Douglas Fogle: Per quanto riguarda i materassi…
Kaari Upson: Li ho visti come un intervallo, un progetto tra due azioni molto importanti, un momento di riflessione. Sapevo che stavo abbandonando il progetto Larry per svariate ragioni. Ho trascorso così tanto tempo in uno spazio distrutto, lavorando proprio a partire da esso. C’era qualcosa di artefatto, così è stato lì che mi sono fermata. La serie di materassi derivava da un materasso presente nella mostra da Carlson nel 2012. Il materasso di latex continua ad affiorare nella mia mente come qualcosa di slegato. In origine il materasso era il frammento di un’intera stanza di latex che avevo realizzato. Solo dopo aver cominciato il lavoro lo concepii come una logica estensione delle mie precedenti inquietudini — un altro oggetto abbandonato che portava con sé le persone e gli eventi che aveva attraversato e superato. È stato realizzato a partire dalla memoria e da uno scatto che ho fatto nella casa di Larry prima che bruciasse. L’installazione era un calco in latex del suo spazio domestico che comprendeva frammenti e ferite aperte, come una pelle o un pezzo di carne. Era un’opera che poteva essere installata in molteplici forme.
DF: Puoi prenderla e manipolarla e riassemblarne gli elementi.
KU: Esattamente, e così come la maggior parte delle mie installazioni più grandi, esse si possono trasformare, essere rotte, aperte, piegate e collassate. Dovrebbero cambiare ogni volta che vengono installate. Questa mutevolezza costante è un fattore importante in tutto il mio lavoro. I materassi erano liberi di fluttuare, slegati dalle installazioni più grandi. Da Carlson ho deciso di appenderne uno al muro, e aveva questa sensazione fisica.
DF: Lo hai appeso al muro?
KU: Sì, l’abbiamo appeso al muro. Era completamente sgonfio, un peso morto.
DF: I materassi successivi sono incredibilmente antropomorfi. Naturalmente un materasso è della misura di un corpo. Uno pensa all’immagine famosa del letto con le coperte di Felix Gonzales-Torres e l’impronta dei corpi che non sono più lì. Per questo il tuo uso dei materassi acquista molto senso per me.
KU: Queste idee erano già presenti in lavori precedenti, anche nei dipinti di fumo (2009-12) e nelle tavole di carbone (2010-12), che avevano la traccia del mio corpo ottenuta su di essi attraverso un procedimento sperimentale di imprimitura. Le tavolette di carbone avevano un processo molto simile di lavorazione inconsapevole, dove ho fatto impronte basate su movimenti fisici che avevo sviluppato in un lavoro precedente, Four Corners, che ho cominciato nel 2011 e sul quale ho lavorato per un anno. In quel lavoro stavo rompendo la matrice di carbone, che era parte di un altro precedente lavoro…
DF: Una performance, dunque.
KU: Una performance, sì, ma privata, nel mio studio.
DF: Un rituale terapeutico?
KU: Il corpo di carbone che ho usato nella performance pesava come un corpo reale se non di più. Quando in origine feci queste sculture, le realizzai in modo che potessero essere distrutte o cancellate. Ho cominciato a pensare “Quando è fatta, è fatta?”.
DF: Potevano essere raschiate o erose?
KU: Volevo trasformare una scultura in un disegno e poi in polvere. E dato che avevo un peso su di esso, ero limitata nel procedimento. Il mio corpo non riusciva a sollevare troppo peso. Ho cominciato a realizzare che i miei gesti, che il gesto di sollevare 102 kili e cercare di romperlo, cominciava a dare vita ad azioni ripetitive. Ciò che era interessante era che il contenitore stesso non era importante come la scultura. Poteva dividersi e assemblarsi in modi diversi, ma ciò che io ho imparato in quello spazio era che quei gesti cominciavano a dare vita a un loro linguaggio. Ho cercato di trascriverli direttamente sulle tavolette di carbone.
DF: Era come una sorta di coreografia organica con i tuoi disegni che diventavano fisici, tridimensionali o in carne e ossa? Il medium dei tuoi disegni era il carbone, ma poi esso è diventato un oggetto. Stai capovolgendo il progetto in un modo interessante. È simile ai coreografi che disegnano i movimenti sul pavimento. Mi ricordano i “Dance diagram paintings” di Warhol.
KU: Anche Joan Jonas ha avuto una grande influenza. Anche Robert Wilson.
DF: O le prime performance video di Bruce Nauman nel suo studio, come Slow Angle (Beckett Walk) (1968) o Bouncing in the corner no.1 (1968). Stai cercando movimenti o modelli?
KU: I cacciatori fanno questo ogni volta. È l’idea su cui ti concentri, in modo da catturarla nell’intero campo visivo. Ho sempre pensato che se indietreggi dal tuo soggetto quello che normalmente non avresti visto sarebbe stato colto. E piuttosto di analizzare troppo il fatto che non c’era quasi niente, ho solo estratto quello che stava realmente accadendo, che era solo un gesto dopo l’altro. E ho pensato a come l’avrei potuto registrare. Il modo in cui mi sono dilungata è stato usando un materiale molto simile alla scultura attuale stessa che era stata distrutta.
