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347 Dicembre – Febbraio 19/20, In Primo Piano

30 Gennaio 2020, 10:00 am CET

Jonas Mekas: Sistema ed Ecologia media-politica di Vincenzo Estremo

di Vincenzo Estremo 30 Gennaio 2020
Jonas Mekas, Birth of a Nation, 2008. Courtesy l’artista e APALAZZOGALLERY, Brescia.
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Jonas Mekas, Birth of a Nation, 2008. Courtesy l’artista e APALAZZOGALLERY, Brescia.
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Jonas Mekas, Birth of a Nation, 2008. Courtesy l’artista e APALAZZOGALLERY, Brescia.
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Jonas Mekas, Birth of a Nation, 2008. Courtesy l’artista e APALAZZOGALLERY, Brescia.

C’è un brano di Lessico Famigliare (1963) in cui Natalia Ginzburg racconta della perquisizione alla dogana italo-svizzera subita dal fratello Mario in cui i doganieri trovano nell’auto degli opuscoli antifascisti. Ginzburg descrive la scena dicendo: “Mario e il suo amico erano stati fatti scendere, e le guardie li stavano accompagnando al posto di polizia; e passavano lungo il fiume. Mario d’un tratto s’è svincolato, s’era buttato nel fiume vestito com’era”.1 Il brano si riferisce a un evento accaduto l’11 marzo del 1934, quando Mario Levi, fratello di Natalia, viene fermato con Sion Segre alla frontiera di Ponte Tresa, riuscendo poi a fuggire per raggiungere a nuoto la sponda elvetica del lago di Lugano. La seconda guerra mondiale non è ancora scoppiata ma il destino di Mario Levi è simile a quella di tante persone che di lì a breve saranno costrette a fuggire per questioni politiche o per reati di opinione. Nel lessico di Ginzburg vi è la traccia personale attraverso cui la narratrice racconta le vicende di una generazione che scappa dall’imminente catastrofe della guerra. Gli eventi personali, raccolti in frammenti, sono micro-vicende di una storia che intreccia il privato con le sorti della nazione.
La storia di Mario Levi e il racconto di Ginzburg evocano una strana sensazione di esaltazione e leggerezza per un gesto tanto coraggioso quanto incosciente. Una struggente disperazione che mi ricorda la condizione di sradicamento in cui nasce e cresce la vicenda artistica e personale di Jonas Mekas.2 Un girovagare che inizia nel 1944 anno in cui con il fratello Adolfas, lascia la Lituania per fuggire alla persecuzione stalinista – i due erano stati identificati come sovversivi per aver partecipato alla stesura di un giornale anti-regime. All’epoca dei fatti Jonas era un giovane poeta in fuga che, prima di arrivare negli Stati Uniti, dovette nascondersi dal conflitto rifugiandosi in una fattoria tedesca al confine con la Danimarca e poi provare la prigionia nei centri di detenzione per immigrati di Wiesbaden e Mattenberg nella città di Kassel. In quegli anni, in attesa di essere smistati come displaced person3 all’interno dei programmi migratori dell’International Refugee Organization (IRO), Jonas sogna di ritornare alla realtà esercitando la facoltà della memoria e l’immagine del ricordo.4 Qualcosa che una volta a New York nel 1949, a conclusione materiale di quel viaggio accidentato, Mekas inizia a fare guardando a ritroso nei suoi appunti mentali. Il primo periodo da uomo libero Mekas lo passa nell’incapacità di elaborare nulla se non un grande senso di nostalgia e una ricostruzione tran-storica del tempo perduto.5 Prima che inizi a sentire la necessità biologica e costante a filmare passa del tempo, un percorso simile a quello da lui stesso descritto in A Walk (1990) in cui un uomo ossessionato da una melodia sentita anni e anni addietro, riesce a trovarla solo dopo averla cercata insistentemente. Il primo passo verso il Mekas autore prolifico e padre della nuova cinematografia underground, viene da un’elaborazione problematica del passato e passa attraverso l’acquisto della prima Bolex 16 mm nel 1950. Questo avvenimento produce una conseguente trasformazione radicale e le pagine dattiloscritte divengono diari filmati.6

