“Performance Art è l’arte in cui le azioni di un individuo o un gruppo, in un particolare posto e in un particolare tempo, costituiscono l’opera d’arte. Performance Art può essere definita ogni situazione nella quale vengono coinvolti quattro elementi base: tempo, spazio, corpo del performer e relazione dello stesso con il pubblico. Si contrappone così alla scultura e alla pittura, per esempio, nelle quali è invece l’oggetto a costituire l’opera d’arte”.
Qualcuno su Wikipedia ha dato questa interpretazione di Performance Art. Qualcuno, perché su Wikipedia tutti possono scrivere, dare il loro parere. Allora, forse, qualcun altro potrebbe entrare in quella pagina web e cambiarla, perché negli ultimi anni il concetto di performatività si è esteso fino a raggiungere anche quegli “oggetti” che invece la nozione di Wikipedia continua a mettere in contrasto con la performance.
L’argomento è stato affrontato recentemente nel simposio “Props, Events, Encounters: The Performance of New Sculpture”, tenuto presso Showroom di Londra nel maggio del 2007, e in mostre come “The World As A Stage” (Tate Modern di Londra e ICA di Boston, 2008), che hanno messo in luce i rapporti tra la performance e altri media più tipicamente legati allo spazio della galleria. Artisti come Elmgreen & Dragset, Roman Ondák, Tino Sehgal, Martin Creed, Michael Sailstorfer, solo per citarne alcuni, testimoniano questa pratica con la creazione di lavori formalizzati spesso come oggetti ma composti anche da una parte performativa fisicamente presente o semplicemente allusa tramite temi o modalità di ricezione quasi teatrali dell’opera. All’interno di questo fenomeno esteso occupano una particolare nicchia quegli artisti nei cui lavori proprio l’oggetto, pur costituendo l’opera, anzi essendo parte imprescindibile della stessa, viene sottoposto a processi performativi reali che ne mettono in crisi lo status di oggetto stesso. Sono quelle opere in cui un’azione interna, come la degradazione dei materiali di cui sono composte, o esterna, se imposta da un agente estraneo, porta al decadimento o, come estremo risvolto, alla scomparsa dell’oggetto. Sono lavori che si trovano in un’ambigua posizione, in cui da forma si trasformano in evento e, come tale, esistono in una durata, con un inizio e una fine.
Nella sua lunga carriera Roman Signer ha realizzato opere in cui semplici oggetti come palloni, secchi, canoe, tavoli o biciclette sono sottoposti a processi di trasformazione (esplosioni, incendi, cadute ecc.) che ne modificano irrimediabilmente lo stato. L’opera Installation (2004) è composta di sei tavoli di legno sospesi al soffitto dello spazio espositivo con altrettante grandi candele posizionate ognuna al di sotto di un tavolo. In ogni candela l’artista ha applicato un buco attraverso il quale ha fatto passare un filo collegato a una miccia che corre per tutta la lunghezza, che va appunto dalla candela fino al tavolo sospeso. Nel momento in cui la mostra inaugura le candele vengono accese e iniziano a consumarsi fino a raggiungere il punto in cui è collocata la miccia (tale azione dovrebbe avvenire, secondo un calcolo fatto dallo stesso artista, alla fine della mostra). A quel punto, una volta accesa, la miccia brucia fino a raggiungere il punto in cui il tavolo è sospeso, causandone la caduta e la conseguente distruzione.
Quello del fattore tempo applicato alla scultura è uno degli aspetti principali del processo creativo di Urs Fischer. Molte delle sue sculture e installazioni, infatti, sono soggette a deformazione e decadimento dei materiali di cui sono composte. Esse mostrano il loro contenuto narrativo come un atto live, come una storia che si sviluppa nel tempo. What If The Phone Rings (2003) è un trittico che rappresenta tre donne in dimensioni reali in pose vagamente sessuali. Personale versione dell’iconografia classica delle Tre Grazie, il gruppo scultoreo di Fischer ha la particolarità di essere composto di cera e ognuna delle sculture è una candela che si consuma, deforma ed esaurisce nel tempo. Come per Signer, anche in Fischer l’azione di accensione coincide con l’inizio della mostra e l’opera vive e prende forme sempre diverse durante la durata della mostra stessa. Ma se in Signer l’opera è sempre soggetta a un evento repentino anche se anticipato, come nel caso citato, da una lenta attesa, quelle di Fischer sembrano animate da un processo in costante e continuo divenire.
