Allievo di Rirkrit Tiravanija alla Columbia University, Korakrit Arunanondchai (Bangkok, 1986; vive a New York e Bangkok) continua la tradizione dell’arte partecipativa, accordandole una spiccata dimensione olistica, quasi di comunione con l’umanità intera. Tuttavia, l’ascendenza di teorie escatologiche nella contemporaneità, porta l’artista a confrontare il suo umanesimo con gli scenari del mondo non-umano. Sensibile all’attuale situazione politica del suo paese natale, la Thailandia, e allo stesso tempo assorbito nella realtà occidentale, Arunanondchai costruisce video installazioni proteiformi, nelle quali convivono la denuncia del decadimento dell’umanità, inghiottita dalla speculazione sul progresso e dalla transitorietà della propria condizione, e la speranza in un futuro ritorno a un nuovo animismo.
Nell’intervista che segue, Arunanondchai condivide con Maurizio Cattelan i suoi pensieri sull’arte e sul mondo.
Maurizio Cattelan: “Un legame che forma la democrazia forte come l’amicizia” è una frase dal tuo video Painting with History in a Room Filled with Men with Funny Names 3 (2015). Cosa intendi?
Korakrit Arunanondchai: Su un piano caratteriale, oscillo tra momenti in cui mi sento assolutamente cinico e altri in cui sono pieno di speranza; a volte intravedo il potenziale trasformativo dell’arte e altre questo stesso potenziale mi sembra inapplicabile. Mi capita di credere nella democrazia, ma poi ne testimonio il fallimento nel mio stesso paese, la Thailandia. C’è però una certa bellezza nel vedere la speranza in questo cinismo.
Nel video Painting with History in a Room Filled with Men with Funny Names 3 metto in scena una bozza di sceneggiatura su una pseudo-realtà in cui l’uomo, lo spirito e un drone si combinano per diventare una cosa sola. Speculando intorno a questo scenario, ho costruito il testo su un’idea (ottimista) che, nel futuro prossimo, alcune contraddizioni del tempo odierno potrebbero, in qualche modo, diventare apprezzabili. Ad esempio, un sentimento come l’amicizia, che privilegia un legame biunivoco al dialogo con la società nel suo complesso e che, in un certo senso, facilita la corruzione, potrebbe rendere la democrazia più forte. In Thailandia in questo momento la democrazia è più debole dell’amicizia.
MC: La Thailandia attualmente è una dittatura militare, vero?
KA: Sì, da quasi due anni. Ero in un simposio un anno fa, a discutere di arte contemporanea, e c’era un cartello nella stanza che diceva che non era permesso menzionare la parola “democrazia”.
MC: Che cosa pensi succederà?
KA: Penso che sarà necessario un cambiamento strutturale – non so quando accadrà, né come. Non so nemmeno quando ci sarà permesso di votare di nuovo…
È strano che nella natura umana il “noi” ha sempre bisogno di emergere in funzione di un “loro”. È per questo che mi interessa operare nello scenario in cui gli esseri umani, separati dalla natura a causa della cultura che loro stessi hanno creato, saranno reintegrati nel sistema naturale grazie ai loro stessi strumenti. Quando, cioè, la separazione tra “utente” e “utensile” scomparirà. O quando forse emergerà un nuovo codice animista. Quando lo spirito sarà esso stesso informazione. Credo di aver inevitabilmente giocato con questo scenario di fantasia per individuare una realtà in cui il confine tra il “noi” e il “loro” sia abbattuto.
MC: L’ultima volta che abbiamo parlato mi hai detto di essere stato al matrimonio di un amico e che questo evento ha avuto un grande impatto su di te. Alla 9a Biennale di Berlino hai presentato un video [There’s a word I’m trying to remember, for a feeling I’m about to have (a distracted path towards extinction) (2016)] in cui filmati del matrimonio di tuo fratello maggiore sono interconnessi a una riflessione sull’estinzione. Potresti dirmi di più su questo progetto?
KA: Era il 2014. E, sì, ero appena stato al matrimonio della mia amica Molly Lowe. Ho sempre pensato che l’arte sia uno scenario di esperienze condivise, in cui l’aggregazione di persone crea dell’energia. Avevo quindi vissuto il matrimonio come un’estremizzazione di quello stare insieme, festeggiando, piangendo, ricordando. Era un contesto molto forte, un vera e propria condensazione di cultura – un rituale, appunto.
Adesso, a più di due anni di distanza da quell’esperienza, è interessante per me aver realizzato un video su un matrimonio. Sono andato a quattro o cinque matrimoni dopo quello di Molly. E uno di quelli era di mio fratello. Ero con lui mentre stava progettando un flash mob per fare la proposta matrimoniale e stavo leggendo The Sixth Extinction [La sesta estinzione] di Elizabeth Kolbert. C’è un capitolo nel libro intitolato “Il gene follia” che parla di come l’uomo di Neanderthal differisca geneticamente dall’Homo sapiens solo del 3%. In un certo senso, è ciò che di non-umano è più vicino a noi. Il capitolo descrive alcuni tratti distintivi con cui noi umani siamo nati (che all’uomo di Neanderthal mancano) e che favoriscono l’evoluzione della specie (lo sviluppo del linguaggio, l’articolazione del mondo attraverso i segni ecc.). Queste caratteristiche potrebbero formare il primo capitolo di un libro sull’umanità di cui l’ultimo è invece l’Antropocene.
In un certo senso ho visto il matrimonio come un evento culturale che celebra la capacità dell’uomo di espandere sé stesso – e non sto parlando di espansione solo in termini di numero di popolazione, ma dell’idea della celebrazione della cultura, di questa storia che abbiamo creato attorno al concetto di “noi”.