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Jonas Mekas, “All These Images, These Sounds”. Veduta dell’istallazione presso APALAZZO Gallery, Brescia, 2015. Courtesy APALAZZO Gallery, Brescia e Francesco Urbano Ragazzi.
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Jonas Mekas, Let me dream utopia. Veduta dell’istallazione presso Rupert, Vilnius, 2019, Fotografia di Andrej Vasilenko. Courtesy Rupert, Vilnius.
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Jonas Mekas, Let me dream utopia. Veduta dell’istallazione presso Rupert, Vilnius, 2019, Fotografia di Andrej Vasilenko. Courtesy Rupert, Vilnius.
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Jonas Mekas, Let me dream utopia. Veduta dell’istallazione presso Rupert, Vilnius, 2019, Fotografia di Andrej Vasilenko. Courtesy Rupert, Vilnius.
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Jonas Mekas, Let me dream utopia. Veduta dell’istallazione presso Rupert, Vilnius, 2019, Fotografia di Andrej Vasilenko. Courtesy Rupert, Vilnius.
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Jonas Mekas, Let me dream utopia. Veduta dell’istallazione presso Rupert, Vilnius, 2019, Fotografia di Andrej Vasilenko. Courtesy Rupert, Vilnius.
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Jonas Mekas, Let me dream utopia. Veduta dell’istallazione presso Rupert, Vilnius, 2019, Fotografia di Andrej Vasilenko. Courtesy Rupert, Vilnius.

Da quel momento in poi Mekas inizia entusiasticamente a far crescere il suo personalissimo microcosmo, a coltivare l’attitudine a selezionare le tracce del tempo che scorre nella sua macchina da presa e successivamente nella sua videocamera. I frammenti di girato che costituiscono il corpo della maggior parte dei suoi lavori, sono particelle gioiose e malinconiche che implicitamente richiamano il passato delle giornate trascorse in fuga. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, Mekas abbraccia l’avanguardia e perde definitivamente interesse in quello che credeva essere il cinema “vero”, il sogno hollywoodiano che negli anni di prigionia era divenuto anche il suo.7
Dalle pagine di Film Culture, rivista fondata insieme al fratello Adolfas, Jonas, dopo un’iniziale scetticismo, inneggia alla nuova generazione sperimentale di autori indipendenti8 che trovano casa nella Film-Makers Cooperative.9
Siamo in anni in cui la cinematografia underground sta crescendo trasversalmente, in una stagione in cui la derubricazione di forme codificate di produzione artistica e la liberazione da canoni di media-specificità, produce pratiche ibride e performative. Il cinema risultante dall’incontro con Fluxus è, infatti, un esercizio libero e incondizionato, intermediale e sperimentale, come nel primo vero riconoscimento al lavoro di Mekas che arriva con l’adattamento cinematografico della piéce del Living Theater The Brig (1964), premiato con il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia nel 1964. Il cammino intrapreso da Mekas non può che compiersi fuori dai canoni istituzionali, il suo pensiero sul cinema acquisisce forma in una crisi auto-generativa che premia un linguaggio aperto e docile, disponibile ai contributi e agli accadimenti dell’epoca. La sua forma diaristica per esempio, è un porto accogliente in cui la molteplicità delle visioni e l’accumulo delle opinioni, contribuisce alla definizione antigerarchica dei soggetti che agiscono e degli eventi che scorrono. Come nel 1975 quando Mekas finalmente finisce di montare Lost Lost Lost – la lavorazione di questo secondo diary film10 dopo Walden (1968) era iniziata anni prima – in cui l’osservazione della comunità Lituana a New York si intreccia con la sua propria ridefinizione personale. Nei lavori diaristici vi è il completamento definitivo di una trasformazione fatta di frammenti, in cui le immagini danzano schizofreniche di fronte agli spettatori.

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Jonas Mekas, In an Instant It All Came Back to Me (a 1-166), 2015. Stampa su vetro trasparente, 100 × 56 cm. Courtesy l’artista e APALAZZOGALLERY, Brescia e Francesco Urbano Ragazzi.
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Jonas Mekas, In an Instant It All Came Back to Me (a 1-166), 2015. Stampa su vetro trasparente, 100 × 56 cm. Courtesy l’artista e APALAZZOGALLERY, Brescia e Francesco Urbano Ragazzi.