Sottoposte a una spesso violenta accelerazione temporale sono alcune opere di Lara Favaretto. Cominciò ch’era finita (2006) è un’installazione composta da una piattaforma di legno circolare chiusa da muri fatti di trentadue tende militari che ruota sul suo asse a una velocità tale da impedire di avvicinarsi e da rendere quasi impossibile vederne l’interno. Se da un lato il movimento circolare suggerisce un’idea di infinita ciclicità, il titolo esprime la sensazione di accelerazione del processo di esaurimento dell’oggetto, che si consuma proprio a causa del suo stesso movimento. Funziona con modalità simili anche È così se mi interessa (2006): una corda, ancorata al soffitto e azionata da un motore che la fa girare a differenti velocità, batte di tanto in tanto sulla parete bianca della galleria, lasciando tracce scure tramite un puntale di pelle nera; o resta ferma, immobile, nello spazio quando il motore non è in funzione. Il brutale movimento, accompagnato dal rumore violento provocato dalla corda che sbatte, rimarca la natura autodistruttiva dell’opera già presente in Cominciò ch’era finita, mentre il segno del suo passaggio, lasciato quasi in modo inconsapevole sul muro, si carica di ulteriori significati per il fatto di nascondere all’interno della canapa i dreadlocks dell’artista, tagliati dopo dodici anni.
La presenza dei capelli nel lavoro della Favaretto stabilisce un legame corporeo tra l’oggetto e il suo creatore, come se l’opera fosse una sorta di protesi o prolungamento del corpo dell’artista. Una cosa simile accade nei lavori di Jamie Isenstein. Con Inside Out Winter Hat Dance (2005), la giovane artista americana realizza una scultura di ghiaccio a forma di cono con un cappello a bombetta in cima. Originariamente della stessa altezza dell’artista, il cono si scioglie fino a lasciare sul pavimento solo il cappello che, come i segni neri sul muro della Favaretto, evidenzia una traccia del suo passaggio. Ma se nella Favaretto l’atto performativo è dovuto a un movimento “artificiale”, in Inside Out Winter Hat Dance esso è delegato esclusivamente al materiale di cui l’oggetto è composto. Il ghiaccio è stato utilizzato negli ultimi trent’anni da moltissimi artisti, da Paul Kos a Jeppe Hein, passando per Anya Gallaccio, Pierre Huyghe e Olivier Mosset. Tra essi, il caso di Ice Cube (2005) di Jeppe Hein sembra interessante in questo contesto se messo a confronto con quello di Jamie Isenstein. Se infatti la Isenstein utilizza il ghiaccio per creare una forma tanto personale da rappresentare il suo autoritratto, con Ice Cube, un cubo di ghiaccio di 50 cm posato su una base di metallo, Hein si misura con la forma impersonale del cubo, confrontandosi con la fissità e la permanenza dell’oggetto nello spazio, caratteristica della Minimal Art alla quale la forma cubica fa esplicitamente riferimento. Il cubo, tradizionalmente solido e rigoroso, si consuma, mutando nel tempo con modalità diverse a seconda di agenti esterni, fino a giungere a una totale scomparsa.
Si dissolvono nel nulla anche alcuni lavori di Christian Frosi. In Foam (2003), una schiuma bianca si espande nello spazio circostante, prima occupandolo e poi svanendo nel nulla. In Duna (2007), invece, una grande duna di sabbia occupa il centro dello spazio architettonico. Invadente nella sua ingombrante presenza fisica, anche questo lavoro si rivela fluido, quasi effimero, a causa della natura instabile della sabbia che lo rende in costante anche se impercettibile movimento e ancora una volta, come per tutti gli altri lavori presentati, fuori dal controllo diretto del loro creatore.
Diversi per intenti, materiali e forme, i lavori menzionati condividono la stessa natura: come oggetti richiedono un’esperienza fisica da parte dello spettatore ma come performance pretendono che questa esperienza sia legata a una durata nel tempo. In questa loro affascinante contraddittorietà sembra che si divertano a prendere in giro chi li guarda, prima seducendolo con la forma e poi svanendo sotto i suoi occhi. Proponendosi e negandosi, queste opere sfidano il principio secondo il quale noi ci riconosciamo attraverso la “sicurezza degli oggetti” di cui ci circondiamo e a cui ci aggrappiamo come ancore di salvezza. La loro presenza mette in discussione non solo la natura effimera della performance ma anche quella incorruttibile della scultura: forse alla fine le voci da aggiornare su Wikipedia sono due.