In Zen they say: If something is boring after two minutes try it for four. If is still boring, try it for eight, sixteen, thirty-two, and so on. Eventually one discovers that it’s not boring at all but very interesting.
(John Cage, 19441)
Francesco Bonami: Va sempre in cerca di funghi?
John Cage: Quando capita. Recentemente alcuni incidenti me lo hanno impedito. Quasi ogni volta che vado per funghi cado o scivolo, sono ormai come un veterano di guerra.
FB: Che relazione c’è tra i funghi e il suono?
JC: Una volta ho fatto notare che nel dizionario inglese la parola “musica” (music) è preceduta dalla parola “fungo” (mushroom). Inoltre, i funghi hanno una durata limitata, così come un suono, ammesso che non sia un antifurto.
FB: Sente sempre I Ching per le sue composizioni?
JC: Sì, ma adesso sono programmati nel mio computer.
FB: L’uso del computer ha cambiato il modo di comporre?
JC: Semmai lo facilita. Invece di andare al pozzo per prendere l’acqua apro il rubinetto.
FB: Lo programma da solo?
JC: No, c’è qualcuno che lo fa per me. Avrò presto settantanove anni e credo di essere troppo vecchio per imparare.
FB: …o troppo giovane.
JC: Comunque un’età sbagliata. Il grande vantaggio del computer è che il lavoro, una volta composto, non dev’essere poi trascritto.
FB: Considera i suoi spartiti musicali come opere d’arte visiva?
JC: C’è una galleria che vorrebbe esporli al posto delle mie grafiche, ma io non voglio. Mi creerebbe una gran confusione scrivere della musica sapendo che verrà guardata anziché sentita. Un tempo gli spartiti erano molto belli da vedersi, oggi vengono fuori dal computer ed esteticamente non sono più così belli.
FB: Lei aveva un rapporto molto intenso con Duchamp…
JC: In un’intervista gli chiesero quali fossero i nostri rapporti e lui rispose: “amici per la pelle”. Fu una cosa che mi fece molto piacere.
FB: Molti giovani artisti contemporanei citano con facilità Duchamp. Crede che capiscano veramente quale fosse la sua filosofia?
JC: Nessuno l’ha mai capita veramente.
FB: Lei è mai riuscito a capire Duchamp?
JC: Non direi, e non gli ho mai nemmeno chiesto di farsi capire.
FB: Ne ha fatto una esperienza.
JC: Esattamente.
FB: Lei disse che spesso fare esperienza di qualcosa non significa capirla, anzi affermava che il capire frena l’esperienza.
JC: È vero, io preferisco fare esperienza di qualcosa piuttosto che capirla.
FB: Si ricorda di quando, nel 1958, partecipò a Lascia o Raddoppia, la trasmissione televisiva di quiz condotta da Mike Bongiorno?
JC: Era a Milano, in inverno, faceva freddo ed era umido, ma stetti ugualmente molto bene. A quel tempo lavoravo per l’istituto di fonologia e non c’era molto denaro disponibile per la mia ricerca, così venne l’idea di partecipare alla trasmissione di Mike Bongiorno. Se avessi vinto si sarebbero risolti molti problemi economici. Vinsi. Risposi all’ultima domanda così lentamente che il pubblico era quasi impazzito. Ero popolarissimo a quel tempo, la gente si affacciava alle finestre augurandomi buona fortuna.
FB: Quanto vinse?
JC: Più o meno cinque milioni di lire. Ma non era vero denaro, erano dei gettoni d’oro che mi feci cambiare con un’operazione un po’ complicata da Peggy Guggenheim. Quando tornai in America comprai un pulmino Volkswagen che mi servì per andare in tournée con la compagnia di Merce Cunningham.
FB: Compone ancora musica per loro?
JC: Lo scorso anno ho composto un pezzo che ritengo sia il migliore da me scritto. Il balletto si chiama Invention e la musica Sculptures Musical; un’opera di Duchamp aveva lo stesso titolo ma al singolare. Il titolo fa riferimento a un suono che arriva da diversi punti dello spazio e che crea una scultura nella sua durata.
FB: Pensa che Marcel Duchamp avrebbe capito la sua esperienza Zen?
