Paola Noè: Mi piacerebbe iniziare a parlare dalla sensazione che noi spettatori proviamo davanti, o dentro, al tuo lavoro. Penso che il primo impatto sia sentire la fragilità dei tuoi oggetti: si tratta di oggetti da guardare con cura. Sembrano provvisori e ci si potrebbe chiedere: “Quanto possono durare?”. Che cosa ne pensi?
Karla Black: La fragilità dei lavori non è intenzionale ma proprio un loro modo di essere che non si può controllare. Dipende dalle qualità materiali, dalle forme estetiche, dalle composizioni che voglio ottenere. Dato che cerco la vita e la freschezza di materiali in grado di conservare la loro malleabilità nel risultato finale, i lavori sono necessariamente fragili.
PN: Che rapporto c’è tra la scultura e la dimensione della durata, la dimensione del tempo?
KB: Uso tutto il tempo di cui ho bisogno per fare una scultura il più possibile perfetta e, idealmente, la scultura rimarrebbe per sempre in quella determinata forma, in quella composizione, con quel colore che ho scelto e prestabilito. Dal momento che però tutto questo non è possibile, dato che tutto decade, finisce — alcune cose prima di altre —, posso soltanto tentare di preservare al meglio le mie opere per il futuro senza interferire con la loro essenza. Per esempio voglio sì preservare il più possibile le sculture nelle loro forme e nei loro colori originali ma non voglio assolutamente metterle sotto teche di vetro — che sarebbero comunque la soluzione migliore per la loro conservazione — perché sarebbero in ogni caso già morte. È un doppio vincolo.
PN: Utilizzando materiali familiari, prodotti cosmetici, come creme per il viso, ciprie, gel per capelli, carta igienica, smalto per unghie, stracci, farina… dimostri un forte legame con la condizione domestica della vita di tutti i giorni. Perché decidi di utilizzare dei materiali e non altri? Come li scegli?
KB: Non direi che i materiali vengono scelti. Faccio solo quello che ho voglia di fare. In questo senso permetto a me stessa di iniziare da un livello che potrei definire di desiderio inconscio. Non ho idea se ci sia qualche significato contenuto in determinati materiali. Quindi, se voglio utilizzare un certo materiale piuttosto che un altro è perché mi piacciono le sue qualità fisiche. Se voglio vedere un determinato colore occupare uno specifico pezzo di spazio, o altro, ecco allora faccio di tutto perché ciò avvenga. La connotazione di consapevolezza viene in un secondo momento e ne tengo conto fino a un certo punto…Solo per decidere di lasciare che essi potrebbero essere presenti nel lavoro finale o no. Quindi sì, decisamente do la priorità all’esperienza del materiale rispetto al linguaggio. Il fare è all’inizio inconscio, solo un’esperienza diretta del mondo fisico, poi il linguaggio viene successivamente, quando la mente conscia realizza a diversi livelli che cosa è che potrebbe accadere in quei termini. Non trovo che i materiali “domestici” come i trucchi, le creme per il corpo siano tanto diversi dalla pittura, dal gesso, dall’argilla, dal lattice o da qualsiasi altro materiale usato tradizionalmente in scultura. Anche loro sono polveri, creme, oli, gel e paste.
PN: Cosa potresti dire del tuo uso sottile del colore nei toni dell’incarnato e dei colori pastello, nelle variazioni del rosa, dell’azzurro chiaro e del beige?
KB: Quello che è importante per me a proposito dei colori di cui tu parli è che essi sono colori “in mezzo” e colori “per un pelo”. Questo perché tutto riguardo al mio lavoro è “in mezzo”. È quasi una pittura, quasi un’installazione, quasi una performance ma alla fine è una scultura, anche se è solo una scultura “per un pelo”.
PN: Pensi che il concetto di informe può funzionare per il tuo lavoro?
KB: In un certo senso sì. Ma la connotazione di “degrado” che la parola informe evoca, non c’entra con il mio lavoro. Non penso che il mio lavoro sia “degradato, abbietto”. Cerco di dare fascino ai materiali attraverso una forma precisa e uno specifico colore. Anche se l’opera non è molto lontana dal gesto sconsiderato, c’è in essa sempre un forte sforzo ossessivo verso il bello. Anche se i materiali spesso rimangono grezzi e approssimativi, non potrei definire il lavoro finale “senza forma”.
PN: Abbiamo parlato della dimensione del tempo. Cosa mi dici della dimensione dello spazio? I tuoi lavori sono sempre interventi site-specific? Qual è il tuo spazio ideale per realizzare un lavoro?