DF: Carbone?
KU: Sì, ma in un modo diverso rispetto alle sculture di corpi in carbone. Volevo catturare un movimento in maniera statica, come una fotografia. È ancora carbone, ma ho cambiato il collante in qualcosa che si sarebbe solidificato, quasi come il gesso. Ho dovuto lavorare con un procedimento di modellatura molto insolito per realizzare la sagoma. Il gesto doveva essere fatto su questi letti. Questa superficie morbida con un sottile strato di alluminio a coperta come un lenzuolo potrebbe ricordare il movimento, il tocco e il gesto. Poi l’alluminio sarebbe stato rimosso e avrebbe rivelato il documento di carbone solidificato. Lo stampo sarebbe stato distrutto in questo processo, così erano tutti di un unico genere.
DF: Come corpus di transizione del tuo lavoro, ma già corpus di per se stesso, i materassi diventano un’estensione logica, in un certo senso. A proposito del carbone, ho cominciato a pensare al fuoco in casa.
KU: Assolutamente. Le travi annerite che ho estratto precedentemente erano travi reali di una vera casa.
DF: Stavi realizzando la tua personale archeologia.
KU: La mia prima installazione è stata a scuola, dove ho messo due di queste travi una sull’altra. Sembravano dei corpi. Questa cosa è ritornata anni dopo nella mia installazione da Maccarone dove ho collocato due corpi di carbone uno sull’altro. Ma questi erano derivati da un lungo processo che prevedeva la colata di una bambola morbida con cui avevo lavorato in precedenza.
DF: Il carbone è uno degli strumenti di disegno più primitivi. Bruci qualcosa ma poi puoi farci un’impronta con esso, un’impronta umana per esempio. C’è un aspetto effimero in questo processo, ma tu lo congeli con l’agente collante. Nella mia mente, disegnare è chiaramente la base fondamentale che c’è dietro ogni lavoro.
KU: Nel mio studio, una volta hai parlato dei miei disegni come la mente inconsapevole delle sculture. I disegni sono il principio, il centro e la fine di ogni progetto. È una traccia, è come io ricordo. È come io colloco me stessa. Imparo di più attraverso questo processo che da nessuna altra cosa. Posso fornirti così tanti esempi di cose che sono venute dai disegni. Come quando ho cominciato a pensare di ricostruire la casa che non esiste più. E nonostante tutti i vuoti tra le informazioni che avevo, ho sempre saputo che stavo per arrivare alla fine e che avrei dovuto affrontare la casa come soggetto. A quel punto non c’era un elemento umano lasciato nella casa che era stata bruciata diversi anni prima. Dopo che è stata rasa al suolo, ho cercato di ottenere i progetti originali, ma per alcuni motivi non c’erano progetti di questa casa. Sono andato sul luogo e non ho trovato nulla. Mi sono seduta a terra e ho cominciato a rendermi conto che era lì.
DF: Un po’ come l’antropologia forense o l’archeologia, con il loro rigore scientifico, ma c’è qualcosa di ugualmente incerto nel tuo lavoro. C’è qualcosa di bellissimo che ha a che fare con la flessibilità, l’imprevedibilità e l’assenza di tecnica.
KU: Sì, i nuovi materassi si percepivano completamente in questo modo. Erano così fisicamente impegnativi da fare e dovevo lavorare ciecamente perché sono riversati in uno stampo. Ho realizzato questi colando materassi scartati trovati nelle strade di Los Angeles. Mi interessano molto le cuciture dei materassi e i tessuti, che sono fatti per camuffare i fluidi corporei di anni di vita.
DF: E sono anche figurativi nel senso che sono ritratti di soggetti sconosciuti che una volta li abitavano.
KU: Sono sorprendenti. Non ho mai lavorato su qualcosa di unico come questo. Io lavoro in direzioni multiple generalmente, e in ogni media che meglio si adatta all’idea. Quando sono nati i materassi, ho pensato che per realizzarli correttamente, essi avevano bisogno della mia piena attenzione.
DF: È un letto.
KU: È una culla. È un letto. Anche quando abbiamo preso il letto matrimoniale, non abbiamo mai preso una misura monumentale. È la parte della casa più privata della nostra vita.
DF: A cosa pensi quando guardi le sculture colate di Lynda Benglis? Esse sono anche incredibilmente radicate nel tempo. Funzionando come pittura, ma funzionano anche come anti-pittura. Vorrei dire lo stesso sui tuoi dipinti di fumo e i letti. Sono dipinti con altri significati. È un’altra risposta alla morte della pittura, perché la pittura non è morta, e noi continuiamo a dipingere. È molto alla Samuel Beckett. Non posso andare avanti, devo andare avanti.
KU: Anche provare. Anche sbagliare. Non importa. Prova ancora. Sbaglia ancora. Sbaglia meglio.
DF: È questa la magia, vero?