitata di persone?
JK: Le libertà per cui l’arte combatte non sono quelle per cui si lotta nelle strade. È un dialogo fra pochi che può anche riflettersi nelle strade, ma non nasce lì. Chi colleziona e sostiene il mio lavoro ha le mie stesse posizioni politiche e reagisce a una diffusa insoddisfazione, nell’arte, in politica, in filosofia. Spero che potranno diffondere le idee presenti nelle mie opere a un pubblico più largo.