Kerry James Marshall (Stati Uniti, 1955; vive a Chicago) è un artista afro americano noto per una pratica pittorica che mette continuamente in scacco la tradizione storico-artistica occidentale, revisionando la rappresentazione dell’individuo di colore e, al tempo stesso, sfidando l’iconografia della negritudine. In occasione della retrospettiva itinerante “Mastry” – promossa dal Museum of Contemporary Art di Chicago, dal Metropolitan Museum of Art di New York, e dal MOCA di Los Angeles – Marshall, ripercorre la sua esperienza come professore universitario, denunciando le dinamiche razziali all’interno dell’istruzione accademica e portando in luce la difficoltà di sfuggire all’accademismo imperante che inibisce i giovani artisti dallo sviluppare linguaggi propri e “fuori dal coro”.
Helen Molesworth: Sei stato intervistato tante volte e la tua biografia è piuttosto nota alle persone. È inevitabile credo, per una storia come la tua, che si intreccia in modo così straordinario con numerosi avvenimenti culturali, che sia già stato detto tanto, forse tutto. Speravo, quindi, che magari si potesse conversare d’altro.
Ho pensato che avremmo potuto ripercorrere una parte della tua carriera di cui non si parla molto spesso, ovvero il tuo ruolo d’insegnante – com’è stato esserlo e cosa ha significato in relazione alla tua pratica di studio e alla tua concezione dell’arte. Dunque, hai insegnato presso l’Università dell’Illinois.
Kerry James Marshall: A Chicago, presso il Circle Campus, si chiamava così.
HM: Per quanti anni?
KJM: Sono stato assunto nel 1993 e credo di aver trascorso lì circa undici anni prima delle mie dimissioni.
HM: Questo significa che hai superato il tempo di permanenza in carica? Sei diventato quindi un professore di ruolo e tutto ciò che ne consegue?
KJM: Sì, in pratica sono stato professore ordinario. Sono diventato di ruolo nei primi tre anni, poiché mi hanno assunto attraverso quello che chiamavano un contratto di coda. Che cosa significasse esattamente non lo so, posso solo dirti che non ho fatto domanda per un posto di lavoro presso l’UIC. Ho iniziato lì con una sorta di assunzione in sostituzione di Phyllis Bramson, che era via per un anno sabbatico.
Con un contratto di coda si è obbligati a una permanenza di tre anni; è solo dopo quella durata di tempo che si viene esaminati. Ma, invece di diventare prima professore associato, mi hanno subito affidato l’incarico come professore ordinario. È andata davvero così, era in corso la revisione della mia documentazione ed è stato lì che ho ricevuto la borsa di studio MacArthur.
HM: Scommetto che questo ha giocato a tuo favore.
KJM: Naturalmente, non c’era alcun motivo per cui potessero dire di no. In quel periodo, stavano per accadere tante altre cose. Ero presente in svariate mostre di alto profilo, ho avuto parecchi riconoscimenti, ottenuto un certo numero di premi e borse di studio. Tutte cose che anno dopo anno hanno iniziato ad accumularsi. E il tutto è coinciso con il tempo sufficiente a mettere insieme la mia documentazione professionale.
HM: Cosa ha significato per te l’insegnamento? Cosa pensi a riguardo: ti è piaciuto insegnare? Lo vedi come una forma di servizio verso la comunità?
KJM: Quando ho abbandonato gli studi volevo farne una presa di posizione, perché ero deluso dall’educazione che stavo ricevendo. Non era neanche lontanamente difficile da come pensavo sarebbe stato.
HM: Parlavi di questo nella lettera che hai scritto ai giovani artisti [“Young Artist to Be”, da Letters to a Young Artist, a cura di Sarah Andress, Shelly Bancroft, e Peter Nesbett, Darte Publishing, New York, 2006].
KJM: Sì. Naturalmente la mia idea di cosa volesse dire frequentare una scuola d’arte è stata plasmata in parte leggendo le biografie di artisti del Rinascimento, dalle Vite degli artisti del Vasari ad altri testi. C’era qualcosa che mi affascinava dell’intero processo di apprendistato, una procedura che conduce passo dopo passo verso la complessità. C’era sempre una disciplina associata a ciò che si doveva sapere.
Questo era quello che speravo quando andavo a scuola, che ci sarebbe stato un programma predefinito che si era tenuti a seguire, per poi comprendere e dimostrare la propria capacità nell’implementare idee diverse sul modo in cui le immagini sono state prodotte in passato, su come ha funzionato la rappresentazione o il ruolo che hanno avuto la visione e la visualità. Ho pensato si dovesse sapere tutto di quella roba, e che avrebbe aiutato in qualche modo.