JC: Una volta gli chiesi se avesse qualche rapporto con le filosofie orientali e con l’Oriente. Lui mi rispose: “Nessuno”. Fu l’unica domanda che gli feci e avrei voluto una risposta diversa perché il suo modo di pensare e di vivere aveva qualcosa di molto vicino allo Zen.
FB: Non era un atteggiamento cinico?
JC: Direi che si era liberato dell’Ego.
FB: Completamente?
JC: Lui stesso affermava che ogni scelta, anche la più casuale e semplice, fra A e B per esempio, è frutto di un Ego.
FB: E lei ha ancora un Ego?
JC: Tento di ridurlo, non lo curo e provo a dimenticarmi di lui. Nella nostra società ci sono sistemi che promuovono l’Ego e sistemi che lo limitano. Fra i primi c’è la segreteria telefonica. Chi considera il proprio lavoro molto importante ne possiede una, io preferisco rispondere al telefono.
FB: Non considera il suo lavoro importante?
JC: Non più del telefono.
FB: Lei usa il sistema della casualità operativa (change operation) come una disciplina…
JC: Nel mio lavoro sì. C’è chi pensa che un metodo o un modo di pensare debba essere coerente con tutta la vita di una persona. Così molti credono che io debba usare le operazioni casuali in ogni attività che faccio. Questo concetto così sistematico dell’esistenza è tipico dell’Occidente. In India ci sono invece quattro modi diversi per usare la mente. Il primo, Artha, è lo spirito di sopravvivenza, quello che ti fa evitare di andare sotto un’auto quando attraversi una strada; il secondo è Kama, il piacere; il terzo, Dharma, appartiene alla pratica religiosa e rituale; infine c’è Moksha, il quarto e ultimo stato della mente, che ci libera anche dagli altri tre che lo precedono. Ed è quando la mente raggiunge Moksha che le operazioni casuali sono possibili.
FB: Mi può parlare del suo progetto a Ivrea con Olivetti?
JC: Consisteva nel sonorizzare un parco per bambini. C’era questa collinetta molto bella dove sulla cima si sentiva il rumore degli insetti e il traffico della città in lontananza. Il progetto consisteva nel sonorizzare le piante del parco. I bambini toccandole avrebbero prodotto dei suoni e avrebbero potuto ascoltare il luogo in cui giocavano. Il progetto non è stato ancora realizzato, ma forse c’è la possibilità che si concretizzi. In Francia però, non più a Ivrea. Credo che la persona a cui interessava sia stata sostituita da qualcuno con idee diverse.
FB: Nel 1977 lei era di nuovo a Milano, al Teatro Lirico, dove la sua performance finì in un vero caos. Era al corrente della situazione politica in Italia in quel momento?
JC: Non proprio, anzi fui molto confuso dal comportamento del pubblico, che si esibì in una sua “performance”. Io continuai nella mia per due ore e mezzo, la gente saliva e scendeva dal palco, le ragazze mi davano baci, qualcuno mi tolse gli occhiali ma subito me li rimise. Quando finii, il pubblico esplose in un’ovazione, ma non capii perché dato che avevano fatto così tanta confusione da non poter sentire niente di quello che avevo detto. Il giorno dopo qualcuno mi riferì che era stato un grande successo, questo mi confuse ancora di più.
FB: C’è chi la paragona a Karlheinz Stockhausen, credo che lei non sia d’accordo…
JC: Quando incontrai Karlheinz per la prima volta ero con David Tudor. Non conoscevamo la sua musica ma ne fummo affascinati e la presentammo in America. Col passare del tempo però la distanza tra noi è aumentata. A lui piace avere il controllo sui musicisti, a ogni suo concerto si siede alla consolle con il tecnico del suono. Mi disse che se un musicista non suonava nel modo che lui riteneva corretto, non aveva problemi a spegnere, durante il concerto, l’amplificazione del suo strumento. Io invece preferisco accettare quello che accade durante la performance. Se c’è qualcuno che deve cambiare, quello sono io, e posso farlo liberamente senza offendere nessuno.
FB: Quando era al liceo scrisse un’orazione dal titolo Other People Think, incitando il mondo occidentale a fare silenzio per ascoltare il pensiero di altri popoli. Un’orazione molto attuale in questi giorni.
JC: C’è molto da ascoltare. Ma, per esempio, credo che nel nostro governo non ci sia un vero esperto della cultura islamica, e allora la situazione è molto triste. Mi chiedo cosa si vince se tutto intorno a noi brucia e si inquina.