KB: L’opera è sempre determinata dalle condizioni che circondano la sua realizzazione. E queste sono anche la misura e la forma dello spazio nel quale viene fatta, sia esso lo stand di una fiera, un museo, una galleria commerciale, uno spazio gestito da artisti… e le condizioni che ti dicevo riguardano anche come preparare i materiale, se l’opera sarà portata e quali restrizioni tecniche ci potrebbero essere. Non penso ci sia nessun luogo ideale, in un certo senso, è il lavoro che solamente dovrà adattarsi a qualsiasi luogo esso sia. Penso al lavoro come una serie di compromessi o forse a una serie di compromessi e pretese allo stesso tempo, perché mentre il lavoro negozia con quelle difficoltà c’è anche uno sforzo di ribellione contro condizioni e costrizioni. Probabilmente mi piace lavorare in spazi grandi perché la vasta scala è importante per il lavoro nel tentativo di essere ciò che effettivamente è.
PN: Qual è l’importanza dello spazio nel tuo lavoro? Penso che una tua scultura sia totalmente diversa in un posto piuttosto che in un altro… totalmente differente perché in un certo senso è lo spazio che le dà forma…
KB: Sì, certo, per esempio i lavori fatti da polveri sul pavimento sarebbero differenti tutte le volte che vengono realizzati e specialmente se mostrati in luoghi diversi. Devo solo realizzare lavori il più “giusti” possibili esteticamente e formalmente a seconda dello spazio e del tempo che ho a disposizione.
PN: Le tue sculture sono astratte? Penso che tu sia in grado di tramutare il mondo reale in immagini simboliche…
KB: Sì, sono astratte.
PN: Non sei interessata alla figurazione ?
KB: No. Non mi interessa nel mio lavoro. Questo non vuol dire che non mi piace l’arte figurativa e rappresentativa. Anzi. Il mio lavoro però è qualcosa d’altro. Voglio concentrarmi sull’esperienza primaria, fisica, materiale nei confronti del mondo, l’esperienza dell’“essere e del fare”. Voglio cercare che il mio lavoro non sia, quando è possibile, affettato, scontato rispetto a cosa gli altri potrebbero vedere e pensare. Perché quel giudizio può interferire con un piacere completamente senza filtri di essere nel mondo. Per esempio, l’accorgersi improvvisamente di essere guardati, ci fa bloccare sui nostri passi. Non voglio avere nessuna rappresentazione figurativa nel mio lavoro perché voglio che la persona che c’è dentro sia la stessa che lo guarda. E voglio che sia un’esperienza che enfatizzi la relazione tra l’individuo solo e solitario e il mondo fisico.
PN: Qual è il tuo legame con la performance? All’inizio hai fatto alcune performance…alcuni titoli come Now is the time to normalise, Have him be him o Don’t Depend si riferiscono alle performance femministe di Carolee Schneeman e Bobby Baker. Quali sono stati gli artisti-maestri più importanti per la tua ricerca e la tua formazione? Penso che ancora adesso l’aspetto performativo sia molto presente nel tuo lavoro. Le tue sculture comunicano un senso di performance mancata.
KB: I titoli non si riferiscono alle performance femministe. C’è solo un lavoro del 2004, una composizione di vaselina con pittura su vetro dal titolo Including Her Limits che si riferisce alla performance di Carolee Schneemann Up To And Including Her Limits. Durante il mio ultimo anno all’Università nel 1999 e per tutto l’anno successivo, ho fatto poche cose che potrebbero essere chiamate “azioni con materiali”, ma non performance. Si è trattato solo di un momento di sviluppo del mio lavoro. Era in realtà legato a materiali di scarto. Ho deciso quasi subito di staccarmi da quel lavoro perché ho compreso che la sola persona presente nell’opera dovrebbe essere la persona che la guarda. La cosa principale è sempre stata ritardare un materiale a un certo livello e trovare un modo per presentarlo. All’inizio non potevo pensare a un modo per fare questo senza che io fossi parte della presentazione finale, con in mano i materiali. Ma da allora ho trovato altri modi. Amo il lavoro di tanti artisti ma pochi sono i miei preferiti come Carolee Schneemann, Helen Frankenthaler, Robert Smithson, Richard Tuttle, Franz West, Lynda Benglis e Karen Kilimnik.
PN: Come scegli i titoli delle tue sculture? Sono importanti per capire i tuoi interventi?
KB: I titoli sono secondari. Penso che non siano poi così importanti. Sono soltanto un ulteriore livello. Spesso suonano quasi comportamentali, altre volte hanno a che fare con altre persone. Forse per me sono un modo per cercare di risolvere come l’interazione inconscia con il mondo fisico che appare nelle sculture possa essere analizzata in linguaggio o diventare conscia.
PN: Cosa mi dici dell’influsso del femminismo nel tuo lavoro? Penso a titoli come Opportunities for Girls (2006), Pleasers Don’t Decide, Home Rule (2007), Division Isn’t, Division Is, The Opposite of the Body is the World (2008). Cosa è il femminismo per te?
KB: È qualcosa che è molto difficile da spiegare qui. Forse puoi leggere il saggio che ho scritto A Very Important Time For Handbags nel catalogo che è stato pubblicato da Mary Mary lo scorso anno.
PN: Infatti. è proprio perché l’ho letto che mi piaceva parlare di femminismo con te. Magari un’altra volta!