Ma nel 1977 non è era effettivamente così. Dopo aver terminato la scuola, non mi sembrava che aver frequentato un master significasse molto. Così ho voluto dimostrare che si possono fare tutte le cose che chiunque avesse ottenuto un master avrebbe dovuto essere in grado di fare, senza dover acquisirne uno.
Una cosa importante da precisare è che non si poteva davvero insegnare in un college senza avere un master. Ho trovato così il modo di ottenere un posto da insegnante al college scrivendo proposte per corsi che mi sarebbe piaciuto tenere. A quel tempo, la mia filosofia di insegnamento era quella di dare ai miei studenti tutte le cose che mi sono mancate quando frequentavo la scuola.
HM: Che genere di cose, nello specifico?
KJM: Beh, ho pensato che l’apprendimento consistesse nel trovare una soluzione ai problemi. Con un progetto dopo l’altro riesci a esercitare la tua attitudine a individuare soluzioni sofisticate ai problemi.
Ho stimolato nei miei studenti la responsabilità di conoscere lo sviluppo delle cose nel corso della storia. Ho impostato il lavoro per cui erano chiamati a scrivere una proposta ancor prima di iniziare un progetto, dovendo spiegare l’obiettivo di partenza per poi mostrare il modo in cui intendevano raggiungerlo. Ho pensato che tutto ciò richiedesse più di un investimento intellettuale in un lavoro, se fatto in questo modo, chiaramente.
Le mie idee sulla scuola d’arte sono state ulteriormente plasmate dall’incontro che ebbi con un dottorando dopo aver mandato il mio portfolio dall’Otis College, a Los Angeles, per una domanda d’ammissione. Mi fece credere che non ero in grado di entrare nella scuola perché c’era qualcosa di sbagliato nel mio portfolio.
Naturalmente la cosa che non andava era la mia eccessiva varietà. A quel tempo pensai che avrei dovuto mostrare tutto ciò che ero in grado di fare, ma lui disse che non ero concentrato abbastanza su una sola idea e che, per questa ragione, non sarei stato ammesso.
Il dilemma di non sapere cosa ci si aspetta da te, mentre gli altri apparentemente sembrano saperlo con sicurezza, ha realmente dato forma al mio pensiero sull’ambizione e su ciò che sentivo di fare. Non potevo più accettare l’autorità di qualcun’altro che dall’esterno determinasse se ero dentro o fuori. L’idea di essere consapevoli di cosa si sta facendo è la sola cosa che importa davvero.
HM: Quando chiedevi agli studenti di presentare un piano di lavoro, quali competenze pensavi dovessero sviluppare? Dovevano leggere determinate fonti o guardarne altre? Li mandavi all’Art Institute di Chicago? O insegnavi loro la teoria del colore? Quali competenze pensavi fossero realmente importanti?
KJM: Tutte queste cose insieme. Ma, per me, il primo livello di competenza restava il disegno. La capacità di disegnare e rendere quello che si vede è il fondamento, non è mai un mero esercizio mimetico. Quest’abilità funziona sempre per dimostrare quanto bene hai compreso le regole della costruzione delle immagini. Ho fatto realizzare ai miei studenti diversi lavori preparatori e la composizione era una componente chiave.
Ho sempre cercato di insegnare loro che le distorsioni all’interno di un lavoro dovrebbero essere pensate, e non concepite come qualcosa che accade casualmente perché non si è in grado di fare meglio. Perciò li facevo procedere per schemi: se stavano disegnando una natura morta, ad esempio, facevo prima destrutturare la composizione per capire come questa si sarebbe evoluta in quella precisa fase e, infine, realizzare un disegno basato sugli studi precedenti, non limitandosi a quello che si stava osservando.
Utilizzavo l’Art Institute di Chicago, riproduzioni ritagliate dai libri di storia dell’arte e cose del genere. Lo stile è una questione di scelte. Ho insegnato in un corso di pittura che mi ha permesso di lavorare un intero semestre sull’autoritratto. Ognuno dei miei studenti ha prodotto una serie di autoritratti e il successivo doveva essere diverso da quello fatto la volta precedente. È lì che ti trovi a scegliere stili differenti, quando ti soffermi a capire il perché una cosa è migliore rispetto all’altra. Questo è il modo in cui ho pensato che l’istruzione dovesse funzionare. Così gli studenti sarebbero stati in grado di realizzare qualsiasi cosa avessero voluto.
HM: All’inizio però, hai rivelato una certa ambiguità rispetto l’insegnamento. Da dove viene questa enigmaticità? Cosa ti ha portato ad avere dei ripensamenti, per così dire?
KJM: L’insegnamento assorbe un sacco di energia. Se fai realmente quello che io penso debba essere fatto, ovvero mettere costantemente in discussione la capacità degli studenti e riuscire a costruire un loro repertorio fatto di abilità tecniche e comprensione, beh, questo prende tempo, ed è una montagna di lavoro.