FB: Duchamp aveva questo sogno di riuscire a guardare un oggetto conosciuto come se non lo avesse mai visto prima. È lo stesso scopo della sua ricerca con i suoni?
JC: È il mio obbiettivo. Faccio questa esperienza a causa della mia pessima memoria, dimentico il volto e il nome di persone da cui sono stato a cena.
FB: Beuys la stimava molto…
JC: A differenza di me lui tendeva a un’organizzazione precisa, l’Università Internazionale Libera. Credo fosse un progetto interessantissimo, come tutto il suo lavoro. Condivido il suo ottimismo e la sua utopia, ma purtroppo l’umanità si trova sempre più spesso in uno stato di impasse che allontana la realizzazione della mia idea di società ideale.
FB: Cosa suggerisce per superare l’impasse?
JC: Rispondete al telefono! Rimanete in comunicazione, non isolatevi.
FB: Lei pensa alla morte?
JC: Lo fanno tutti, specialmente quando si avvicinano agli ottant’anni. Ma io mi sforzo di vivere il più a lungo possibile.
FB: Ha capito qualcosa di più della vita?
JC: “Quando avevo trent’anni — raccontava Satie — mi dicevano: ‘a cinquanta capirai’. Adesso ho cinquant’anni, non capisco niente”. Io provo a descrivere la mia confusione.
FB: La frustrazione dell’esistenza è dunque generata dal nostro sforzo di fare ordine nel caos, anziché accettarlo?
JC: Accettare il caos è accettare la natura.
FB: Lei è uno dei pochi artisti che hanno fatto parte di un’avanguardia e che sono rimasti costanti nel proprio modo di lavorare, gestendo il successo in modo molto sobrio. Che vantaggi ha la sua posizione?
JC: Quello di poter produrre le proprie idee. Ma bisogna avercele, non si possono ridire le stesse cose solo perché c’è qualcuno che le pubblica. Io mi sforzo di dire sempre qualcosa di nuovo, ma non è facile e si rischia di finire nella Storia della Musica.
FB: Non crede che i giovani musicisti si riferiscano a lei nello stesso modo in cui lei si riferiva a Schönberg?
JC: I musicisti mi dicono che quello che io trasmetto è la possibilità, per loro, di esprimere ciò che sentono internamente. La mia influenza su di loro praticamente non esiste. D’altronde, io studiai con Schönberg ma il mio lavoro prese direzioni diverse. Oggi poi, con la nuova tecnologia, le tipologie musicali si sono influenzate a vicenda e non è possibile fare riferimento a una sola idea.
FB: Tra Schönberg e Stravinskij perché scelse di studiare con il primo?
JC: La musica di Schönberg apriva molte più porte.
FB: In che cosa consisteva la sua performance Il treno nel 1978 a Bologna?
JC: Mi incaricarono di pensare un pezzo che fosse in relazione con il treno. Il risultato fu un lavoro che coinvolgeva il viaggiatore dalla partenza all’arrivo. L’idea era quella di tenere in comunicazione i vari elementi della realtà. I passeggeri ascoltavano della musica che veniva suonata in stazione. Sul treno, alcuni microfoni amplificavano il rumore delle ruote all’interno e allo stesso tempo dei dischi suonati in un vagone venivano amplificati all’esterno, nel paesaggio. All’arrivo, altra musica veniva suonata in stazione. Si creava così un senso di continuità per tutta la durata del viaggio. Scrissi una lettera con le varie idee che poi vennero realizzate da due musicisti, lo spagnolo Juan Hidalgo e Walter Marchetti di Milano.
FB: Negli ultimi dieci anni si è dedicato all’arte visiva producendo stampe e grandi acquarelli usando le pietre raccolte nei fiumi. La gente guarda a questi lavori indipendentemente dalla sua produzione musicale?
JC: Credo che alcuni riescano a farlo.
FB: Pensa di avere rimpianti?
JC: Quando qualcuno fece questa domanda a Duchamp lui rispose di no.
FB: Ci crede?
JC: Normalmente credo a ciò che la gente dice. E lei?
FB: Non sempre.
JC: Ho dei rimpianti, ma non saprei dire quali. Forse potrei scoprirlo, ma in ogni caso non mi creerebbero eccessivi problemi.