La prima retrospettiva in Italia di Klodin Erb è un invito al ballo. Il luogo è una perla dell’eclettismo architettonico del primo novecento romano: Villa Maraini. Il titolo: “A different kind of furs”.
La danza di rimandi formali e storico-artistici tipici di Erb – qui esplosiva nella selezione di circa novanta opere (datate tra il 1999 e il 2023) tra dipinti, sculture, collage, video e tessuti – risuona ampliata in questi ambienti il cui vissuto quotidiano affatto ordinario della contessa Sommaruga Maraini ne guida ritmo e destinazione.
Il percorso infatti non è cronologico ma mira a rendere la visita una sorta di deriva in cui le libere associazioni si incalzano l’un l’altra indossando vari volti, e pellicce.
Dai quattro grandi dipinti della prima sala che accolgono e abituano da subito alla sorpresa, alla gioia e al colore, si viene rapiti dalla serie “venusinfurs I-VIII” (2022-23) – tele su piedistalli autoportanti e dalle cornici in stoffa – che riempie completamente l’orizzonte visivo di quella che un tempo era la sala da ballo e dove si diviene protagonisti di una sorta di can-can dedicato alla vita, accompagnati dalle tante gambe in movimento che si individuano sulle tele.
Accanto, un tempo il salottino delle signore, si percepisce l’intimità della preparazione o l’esigenza della sosta dopo tanto tripudio di forze. La danza assume un ritmo più concitato causato da una percussione africana che, con la sua ripetizione, porta alla trance, e che fa da colonna sonora al video nascosto dentro il piccolo bar a vetrate inserito nel muro. Si tratta di The Show (2005), realizzato montando i ritratti dipinti della serie “Glanz und Gloria” (2005) tratti da riviste di moda.
Se il formato verticale del video nel 2005 aveva un rimando diretto a quello delle riviste, oggi rinvia agli schermi mobili; mentre lo sfumare da un ritratto di donna a un altro fa pensare al morphing algoritmico aggiungendo un’altra riflessione a quella della bellezza stereotipata e sfruttata del corpo femminile, ossia quella dell’insidia del ‘fake’. I tessuti di cui ci adorniamo per ampliare, cambiare o sottolineare le nostre identità sembrano essere il tema specifico di questa sala, dominata da una scultura centrale, Second Nature 8 (2001-02): un paravento dipinto, sul quale è stata lasciata in maniera distratta una giacca di pelliccia, trasforma lo spettatore in voyeur a causa di fori la cui oscurità risucchia come una calamita e trasporta in un cosmo senza tempo.
Dalla profondità dell’universo si torna alla natura grazie all’installazione Plant’s Life (1999) composta dalla serie di piante in stoffa posizionate nel giardino d’inverno e il cui aspetto dimesso è accentuato da alcuni piedistalli costituiti da oggetti d’uso comune come porta riviste, sgabelli e poggiapiedi.
Verdure anamorfiche, nascite, steli preistoriche accompagnano in altre stanze, cadenzati dalla musica della prima video-animazione di Erb del 2016, The Sweet Lemon Ballad, di cui alcune immagini rimangono talmente impresse nella retina da aggiungersi poi alla selezione di trentadue sui duecento ritratti della serie “Orlando” (2013-21). Disposti uno di seguito all’altro sotto il soffitto ligneo, i ritratti guardano dall’alto invitando al riconoscimento; se ne scorge uno in stile dell’Arcimboldo, un altro alla maniera cubista e, fra tutti, il Ritratto di fanciulla (1470 circa) di Petrus Christus, inconfondibile nella sua iconicità fiamminga senza tempo. Ma Erb ha sostituito al volto della fanciulla una sfera bianca, come se invitasse a una libera proiezione in un atto, serissimo, di mascheramento come riconoscimento.
Nell’abbandono al ritmo associativo sopraggiunge una sorta di ebrezza, come quella che ha colto i protagonisti dei quattro arazzi realizzati per l’ambiente che dà verso la scalinata, angeli ubriachi dei quattro elementi naturali: Drunk Angel (Air), Drunk Angel (Water), Drunk Angel (Earth) e Drunk Angel (Fire) (2023).
Oramai barcollanti sulla scalinata, infine, si seguono le vicende di un personaggio con maschera di carnevale nel video Johnny Woodhead & The Nightmärlies (2022). E, come d’incanto, dal passato, sopraggiunge il ricordo di una riflessione sulla maschera: “ha senso coprirsi il volto solo di fronte a qualcuno che si accorga del gesto e, con la sua presenza, faccia del nostro dissenso un atto pubblico”1.