La mattina dell’11 settembre 2001 Jonas Mekas salì sul tetto del suo loft per riprendere l’attentato terroristico alle Twin Towers con la sua videocamera portatile. Nelle prime sequenze video si vedono chiaramente le due torri in fumo, così come gli squarci aperti dagli aerei di linea, e si sentono le sirene dei mezzi di soccorso diffondersi in tutta Manhattan. Le immagini dei grattacieli sono statiche, sembrano richiamare quelle che lo stesso Mekas aveva girato il 24 Luglio del 1964 per Empire del suo caro amico Andy Warhol. Tutta questa immobilità viene però rotta dagli eventi, a un tratto la torre sud collassa ed è a quel punto che si sente la voce di Mekas che, tra le urla sbigottite della gente, sembra sospirare alla videocamera: “I hope they managed to get some people out”.
In occasione delle celebrazioni del centesimo anniversario della sua nascita, la personale “Images Are Real”, curata dal duo Francesco Urbano Ragazzi, presenta una selezione di lavori dell’artista che ripercorrono la sua intera carriera. La mostra, installata negli spazi del Mattatoio di Roma, si apre proprio con il footage di quell’11 settembre riorganizzato da Mekas in Ein Märchen aus alten Zeiten (2001), un video che più che documentare, testimonia lo sbigottimento dell’artista di fronte all’evento che ha minato i valori stessi dell’occidente. Un evento che esula dall’intellegibilità umana e che l’artista sceglie di filmare per provare a colmare il baratro che lui sente esistere tra ciò che vede e ciò che è in grado di comprendere. Il percorso della mostra si apre quindi con un salto in quelle immagini che, stando a quanto dice Mekas, galleggiano fuori dalla comprensione, ma che diventano reali quando incontrano la gente e i soccorritori che da SoHo si dirigono al World Trade Center. Queste immagini accolgono gli spettatori, spalancando la porta sul trauma e il suo sanamento, indicandoli quali temi centrali del lavoro dell’artista lituano. Un’attività febbrile di oltre settant’anni che attraverso l’atto di filmare quotidiano, conduce Mekas a incontrare “scorci di bellezza”. Il cammino quindi, condizionato dal trauma, dal distacco, dal terrore per la guerra, dalla prigionia nei campi di lavoro, dell’abbandono della Lituania è anche la cura. Un’azione che secondo Hamid Nacify, trova nel filmare un atto performativo in cui al cinema è demandato di ripetere e di ricostruire una nuova identità personale e politica.1 Come nella ripetizione della prigionia che ritorna in The Brig (1964), spettacolo di Kenneth Brown messo in scena dalla compagnia The Living Theatre, o come la ricostruzione che Mekas porta avanti fino alla fine dei suoi giorni nelle scansioni di Purgatorio (1959-2019) e Birth of a Nation – Family (2008-2002). Due serie in cui le immagini della comunità lituana di Williamsburg prima e della comunità artistica di Manhattan poi, dimostrano quanto nell’artista vi fosse il desiderio di trattenere tutto quel reale che vedeva perdersi oltre l’obbiettivo delle sue macchine da presa. La mostra quindi ricalca i meccanismi stessi del cinema di Mekas, la frammentarietà quasi stroboscopica di Walden (1969), che i curatori scelgono di esporre nella sua forma installata. Una scelta filologica che riprende un’installazione che lo stesso Mekas aveva voluto per uno screening all’Anthology Film Archive negli anni Novanta e che dimostra la sua doppia sensibilità quale artista e profanatore del dispositivo convenzionale del cinema classico. Un innovatore che a un certo punto adotta il formato video – storicamente legato all’ambito artistico più che a quello cinematografico – e inizia a lavorare sulla estensione di piani sequenza che spesso fa coincidere con la durata delle azioni filmate. Video in cui parla della pioggia, degli alberi, delle case, in cui registra l’esistenza con la naturalezza di chi osserva attentamente il mondo, per provare a fare proprie le cose che vede. Video-diari quotidiani che in 365 Day Project (2007) anticipano la realtà di social media quali YouTube, continuando semplicemente a fare quello che aveva sempre fatto: filmare il mondo perché “le memorie sono passate, ma le immagini sono qui, e le immagini sono reali”.