C’è un brano di Lessico Famigliare (1963) in cui Natalia Ginzburg racconta della perquisizione alla dogana italo-svizzera subita dal fratello Mario in cui i doganieri trovano nell’auto degli opuscoli antifascisti. Ginzburg descrive la scena dicendo: “Mario e il suo amico erano stati fatti scendere, e le guardie li stavano accompagnando al posto di polizia; e passavano lungo il fiume. Mario d’un tratto s’è svincolato, s’era buttato nel fiume vestito com’era”.1 Il brano si riferisce a un evento accaduto l’11 marzo del 1934, quando Mario Levi, fratello di Natalia, viene fermato con Sion Segre alla frontiera di Ponte Tresa, riuscendo poi a fuggire per raggiungere a nuoto la sponda elvetica del lago di Lugano. La seconda guerra mondiale non è ancora scoppiata ma il destino di Mario Levi è simile a quella di tante persone che di lì a breve saranno costrette a fuggire per questioni politiche o per reati di opinione. Nel lessico di Ginzburg vi è la traccia personale attraverso cui la narratrice racconta le vicende di una generazione che scappa dall’imminente catastrofe della guerra. Gli eventi personali, raccolti in frammenti, sono micro-vicende di una storia che intreccia il privato con le sorti della nazione.
La storia di Mario Levi e il racconto di Ginzburg evocano una strana sensazione di esaltazione e leggerezza per un gesto tanto coraggioso quanto incosciente. Una struggente disperazione che mi ricorda la condizione di sradicamento in cui nasce e cresce la vicenda artistica e personale di Jonas Mekas.2 Un girovagare che inizia nel 1944 anno in cui con il fratello Adolfas, lascia la Lituania per fuggire alla persecuzione stalinista – i due erano stati identificati come sovversivi per aver partecipato alla stesura di un giornale anti-regime. All’epoca dei fatti Jonas era un giovane poeta in fuga che, prima di arrivare negli Stati Uniti, dovette nascondersi dal conflitto rifugiandosi in una fattoria tedesca al confine con la Danimarca e poi provare la prigionia nei centri di detenzione per immigrati di Wiesbaden e Mattenberg nella città di Kassel. In quegli anni, in attesa di essere smistati come displaced person3 all’interno dei programmi migratori dell’International Refugee Organization (IRO), Jonas sogna di ritornare alla realtà esercitando la facoltà della memoria e l’immagine del ricordo.4 Qualcosa che una volta a New York nel 1949, a conclusione materiale di quel viaggio accidentato, Mekas inizia a fare guardando a ritroso nei suoi appunti mentali. Il primo periodo da uomo libero Mekas lo passa nell’incapacità di elaborare nulla se non un grande senso di nostalgia e una ricostruzione tran-storica del tempo perduto.5 Prima che inizi a sentire la necessità biologica e costante a filmare passa del tempo, un percorso simile a quello da lui stesso descritto in A Walk (1990) in cui un uomo ossessionato da una melodia sentita anni e anni addietro, riesce a trovarla solo dopo averla cercata insistentemente. Il primo passo verso il Mekas autore prolifico e padre della nuova cinematografia underground, viene da un’elaborazione problematica del passato e passa attraverso l’acquisto della prima Bolex 16 mm nel 1950. Questo avvenimento produce una conseguente trasformazione radicale e le pagine dattiloscritte divengono diari filmati.6
Da quel momento in poi Mekas inizia entusiasticamente a far crescere il suo personalissimo microcosmo, a coltivare l’attitudine a selezionare le tracce del tempo che scorre nella sua macchina da presa e successivamente nella sua videocamera. I frammenti di girato che costituiscono il corpo della maggior parte dei suoi lavori, sono particelle gioiose e malinconiche che implicitamente richiamano il passato delle giornate trascorse in fuga. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, Mekas abbraccia l’avanguardia e perde definitivamente interesse in quello che credeva essere il cinema “vero”, il sogno hollywoodiano che negli anni di prigionia era divenuto anche il suo.7
Dalle pagine di Film Culture, rivista fondata insieme al fratello Adolfas, Jonas, dopo un’iniziale scetticismo, inneggia alla nuova generazione sperimentale di autori indipendenti8 che trovano casa nella Film-Makers Cooperative.9