Non è paradossale quindi, se è da questa frammentarietà anti-narrativa – lessico specifico di una nuova cinematografia radicale – che si sviluppa l’universo autoriale e cinematico di Mekas. Una narrazione politico-personale fatta di azioni significanti e gesti minimi che diventano strumenti tattici a discapito della loro fragilità. Un processo simile a quello del racconto di Ginzburg che traccia i contorni dell’oppressione fascista a partire dalla prospettiva parziale del dispositivo familiare. Mekas affida all’atomizzazione compositiva del suo cinema il ruolo di rovesciare lo status quo, anticipando alcuni dei sintomi mediatici della contemporaneità globalizzata. La crescita ipertrofica del cinema espanso inizia, secondo Mekas, con l’estensione delle facoltà dell’occhio dell’artista contemporaneo che sta costruendo le basi per un nuovo modo di vedere: una percezione non necessariamente pratica e funzionale, né esclusivamente ottica. L’Expanding Eyespinge il visibile oltre i limiti di quanto sia consentito biologicamente ai recettori sensoriali, qualcosa in grado di imitare e riproporre l’alterazione chimica dell’assunzione di droghe psicoattive come LSD.11 Il lavoro di Mekas va oltre la semplice riflessione interna al prodotto film, diventando una sorta di ecologia politica basata su estensioni mediatiche. L’insieme sistemico delle sue azioni e riflessioni sul cinema, come la nascita di una rivista, di una casa di produzione e di un’idea stessa di produzione e distribuzione,12 contribuiscono a ripensare il modo in cui le immagini in movimento possono occupare gli spazi del paesaggio visivo, sia pubblico che privato.

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Jonas Mekas, To New York With Love, 2009. Courtesy l’artista e APALAZZOGALLERY, Brescia e Francesco Urbano Ragazzi.
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Jonas Mekas, To New York With Love, 2009. Courtesy l’artista e APALAZZOGALLERY, Brescia e Francesco Urbano Ragazzi.
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Jonas Mekas, To New York With Love, 2009. Courtesy l’artista e APALAZZOGALLERY, Brescia e Francesco Urbano Ragazzi.

Ogni scelta di Mekas, dal produrre film low-budget a creare una distribuzione nomade e alternativa a quella hollywoodiana, devono essere inquadrate come atti di distruzione della prospettiva capitalistica sulla produzione culturale. Lo scopo è quello di fare saltare il banco dell’arte ufficiale e sostituire quelli che sono i suoi valori assoggettati al capitalismo con alternative non disposte ad alcuna forma di compromesso. Oggi, a un anno dalla sua scomparsa, rileggere la sua storia è come osservare tra le righe della sua biografia, un prontuario continuo di strategie di media resistenza. Qualcosa che è genuinamente e poeticamente in opposizione rispetto al pantano del monoteismo capitalistico-artistico. Qualcosa che resta un modello politico e che mi fa pensare che alla fine di tutto Mekas abbia raggiunto il suo obiettivo, ovvero ritornare alla realtà senza nostalgia, sapendo, come ha saputo, ripensare all’assillo delle cose e iniziando, come ha fatto, a rinunciare all’impassibilità delle aspettative per abbracciare il piacere del rischio.

VINCENZO ESTREMO è PHD in Studi Audiovisivi (Università di Udine e Kunstuneversität Linz). Ha pubblicato diversi saggi e interventi scientifici su riviste specializzate, ha co-curato i libri Extended Temporalities. Transient Visions in Museum and Art (2016) e Albert Serra, cinema arte e perfomance (2018) mentre nel 2020 è in programma la pubblicazione della sua prima monografia. Una sua raccolta di racconti Omero e Altri Uomini illustri (2009) ha vinto il premio ICEBERG giovani artisti. Dirige il magazine online in lingua inglese Droste Effect e collabora regolarmente con Flash Art Italia. È docente di Curatela dell’immagine in movimento presso NABA, Milano.

