Maurizio Cattelan: Ciao, John. Riesci a sentirmi oggi?
John Henderson: Sì, riesco a sentirti sorprendentemente bene.
MC: Cominciamo allora. Tu vivi a Chicago, un posto insolito per rincorrere una carriera artistica. Hai mai pensato di trasferirti in un’altra città?
JH: Sì, naturalmente, penso di trasferirmi. Chicago è carina, comunque. Ma questo non importa.
MC: Non viene data molta attenzione a Chicago. Deve essere difficile per un giovane artista…
JH: Non è molto difficile.
MC: Bene, allora parliamo del tuo lavoro: vedo molti riferimenti alla storia dell’arte, ad altri artisti e periodi, dall’Espressionismo Astratto al Minimalismo, per esempio. Dove è l’originalità nel tuo lavoro?
JH: L’originalità è una cosa scabrosa per me. Non è il mio obbiettivo, in sé, ma mi piacerebbe che il lavoro puntasse all’originalità, sperando che incoraggi lo spettatore a pensare in maniera critica all’oggetto o l’immagine che ha di fronte. Mi interessa piuttosto superare il concetto di gesto pittorico, o del “tocco dell’artista” come una sorta di segnale di originalità. Ad ogni modo, nel mio lavoro il gesto originale è sempre visto come un fantasma o un’eco, un’ombra…
MC: Come una riproduzione?
JH: Non necessariamente. Ha più a che fare con la traduzione che con la riproduzione. Per esempio, realizzo i miei quadri nello studio, nel quale lavoro, ma essi sono spesso tradotti in nuovi materiali attraverso processi come per esempio la fusione o la fotografia. Così, le qualità del dipinto originale possono essere riprodotte in metallo o in fotografia. Le peculiarità degli originali sono molto più presenti nel lavoro finale, ma c’è sempre una perdita di informazioni inerente alla traduzione, una distanza dall’originale. Non sono copie, sono più vicine alla documentazione.
MC: Come una documentazione della tua creatività?
JH: Fuochino.
MC: Sembra complicato.
JH: Penso possa esserlo.
MC: Hai mai visto un fantasma?
JH: No. Tu?
MC: Ritorniamo al tuo uso dei riferimenti…
JH: I riferimenti sono inevitabili. Ma penso che sia ok. Essi possono essere stimolanti come una serie di importanti domande per lo spettatore, un accesso al lavoro. E ancora, non ha a che fare con la traduzione, sebbene non sia un rigurgito. C’è un ovvio gap tra il mio lavoro e i riferimenti che utilizzo nel mio lavoro.
MC: Nella tua mostra alla Galleria T293 a Napoli hai incluso una nuova serie di lavori intitolata “Recasts”. Questi lavori sembrano riferirsi in maniera diretta ai “Casts”, i tuoi dipinti-calco in metallo. Ora stai imitando addirittura te stesso?
JH: C’è l’idea che gli artisti possano intrappolare se stessi in uno stile distintivo, mediante il quale il loro lavoro possa diventare — non intenzionalmente, si suppone — una parodia di se stesso. È assolutamente un clichè, ma le implicazioni che scaturiscono da questa posizione hanno una risonanza nella mia ricerca. Quindi, sì, i “Recasts” possono essere visti come una parodia premeditata dei “Casts”. Essi sono dipinti per mimetizzare le superfici metalliche dei “Casts”, ma è solo una conclusione fasulla. I pannelli nei “Recasts” sono ognuno un dipinto unico, mentre i “Casts” sono riproduzioni scultoree di dipinti unici. Rimandano alla mia scabrosa relazione con l’originalità. Può essere difficile serbare traccia della fedeltà…
MC: Si tratta di una strategia per ottenere autonomia o libertà da uno stile particolare o da una metodologia?
JH: Sono solito lavorare a una varietà di progetti o serie nel mio studio, per cui questo non è stato ancora un grande problema per me. Tendo a girarci un po’ intorno. Penso che “Recasts” sia più un modo per spingere me stesso a ripensare ai “Casts”. I riferimenti scultorei nei “Recasts” sono più contemporanei, presi in prestito dalla piatta serialità di Donald Judd o Carl Andre, unendo il gesto pittorico con una sorta di modularità o abilità interscambiabile. Il processo di cooptazione dei “Casts” è abbastanza tradizionale, piuttosto che “vecchio stile” come diresti tu.
MC: Il tuo studio, un grande loft industriale, è un importante elemento o addirittura è protagonista nei tuoi video o fotografie. Perché sei legato a questo posto?
JH: Se sto interpretando il ruolo di “pittore” questo studio è la location appropriata.
MC: Giusto, e tu appari in numerosi dei tuoi lavori, sempre attivo e al lavoro. Quanto è importante l’auto-rappresentazione nel tuo lavoro?
JH: Io considero la mia pratica fondata sulla performance. Anche quando sono solo nel mio studio, è un atteggiamento che incoraggio. Guardo dietro alle mie spalle, osservo me stesso come eseguo il lavoro. Performare la pittura è un impulso consapevole. Quindi immaginare me stesso all’interno del lavoro è un’azione naturale.
MC: Nel tuo video, Cleanings (2010) ti comporti come un coreografo. Di cosa si tratta?
JH: L’ovvio riferimento è al grande footage di Jackson Pollock che dipinge nel suo studio con una tela non distesa aperta sul pavimento. Io vedevo il passare il mocio sul pavimento del mio studio come una chiara analogia all’orizzontalità dell’espressione pittorica di Pollock. A ogni modo, i miei gesti lasciano transitorie tracce di acqua che durano solo per poche ore. La permanenza dell’oggetto dipinto è scomparsa nel video, e il lavoro nello studio — la performance — diventa protagonista.
MC: Mi viene anche in mente Gene Kelly che danza con mocio e scope.
JH: Sì, c’è anche lì.
MC: La commedia ha mai giocato un ruolo nel tuo lavoro?
JH: Penso che tu l’abbia appena scoperto.
MC: Dunque, abbiamo stabilito che la performance del pittore al lavoro e il gioco delle forme storiche ha un importante ruolo nella tua produzione. Questo filtra l’esperienza di vedere il lavoro che fai attraverso la mano dell’artista come una coreografia deduttiva, se considero il tuo lavoro come un insieme totale, almeno in parte. Ma come vedi il resto, ovvero il singolo dipinto? Cosa fa durante la tua assenza?
JH: A volte, le tendenze deduttive del mio lavoro possono cominciare a elaborare i lavori individuali come riconoscimenti o controfigure o rappresentazioni. A ogni modo, ho sempre investito nell’autonomia di ogni lavoro, l’abilità di questi avanzi — usando le tue parole — per offrire loro le stesse accattivanti esperienze visive, lontane dalla struttura deduttiva del mio lavoro. I singoli lavori sono come manufatti, documentazioni profondamente estetiche di un’attività.
MC: Ehi John, scusami se non mi dilungo ma devo scappare.
JH: Non preoccuparti. Ciao Maurizio.