Siamo in anni in cui la cinematografia underground sta crescendo trasversalmente, in una stagione in cui la derubricazione di forme codificate di produzione artistica e la liberazione da canoni di media-specificità, produce pratiche ibride e performative. Il cinema risultante dall’incontro con Fluxus è, infatti, un esercizio libero e incondizionato, intermediale e sperimentale, come nel primo vero riconoscimento al lavoro di Mekas che arriva con l’adattamento cinematografico della piéce del Living Theater The Brig (1964), premiato con il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia nel 1964. Il cammino intrapreso da Mekas non può che compiersi fuori dai canoni istituzionali, il suo pensiero sul cinema acquisisce forma in una crisi auto-generativa che premia un linguaggio aperto e docile, disponibile ai contributi e agli accadimenti dell’epoca. La sua forma diaristica per esempio, è un porto accogliente in cui la molteplicità delle visioni e l’accumulo delle opinioni, contribuisce alla definizione antigerarchica dei soggetti che agiscono e degli eventi che scorrono. Come nel 1975 quando Mekas finalmente finisce di montare Lost Lost Lost – la lavorazione di questo secondo diary film10 dopo Walden (1968) era iniziata anni prima – in cui l’osservazione della comunità Lituana a New York si intreccia con la sua propria ridefinizione personale. Nei lavori diaristici vi è il completamento definitivo di una trasformazione fatta di frammenti, in cui le immagini danzano schizofreniche di fronte agli spettatori.
Non è paradossale quindi, se è da questa frammentarietà anti-narrativa – lessico specifico di una nuova cinematografia radicale – che si sviluppa l’universo autoriale e cinematico di Mekas. Una narrazione politico-personale fatta di azioni significanti e gesti minimi che diventano strumenti tattici a discapito della loro fragilità. Un processo simile a quello del racconto di Ginzburg che traccia i contorni dell’oppressione fascista a partire dalla prospettiva parziale del dispositivo familiare. Mekas affida all’atomizzazione compositiva del suo cinema il ruolo di rovesciare lo status quo, anticipando alcuni dei sintomi mediatici della contemporaneità globalizzata. La crescita ipertrofica del cinema espanso inizia, secondo Mekas, con l’estensione delle facoltà dell’occhio dell’artista contemporaneo che sta costruendo le basi per un nuovo modo di vedere: una percezione non necessariamente pratica e funzionale, né esclusivamente ottica. L’Expanding Eyespinge il visibile oltre i limiti di quanto sia consentito biologicamente ai recettori sensoriali, qualcosa in grado di imitare e riproporre l’alterazione chimica dell’assunzione di droghe psicoattive come LSD.11 Il lavoro di Mekas va oltre la semplice riflessione interna al prodotto film, diventando una sorta di ecologia politica basata su estensioni mediatiche. L’insieme sistemico delle sue azioni e riflessioni sul cinema, come la nascita di una rivista, di una casa di produzione e di un’idea stessa di produzione e distribuzione,12 contribuiscono a ripensare il modo in cui le immagini in movimento possono occupare gli spazi del paesaggio visivo, sia pubblico che privato.
Ogni scelta di Mekas, dal produrre film low-budget a creare una distribuzione nomade e alternativa a quella hollywoodiana, devono essere inquadrate come atti di distruzione della prospettiva capitalistica sulla produzione culturale. Lo scopo è quello di fare saltare il banco dell’arte ufficiale e sostituire quelli che sono i suoi valori assoggettati al capitalismo con alternative non disposte ad alcuna forma di compromesso. Oggi, a un anno dalla sua scomparsa, rileggere la sua storia è come osservare tra le righe della sua biografia, un prontuario continuo di strategie di media resistenza. Qualcosa che è genuinamente e poeticamente in opposizione rispetto al pantano del monoteismo capitalistico-artistico. Qualcosa che resta un modello politico e che mi fa pensare che alla fine di tutto Mekas abbia raggiunto il suo obiettivo, ovvero ritornare alla realtà senza nostalgia, sapendo, come ha saputo, ripensare all’assillo delle cose e iniziando, come ha fatto, a rinunciare all’impassibilità delle aspettative per abbracciare il piacere del rischio.