Ma soprattutto l’insegnamento sottrae tempo ed energia alla propria pratica. C’era sempre una cosa che ripetevo a me stesso: “Non ho scelto di fare arte perché volevo essere il miglior insegnante di sempre. L’ho scelto perché volevo diventare il miglior artista”. A un certo punto si deve incanalare tutta la propria energia esclusivamente nel proprio lavoro perché se l’energia e l’attenzione si dividono nell’insegnamento e nella pratica, allora quello che fai si compromette in qualche modo.
Poi accade qualcosa durante il tempo passato a scuola che inizia a cambiare i gusti personali per adattarli allo stampo accademico, e lì tutto comincia a diventare uguale. Quella era una cosa che non mi piaceva affatto. Arrivi a perdere il tuo senso di giudizio sul valore delle cose perché devi parlare di tutto come se fosse ugualmente importante.
Quelli erano alcuni dei pericoli che percepivo insegnando e passando tempo a scuola. L’altra parte del problema era il fatto che avevo poche opportunità di lavorare con studenti di colore, perché ce n’erano davvero pochi in quel programma. Mi sentivo come se stessi rafforzando costantemente il medesimo accesso a un tipo di istruzione migliore che gli studenti bianchi possedevano già di base. È stato pressoché impossibile portare avanti una classe sufficientemente numerosa di studenti neri, messicani o coreani che volessero realizzare un lavoro diverso.
La capacità competitiva dev’essere incoraggiata in quelle persone di colore che sono in grado di sfidare la maggioranza bianca dominante nel mondo dell’arte. E non si tratta soltanto di sperare di essere inseriti nei circuiti distributivi principali – piuttosto vuol dire conquistarsi una posizione nel mondo dell’arte perché i tuoi obiettivi sono davvero trasformativi. Voglio dire che è lo stesso tipo di ricerca che ti porta a ottenere un premio Nobel o nella posizione di artisti come Donald Judd, Jackson Pollock o Andy Warhol, artisti la cui produzione ha informato la conversazione attorno a quali cose fossero possibili facendo arte.
Credo che oggi abbiamo bisogno di un esercito di persone motivate a fare tutto ciò. È deludente constatare che ci sono così pochi artisti di colore nei programmi di studio, e non si ha realmente la possibilità di seguirli, dovendo continuare a seguire studenti che hanno già ampiamente accesso a questo tipo di esperienza.
HM: Perché pensi che a Chicago, in quello che è il college di punta della città, non sono stati in grado di includere abbastanza studenti di colore nel programma d’arte? Chicago è una città molto variegata. E si parla di un’università pubblica. Qual era il problema?
KJM: Beh, ci sono due modi per inquadrare la cosa. Uno è che all’interno del mondo delle arti visive bisogna costantemente contraddire la questione che non si sopravvive di una laurea in arte. Per le persone di colore, andare a scuola per quattro o cinque anni e trovare poi un lavoro è una questione importante. Ti stupirà, ad esempio, il fatto che troverai più persone di colore nei corsi di educazione all’arte.
HM: Beh, è una sorta di opzione più professionalizzante per far parte di questo mondo.
KJM: C’è un programma, una traiettoria d’azione, e poi un lavoro alla fine del percorso. Era più o meno così – se avessero avuto un programma di arteterapia, si sarebbero viste più persone di colore lì per le stesse ragioni. Perché c’è un salario mensile alla fine. Ma nelle arti visive si è da soli, nella misura in cui la maggior parte delle persone non hanno intenzione di intraprendere questo percorso. Quando le idee su ciò che è rilevante in arte – mettiamola così – sono articolate, suonano come sciocchezze per un sacco di gente. Intendo dire che non ci sono tante persone con questa vocazione, e quelle che la possiedono già, in qualche modo, arrivano a malapena a metterla in pratica a scuola. E questa è una questione.
L’altro fatto è che non solo c’erano pochi studenti di colore che entravano nel programma, ma io ero l’unico professore nero nel dipartimento. Questo conta tanto, poiché nel processo di selezione degli studenti la sensibilità del collegio dei docenti determina chi entra e chi no. Si cerca costantemente di riprodurre i propri argomenti di interesse. È così che funziona. Intendo dire che qualsiasi cosa ricordi ai professori loro stessi in quella stessa fase della loro vita diventa automaticamente interessante.
C’è un’altra cosa da dire: io avevo diritto solo a un solo voto, e mi sono sentito dire più volte che non avrei potuto formare le classi in base all’etnia o alla razza delle persone. Allora entra in gioco il fattore qualità. Ciò che accade con le scuole d’arte è che tutte sembrano preferire studenti che stanno già facendo cose che si sono viste ieri nelle gallerie.