1 Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, Torino, Einaudi, 2014, p. 85.
2 Nei diari dell’esilio, Jonas Mekas racconta ripetutamente di non aver scelto di lasciare la propria casa, ma di non aver avuto altre possibilità. I diari di quegli anni, scritti in lituano, sono stati pubblicati in inglese nel 1991. Jonas Mekas, I Had Nowhere to Go, Black Thistle Press, New York, 1991, p. 197.
3 Il termine displaced person è il modo con cui lo stesso Mekas identifica se stesso a seguito della scelta di rifiutare a conflitto mondiale terminato, il rimpatrio nella Lituania occupata dal regime stalinista e accettare il programma di migrazione coatta del IRO. Jonas Mekas, The Diary Film, in P. Adams Sitney (a cura di), The Avant-Guarde Film. A Reader of Theory and Criticism, New York University Press, New York, 1978.
4 Mi riferisco in questo caso al processo di rifigurazione mnemonica descritto da Paul Ricoeur che, parlando di memoria e storia, sostiene che un’immagine ha la capacità di mostrare ciò che è stato, ma che non è più, evocando di conseguenza un ricordo. Per Ricoeur il ricordo viene a mente così come un’immagine per poi essere legittimato dalla capacità/possibilità di riconoscimento da parte di chi vi assiste (spettatore). P. Ricoeur, La memoria dopo la storia, Università di Roma 3, Roma, 2003. p. 3.
5 Pur con le dovute eccezioni, si potrebbe utilizzare una delle due definizioni di nostalgia elaborate da Svetlana Boym e definire restorative il sentimento provato da Mekas in quegli anni. Ovvero, un senso di mancanza imperniato etimologicamente sulla nozione greca di nostos (ritorno a casa) che insieme ad algos contribuisce a determinare il significato del termine composito nostalgia. L’uso del termine si fa risalire, non a caso, al trattamento di alcuni disturbi comportamentali nei mercenari svizzeri impegnati nelle campagne militari di Luigi XIV. Si veda Svetlana Boym, The Future of Nostalgia, Basic Book, New York, 2002, pp. 5-6 e Carolyn Kiser Anspach, Bulletin of the History of Medicine, vol. II n. 6, Aug. 1934, pp. 376-391.
6 Giulia Simi, Jonas Mekas: pratiche di spostamento dai diari scritti ai diari filmati, in “Arabeschi” n.1 gennaio-giugno, 2013.
7 Jonas Mekas, I Had Nowhere to Go, cit. pp.429.
8 Il primo articolo che Jonas Mekas dedica all’avanguardia dei nuovi cineasti americani è una colossale stroncatura. Stando a quanto sostiene Mekas, il cinema underground bada solo a documentare lo stile di vita dissoluto degli stessi cineasti apparendo sostanzialmente superficiale e senza contenuti. Id., The experimental Film in America, in “Film Culture”, No. 3, 1955, pp. 15-18.
9 Nel 1962 Jonas Mekas, Shirley Clarke e Stan Brakhage fondano la Film-Makers Cooperative con l’intento di produrre e distribuire film d’avanguardia e sperimentali.
10 La differenza sostanziale tra “film diary” e “diary film” sta nel fatto che mentre nei primi gli eventi personali dell’autore vengono ripresi estemporaneamente, nel secondo caso vi è una relazione tra le parti filmate e la vita di Mekas. Per una definizione più approfondita si veda: David E. James, Film Diario / Diario Film: pratica e prodotto in Walden di Jonas Mekas in B. Northover (a cura di), Jonas Mekas, Catalogo della mostra (Lucca, Fondazione Ragghianti, 11 ottobre – 2 novembre 2008), Fondazione Ragghianti, Lucca, 2008; Jonas Mekas, The Diary Film in P. Adams Sitney (a cura di), The Avant-Guarde Film. A Reader of Theory and Criticism, cit.
11 Id, On the Expanding Eye, in “Village Voice”, 6 Feb 1964.
12 Oltre ai già citati esempi del magazine Film Culture e della casa di produzione e distribuzione Film-Makers Cooperative, è da annoverare lo sforzo di Jonas Mekas nell’istituzione dell’Anthology Film Archive nata nel 1970 come evoluzione naturale della casa di produzione e primo grande centro di riferimento per l’esposizione indipendente del film e dell’immagine in movimento.

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