In piedi, davanti alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, Jimmie Durham (USA, 1940), rappresentante dell’International Indian Treaty Council alle Nazioni Unite, nonché leader del Movimento degli Indiani d’America, delibera eloheh: il termine “terra” in Tsalagi, la lingua Cherokee, che – come Durham illustra ai suoi connazionali americani – sta anche per “storia”, “cultura” e “religione”. “Non possiamo separare il nostro posto sulla terra dalla nostra vita sulla terra, né dalla nostra visione e dal nostro senso di collettività” [Jimmie Durham, Columbus Day, Albuquerque, NM: West End Press, 1993, p. 70]. Il popolo Cherokee ha occupato per millenni quelli che oggi sono il Tennessee, la Georgia e la Carolina l’Echota – finché il presidente Andrew Jackson, “Sharp Knife” [coltello affilato] come lo soprannominò la tribù Creek, incoraggiato dal credo “eccezionalista” [l’espressione si riferisce alla dottrina che ritiene gli Stati Uniti differenti qualitativamente da ogni altra nazione sviluppata] e romantico del “Destino manifesto” [la convinzione che gli Stati Uniti abbiano la missione di espandersi, diffondendo la loro forma di libertà e democrazia], impone un inesorabile esilio verso ovest, in pieno inverno 1838; il “Sentiero delle Lacrime” è una migrazione forzata che ha causato la morte di quasi un quarto della popolazione Cherokee. Così, il 20 giugno 1978, quando Durham testimonia davanti al Congresso leggendo la sua protesta alla costruzione della diga di Tellico, sul Little Tennesse River, fonte d’acqua per le aree di Echota e Tenasi, il suo discorso non è una replica a un’ambigua intimidazione, ma a una minaccia già nota e che avrebbe rischiato di ripetersi. “Gli antropologi hanno rinvenuto ossa e ceramiche a Echota, e la TVA [Tennessee Valley Authority] dice che possiamo recare visita a quelle ossa in un museo. Ma gli spiriti dei nostri antenati non sono in un museo. Vivono negli alberi di pino e di noce e in quei torrenti e fiumi che scorrono liberi. Non vivrò mai a Echota, non più di quanto un greco del New Jersey potrà mai vivere al Partenone, ma il cuore della nostra gente dice che deve essere lì” [Ibid].
Questo discorso è solo una delle tante espressioni del dissenso che – attraverso la scrittura, l’azione diretta e l’arte – distingue l’operato di Durham. In questo senso, l’impegno dell’artista per la difesa dell’eloheh è fondamentale per comprendere la sua attitudine alla resistenza, manifesta tanto nella produzione visiva che in quella letteraria, di fronte agli eventi dell’ultimo mezzo secolo. Queste tensioni – e le loro conseguenze visive – emergono nella mostra itinerante “At the Center of the World”, una ricognizione del lavoro di Durham dal 1970 ad oggi. Ospitata all’Hammer Museum di Los Angeles a partire da gennaio 2017, la mostra rappresenta la prima grande retrospettiva dell’artista in America in oltre due decenni.
Durham nasce nel 1940 a Washington, Arkansas, in una riserva Cherokee in cui la famiglia ha abitato per più di un secolo, in seguito all’Indian Removal Act del 1830 – una barbarica espulsione delle tribù indiane del sud dai loro antichi insediamenti, attraverso un finto scambio con le terre a ovest del fiume Mississippi. (L’impegno di Durham in difesa delle battaglie per i diritti civili degli Indiani d’America non deve far pensare che il soggetto dei suoi lavori sia storicamente limitato e quindi estraneo alle lotte contemporanee: all’inizio degli anni Sessanta, Durham mette in scena lo spettacolo teatrale My Land con Muhammad Ali e Vivian Ayers-Allen, drammaturga afroamericana, poetessa e fondatrice del Brainerd Institute Project, una reincarnazione del Brainerd Institute, fondato nel 1866 per educare gli studenti di colore provenienti dal Sud.)