Ho pensato che, in un modo o nell’altro, anche la Biennale di Berlino è stata un modo per celebrare l’espansione culturale. E insieme alla maggior parte di tutto ciò che la cultura produce, allarga l’impronta di carbonio dell’umanità, sempre più a dispetto di specie non-umane che si stanno estinguendo. Questo non vuol dire sia un problema. È più una questione di guardare alla realtà nella sua connettività. E, forse, accettare la specifica traiettoria che noi, come specie, stiamo seguendo.
MC: Stai dicendo che abbiamo percorso la strada per distruggere l’ecosistema terrestre a partire dall’inizio della nostra specie?
KA: Credo che questo sia il terreno storico in cui ci troviamo. Almeno per me, nella pratica artistica che sto cercando di portare avanti. Dopo che tutti i miei “Denim Paintings” sono stati bruciati, ciò che rimane sono i materiali che abbiamo consumato per reiterare la storia.
Penso che abbia senso che il sito della video installazione alla Biennale di Berlino sia una battello storico che percorre il fiume, la Sprea; e che una volta alla settimana il battello ospiti degli eventi. È importante che, parallelamente, si vedano i materiali di scarto e che il progetto funzioni come un palcoscenico. Stiamo ballando sulla scultura dei nostri futuri sé estinti.
MC: Hai fatto altre riflessioni sul tema dell’estinzione?
KA: Recentemente ho avuto l’opportunità di dialogare con una produttrice cinematografica che ha finanziato il documentario Racing Extinction (2015). Dopo aver visto il documentario mi sono posto alcune domande in merito alla necessità di stimolare un’empatia per le balene, come un punto di partenza per rimarcare la nostra connessione con l’oceano. Se si interpreta il tasso di sopravvivenza della nostra specie in relazione al fitoplancton che crea il 50% dell’ossigeno che respiriamo, è logico domandarsi come sarebbe influenzata la percentuale di sopravvivenza sul nostro pianeta se effettivamente spingessimo le balene all’estinzione.
MC: E cosa ti ha detto la produttrice?
KA: Ha chiamato in gioco il cosiddetto “karma”. Questo è un momento in cui, per me, tutto torna all’animismo, il vecchio codice del mondo.
MC: In questo nuovo video c’è una parte che mi piace molto, dove tuo fratello e sua moglie, durante il matrimonio, sembrano piangere in grembo ai tuoi genitori. I sottotitoli a questo filmato dicono: “Ognuno è un artista, ogni momento è una scultura”.
KA: Ho fatto molte ricerche su una nuova società chiamata Magic Leap. Sono specializzati nella creazione di realtà “miste”. È fondamentalmente una tecnologia come la realtà aumentata, ma che, a differenza di come accade nella realtà virtuale, proietta l’immagine sul bulbo oculare. Rony Abovitz, il fondatore della società, ha detto qualcosa di simile a: “Siamo circondati da particelle di luce e trasformiamo i nostri cervelli in sculture di luce; è così che è fatta la realtà”. Lui, e del resto molti altri CEO di cui ho ascoltato le dichiarazioni, sembrano fondare la natura emancipatoria della propria invenzione sulla prospettiva di “liberare l’artista che è in ognuno di noi” – ovvero, di sollecitare quel desiderio nascosto in ogni consumatore di essere un artista.
In futuro la tecnologia consentirà agli utenti di creare una propria fantasia soggettiva come interfaccia del mondo. La società dovrà rapportarsi alle fantasie-leggi-realtà digitali di tutte le persone che condividono la realtà fisica. Questo perché tutti desiderano per se stessi una realtà che è leggermente diversa e unica. È una prospettiva che suona bene sulla carta. Ma in realtà tutti sappiamo che, come solitamente accade, saranno le persone potenti e con alta disponibilità di capitale a poter fruire di queste possibilità.
Guardo alla cultura del matrimonio in Thailandia oggi come a un esempio in cui l’enfasi sembra posta sulla produzione mediatica intorno all’evento: il video pre-matrimonio, il video della proposta, la documentazione maniacale di tutta la giornata… In un certo senso, questo fatto riflette l’ossessione per la digitalizzazione della memoria. Quando ne parlo con mio fratello e sua moglie, entrambi dicono la stessa cosa: ovvero che il matrimonio è stato organizzato in maniera “standard”, che si è trattato di assecondare un’aspettativa sociale che, di conseguenza, ha appiattito l’evento a un formato. Secondo la moglie di mio fratello il momento più magico è stato quando insieme, marito e moglie, hanno dovuto leggere un canto buddista davanti a tutti.
MC: Ancora un vecchio codice del mondo?
KA: Sì, qualcosa di magico proveniente da un passato pre-digitalizzato, credo.
MC: Nel video c’è un passaggio che ricorda un film di fantascienza, nel quale si parla di Alpha Centauri come il nostro nuovo pianeta ospite. Pensi che dovremo mai lasciare la Terra?
KA: Alla fine del video, quando chiedo a mio fratello com’è stato raggiungere il traguardo del matrimonio, lui dice: “È come se ci fossero cento gradini per raggiungere la prossima fase della vita, e mi sento come se ne avessi percorsi novantanove. Il matrimonio è l’ultimo passo da compiere, ma questo passo è composto da cento passi più piccoli”. Credo che la sua risposta possa essere usata come metafora della fase nella quale noi esseri umani ci troviamo come specie. Cioè, abbiamo percorso novantanove gradini su cento e adesso siamo nella fase di attraversamento degli ultimi cento micro-gradini, che ci condurranno verso qualcosa – indipendentemente dal fatto che quel qualcosa sia la singolarità tecnologica, l’abbandono della Terra o l’estinzione della nostra specie.
MC: Ci stai dando cinicamente una speranza?