Anni Novanta. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica e il conseguente caos derivatovi, a Tiblisi, capitale della Georgia, cominciano a comparire — in barba a qualsiasi norma edilizia — le logge, estensioni di edifici preesistenti costruite al fine di ampliare lo spazio abitativo. Pare che l’origine di tali edifici vada rintracciata nel passato, addirittura nel Medio Evo, quando queste peculiari costruzioni in legno venivano edificate sui pendii delle montagne.
Biennale di Venezia, 2013. Camminando per l’Arsenale ci imbattiamo in una struttura di legno che si estende a partire da un preesistente edificio, una palafitta conficcata nel fango di quei piovosi giorni dell’inaugurazione. Questo singolare padiglione è stato disegnato dall’artista Gio Sumbadze, fondatore del collettivo Urban Reasearch Lab (URL), che documenta il rapporto tra le infrastrutture sovietiche e declino dell’ideologia marxista. Esempio di architettura parassitaria, emblema dell’abusivismo degli anni bui dell’era post-sovietica (bui non solo in senso metaforico, dato che nel Paese fu drasticamente ridotta l’energia elettrica), ironico modello di un’urbanistica fai-da-te, a cavallo tra passato — nostalgico? — e futuro: “Kamikaze Loggia” pare avere, nella sua stessa dicitura, in sé il buono (l’idea di un’abitazione, di un rifugio) e il cattivo (la parola kamikaze evoca il suicidio, non per ragioni esistenziali ma politico-ideologiche).
Joanna Warza, curatrice attenta agli sviluppi socio-politici attuali e alle urgenze del pubblico, ha riunito nella “Kamikaze Loggia” Bouillon Group, Thea Djordjadze, Nikoloz Lutidze, Gela Patashuri con Ei Arakawa e
Sergei Tcherepnin, e Gio Sumbadze. Ovvero, ha riunito elementi architettonici, installazione, performance, poesia e sound art in una prospettiva volutamente eterogenea come la molteplicità religiosa e culturale della Georgia. Molteplicità ben rappresentata dal collettivo Boullion Group che in Religious Aerobics riflette sulla “maccanicità” praticata dalla società contemporanea attraverso una performance che converte i gesti delle tre principali religioni monoteiste diffuse in Georgia — islamismo, cristianesimo ed ebraismo — in esercizi aerobici reiterati come un mantra. Si scherza sull’ossessione della forma perfetta, certo, ma anche sull’avvento di una spiccata religiosità georgiana come reazione all’era sovietica, quando la religione era un tabù. Thea Djordjadze odia la solitudine. Per questo utilizza elementi (di acciaio, poliuretano espanso, vetro) che si collocano nello spazio come singole parole di un discorso da fare. Un discorso che è concreto e astratto allo stesso tempo, perché ciò che vediamo non sono solo cornici in metallo, bottiglie di vetro e pezzi di stoffa, ma anche atmosfere che appartengono a luoghi rarefatti, senza nome.
Nikoloz Lutidze, performer, presenta Euroremont — un neologismo che indica le ristrutturazioni, su modello europeo, delle case oltre la cortina di ferro — che consiste in collage fotografici, scontrini, appunti e calcoli a documentare il progetto di conversione di uno spazio da sovietico in europeo, quindi democratico e moderno. Gela Patashuri, Eli Akarawa e Sergei Tcherepnin si conoscono da tempo e hanno precedentemente lavorato assieme. In questa occasione interpretano una composizione musicale utilizzando i 277 poemi musicali che il padre di Patashuri ha scritto dal 1978 al 2003, anno della sua morte. Qui la poesia si trasforma in voce per raccontare i cambiamenti politici e sociali del paese e diventa una serie di canzoni trasmesse da sculture-autoradio.
Il Padiglione della Georgia riflette sulla volontà di costruire e di auto-distruggersi, la ricerca di uno spazio vitale per creare e al contempo smantellare, l’annullamento e svuotamento del senso della religione e l’ossessione per qualcosa che è vicino eppure lontano, al di là del muro, in Occidente. E ora, dopo la fine di tutto, realizziamo che Stalin non è morto. Sta solo dormendo.