Con il tempestoso 1968, Durham è pronto a lasciare gli Stati Uniti, per trasferirsi a Ginevra e frequentare l’École des Beaux-Arts. Mentre in Svizzera sviluppa le sue prime scultore, rafforza anche l’interesse per la sua terra: nel 1973, i membri della tribù Lakota Sioux e i sostenitori dell’American Indian Movement occupano, per più di due mesi, la città di Wounded Knee nel South Dakota, per protestare contro un capo tribale profondamente corrotto. Il luogo offriva una sorta di affresco della storia Sioux, marcando il sito dov’era avvenuto il Massacro di Wounded Knee nel 1890: un sanguinoso attacco al campo Lakota sul Wounded Knee da parte dei soldati americani che, dopo aver assistito alla Danza degli Spiriti (una lenta danza cadenzata da un unico colpo di tamburo, con la funzione di attrarre i fantasmi degli antenati Lakota e le mandrie di bufali e bisonti che erano state cacciate dai coloni fin quasi all’estinzione) e averla scambiata come il prologo di un attacco armato su di loro, diedero inizio all’eccidio. Per solidarietà all’occupazione del 1973, Durham, insieme a un membro della tribù Mapuche dal Cile e a uno della tribù Quechua dalla Bolivia, forma il Comitato Internazionale per gli Indiani delle Americhe, o Incomindios. Successivamente, nel 1974, torna negli Stati Uniti per partecipare alla prima International Indian Treaty Conference a Standing Rock, una riserva Lakota e Dakota nel Nord e Sud Dakota. (Ancora oggi si tratta di un’area ad alta tensione a causa della costruzione della Dakota Access Pipeline, un oleodotto che attraversa siti sacri ai Sioux e minaccia prepotentemente l’ecosistema di quest’area e il corso del fiume Missouri – principale fonte d’acqua della riserva; a partire dal dicembre 2016 la costruzione dell’oleodotto è stata momentaneamente arrestata).
Durham trascorre la maggior parte degli anni Ottanta in quel deserto urbano che è il centro di Manhattan. Qui è destinato a essere non un altro artista tra i tanti ma, inevitabilmente, l’altro, l’artista indiano. Il trasferimento si rivela così essere solo provvisorio, e Durham continua la sua deriva in Messico, per riapprodare in Europa intorno alla metà degli anni Novanta e iniziare a creare quelle che forse sono le sue opere più allegoriche, la serie Poles to Mark the Center of the World (1995-in corso). Solo l’Europa, o l’Eurasia, come la chiama Durham, può vantare un sito che marchi l’unico vero centro del mondo – Middelburg, nei Paesi Bassi –, in cui piantare un albero che simboleggi i sette continenti e in riferimento alla mitologia tribale Cherokee che detta sette direzioni: sopra, sotto, Nord, Sud, Est, Ovest e dentro di sé. The Center of the World at Middelburg (1995), una rete di cavi che attraversano un palo di legno cavo, collegati a un solitario telefono che ruota su uno sgabello, è il primo di queste ancore nel suo implacabile disormeggio. In A Staff Made to Mark the Center of the World at Gwangju Biennale (2004), tre rami di legno, disposti in maniera crescente in altezza, sono appoggiati contro un muro come tributo ai rifugiati vietnamiti annegati nell’Oceano Pacifico durante l’emigrazione verso la Corea. I rami sono ornati da portachiavi, ciascuno dei quali reca il nome di una delle vittime, a formare un allegro arcobaleno di colori, e da uno specchio portatile, appeso a testa in giù per allontanare gli spiriti e le energie negative. I portachiavi mostrano l’approccio moderno, occidentale all’auto-rappresentazione e all’identità – la conclusione soggettiva è che il mondo è orientato verso se stesso, e che noi siamo sempre al suo unico centro.
I pali cominciano a formare scheletri per figure umane dinoccolate, totem precari i cui spiriti sono fantasmi dalle tenaci espressioni. In Pocahontas and the Little Carpenter (1988), la coppia si osserva con un’aria d’attesa, in un tableau che deride il display museale comunemente associato all’arte indiana. Pocahontas, il cui volto poggia sullo schienale regale di una comune sedia da tavolo, guarda il suo partner, le cui braccia tese in avanti sono decorate l’una con un serpente a sonagli e l’altra con fotocopie di documenti storici che penzolano da una tavoletta. Conquistando lo spettatore grazie a elementi familiari inseriti nella composizione, i corpi senza pelle di Durham infondono una certa fiducia; quando la figura antropomorfa di Untitled (1992) ci presenta il dente dell’artista nella sua pallida mano, nascondendo dietro la schiena un bigliettino – “iT’S GOT MR. DURHAM’S TEETH!” –, non si può dubitare della sua sincerità.
La pietra, un altro elemento usato frequentemente da Durham nei suoi assemblaggi, ha una funzione sia costruttiva che distruttiva. L’artista considera le rocce come un materiale dinamico e statico al tempo stesso. Un pezzo di granito nero, reso quasi senza peso in Untitled (1972), assomiglia a un ragno minimalista che si trasporta su gambe sottilissime; altre rocce spaccano specchi (The Flower of the Death of Loneliness, 2000) e ammaccano oggetti (Stoning the Refrigerator, 1996); macigni schiacciano automobili (Still life with Spirit and Xitle, 2007) e aerei (Encore tranquillité, 2008). In altri casi, le pietre sono esposte puramente per loro qualità minerali (Red Granite and Grey Cristalina Granite, 1971).
Gli assemblaggi di Durham hanno all’interno molte vite e densità, sia organiche che inanimate: le ossa invocano gli spiriti dei loro ex-proprietari in opere come Tlunh datsi (1985), Red Turtle (1991), Manhattan Festival of the Dead (1982) and A Dead Deer (1986). La poesia “Tarascan Guitars” descrive in dettaglio i processi di creazione dell’opera Armadillo (1976), una scultura nella quale un teschio di armadillo è impiegato per reinterpretare una tradizione di arte folkloristica: “Ho dipinto il teschio dell’armadillo di un turchese luminoso e di un arancione, / Blu e rosso, nero, verde come le tessere e i fiori Aztechi. / Al posto dei suoi vecchi occhi, ho messo un’agata / e una conchiglia; / cosicché possa vedere in tutte le direzioni” [Idem, p. 48]. Scrivere ha avvicinato entrambi i fronti della pratica di Durham, conducendolo a un intimo legame tra la runa e il gesto. L’arte, ci suggerisce l’artista, differisce dal linguaggio, e questa è esattamente la sua forza.
I ritratti e gli autoritratti di Durham, un ritorno della tradizione europea all’interno della sua pratica, assumono forme e affinità molteplici, ma è la versione del 1987 che presenta la più significativa variazione: il ritaglio a grandezza naturale si distanzia dal suo sviluppo a parete, la sua pelle presenta un’auto-critica e una verità che la sua voce non può esprimere: “Ciao! Sono Jimmie Durham. Voglio spiegarvi alcune cose basilari di me stesso. Nel 1986 avevo 46 anni. Come artista sono confuso su tante cose, ma in fondo godo di buona salute, sono disponibile e capace di fare diversi lavori. Sono alla ricerca di un’occupazione”. Il suo cuore si apre letteralmente allo spettatore per rivelare le sua macchinazioni lignee, mentre i suoi occhi turchesi scrutano diritto in avanti. I suoi “Caliban” danno vita a un personaggio che sembra uscito dalla Tempesta di Shakespeare, un uomo selvaggio che una volta addomesticato padroneggia il linguaggio del suo colonizzatore (“Caliban” è quasi un anagramma di “cannibal” [cannibale]). In questa figura, Durham è libero di trasporre sé stesso oltre che a un metaforico soggetto marginalizzato. Caliban’s Mask (1992) è una faccia espressiva di fango nero indurito attorno a due occhi di vetro spaiati e a un bottone che fa da naso. La sua formazione è documentata in Caliban Codex, un diario aperto e un album consistente in una serie di disegni con annotazioni e lettere per il suo signore, Prospero.
Guardando oltre, il maestoso La Malinche (1988–91) è un ritratto stilizzato di Nahua, l’amante-traditrice dell’esploratore spagnolo del sedicesimo secolo Hernán Cortés. Avendolo aiutato a conquistare la sua terra, Nahua sembra invocare la nostra compassione: il suo stupro è lo stupro delle terre indiane. Indossa un delicato reggiseno color oro, sottolineando il desiderio di sangue del suo amante provocato dalla corsa all’oro. Approach in Love and Fear (1992), l’installazione presentata a Documenta IX, comprende la scultura Jesus. It’s About the Sausage, una figura umana di dimensioni ridotte, rivestita di letame, sangue e fango, con un’erezione manifesta e un occhio metallico. Il soggetto mostra la fotografia di un cane mummificato. Nelle vicinanze, giace Treff, tre ingombranti cavalletti di legno, attraversati da una spina dorsale di metallo pesante avvolta da pelle rossa. La struttura, insieme a un ramo perpendicolare dipinto di colore ceruleo, supporta un fragile e sottile bastoncino sul quale capeggia un cartello con il titolo dell’opera. Approach in Love and Fear porta la differenza tra la pittura, il disegno e la scultura verso un difficile equilibrio.
Una tale quantità di opere raggruppate assieme incanala un’energia sentimentale e marziale. Durham è stato un difensore di altri artisti attraverso la Foundation of the Community of Artists e in qualità di editor del periodico Art and Artists. Ha riunito in un’unica coalizione, la People’s Alliance, popolazioni marginalizzate, sia nella sua terra, ovunque questa potesse essere, che all’estero altre tribù native americane, portoricani, chicani e afroamericani, tutte comunità in lotta nel sistema elettorale americano. L’artista invoca i suoi antenati Cherokee, sia mitici che impersonificati, attraverso modalità che tengano vive e coerenti le discendenze storiche.
Il lavoro di Sequoyah, un Cherokee al quale si attribuisce l’invenzione di un sillabario nella lingua della sua tribù all’inizio del XIX secolo, involontariamente ha portato alla pubblicazione del 1828 del Tsa La Gi Tsu lehisanunhi, o Cherokee Phoenix, un giornale bilingue Cherokee/Inglese, una cronaca della tribù all’interno del sistema politico degli Stati Uniti e un’autobiografia sul folklore Cherokee. Come in “Tarascan Guitars”, Durham ha già trovato il suo cranio di armadillo: “E come Sequoia che si perse in Messico / Io scrivo per ricordare” [Ibid].