La performance, come punto d’incontro tra le arti e dell’arte con la vita, si sta confermando uno degli ambiti più proficui per la sperimentazione artistica attuale. In opposizione alla separatezza percettiva dei media tradizionali, la performance attiva tutti i sensi, stimola dinamiche partecipative, raccoglie ed esalta uno dei paradigmi fondamentali dell’arte dalle avanguardie a oggi: il privilegio del processo sul prodotto.
La conferma dell’importanza della performance arriva dall’interesse sempre crescente da parte di ambiti estrinseci a quello delle arti visive e del teatro, da parte della sociologia e degli studi manageriali, per esempio, che la fanno strumento di indagine per comprendere dinamiche sociali o aziendali. La laurea ad honorem in sociologia conferita a un Maurizio Cattelan con braccio e collo ingessati dall’Università di Trento nel 2004 è solo l’episodio più emblematico di un sempre più largo interesse che proviene dal settore. Le collaborazioni di Lucy e Jorge Orta con i dipartimenti di sociologia dell’Università di Londra o gli esperimenti economici di Norma Jeane sono esempi di una prospettiva, per quanto ancora pionieristica, in cui la performance artistica diviene cartina di tornasole, e talvolta anche strumento di intervento, rispetto a fatti sociali e organizzativi.
Poi c’è la fortuna delle parole. Se si guarda alla vastità di ambiti in cui il termine performance è utilizzato, ci accorgiamo di quanto oggi ci sia bisogno di rivedere i confini e le barriere fra i campi. È una “buona performance” quella dell’ultimo modello di computer che riesce a elaborare un maggior numero di dati, lo è quella del politico che convince, è “performance” quella di un titolo di borsa, lo è quella dello sportivo che disputa una gara, senza dimenticare la “performance sessuale”, aiutata o meno dalla pasticca blu.
Della contingenza della performance al comportamento in generale si è ben accorta Marina Abramovic, che per spiegare ai suoi allievi della scuola di Braunschweig il senso del suo insegnamento, ha presentato una celebre sequenza in cui Papa Giovanni Paolo II, pronto per la predica presso un campus americano, rispondeva alle standing ovation degli studenti con versi gutturali e ululati. Ma non è forse stata una grande performance il discorso di Colin Powell al Congresso americano sulle armi di distruzione di massa dell’Iraq, con uso di immagini grafiche che hanno contribuito a diffondere la percezione di certezza e di imminenza del pericolo? Il Congresso approvò l’intervento americano, senza accorgersi che si trovava di fronte a una splendida performance Powerpoint.
Tutti noi performiamo, quotidianamente, anche grazie a una tecnologia sempre più diffusa che traduce e registra i nostri gesti e le nostre parole, e pertanto ci invita a valutarli e controllarli. Così nel nostro agire mescoliamo un po’ di naturalezza e un po’ di affettazione, un po’ di quello che siamo, un po’ di ciò che crediamo di essere. E proprio la contingenza della performance artistica a ciò che pratichiamo tutti i giorni la rende un campo particolarmente fertile e produttivo.
La persistenza del corpo
Bisogna ammetterlo, nella performance attuale c’è ancora una esasperata prevalenza del corpo. Sulla scia di Vito Acconci o di Marina Abramovic, l’artista sperimenta le possibilità sensoriali e spinge fino in fondo le potenzialità fisiche: si mette alla prova. Dopo i colpi di fucile di Chris Burden e i tagli alle vene di Gina Pane, ormai si è provato e riprovato di tutto. Il corpo è stato sbattuto, tagliato, squizzato, schiacciato, violentato, bruciato… Genere per sadici e masochisti, spesso con larga distribuzione di sangue e umori organici, ancora reiterato da tanti giovani, di cui, per non sprecare battute, taciamo i nomi. Genere rinnovato nel corso degli anni Novanta dalla tendenza cyborg, per cui al sangue naturale si è aggiunta la protesi posthuman, da Stelarc a Orlan.
Va meglio quando subentra l’ironia, e allora il sangue è finto e l’artista propone dei clichè proprio al fine di smascherarli, come Kiki Blood, che impersona vari tipi di donne variamente agitate dal rapporto eros/thanatos, tagliando con oggetti affilati tele da cui sgorga sangue, tra Fontana e Nitsch.
Della necessità di prendere ormai le distanze da un concetto troppo diretto di “prova” si è ben accorta la stessa Abramovic, che un paio di anni fa al Guggenheim Museum di New York ha eseguito Seven Easy Pieces, replicando alcune performance storiche di Vito Acconci, Bruce Nauman, Valie Export ecc. Il discorso si sposta così dalla sfida alle convenzioni e dalla riscoperta delle potenzialità individuali alla più attuale questione sui diritti di riproduzione. Siamo nell’epoca del riciclo e della postproduzione, un eccesso di “diretta” non sembra connaturato alla situazione. Meglio lavorare “alla seconda”, porre una certa distanza tra sé e la realtà.
Il corpo agisce ancora in presa diretta quando diventa strumento di propaganda di problematiche sociali. Regina José Galindo cammina coi piedi sporchi di sangue, lasciando tracce vistose, dalla Corte Costituzionale al Palacio Nacional di Città del Guatemala, per condannare le atrocità della dittatura. Oppure si incide “perra” (cagna) sulla gamba per ricordare come vengono trattate le prostitute nel suo paese.
La giovane Mary Coble, che vive a Washington, intendendo ribadire i diritti delle lesbiche, si sottopone a scariche di elettricità quando tra le immagini proiettate in sequenza appare una donna, come la “cura Ludovico” del protagonista di Arancia meccanica, o si fa tatuare su tutto il corpo oltre quattrocento nomi di donne morte per rivendicare i diritti dei gay. Il nero americano William Pope.L ha percorso decine di chilometri a carponi o si è spolverato sul corpo della candida farina per rivendicare i diritti dei neri.
In ogni caso, se ci fossimo attesi una fase in cui l’artista abbandona il suo io, e dunque il corpo come sua espressione fisica più diretta, ci saremmo sbagliati. Ancora la stragrande maggioranza degli artisti partecipa in prima persona alle proprie performance. La performance, che pure ha la virtù di indagare e di connettere vari aspetti della società, resta in fondo in gran parte una forma di pratica autopsicanalitica.
Il doppio tecnologico
Non manca, sul versante opposto, una linea più tecnologica, in cui gli artisti performano facendo uso dei media più attuali. L’assillo di Joan Jonas di indagare il rapporto tra l’azione e la sua possibilità di ripetizione diventa metodo diffuso, andando verso l’abbattimento delle barriere tra il reale e il virtuale. Ormai esaurita la spinta al coinvolgimento dello spettatore con la camera in presa diretta, come nei broadcasting di Nam June Paik o nei corridoi di Bruce Nauman, si moltiplicano invece le performance in cui il video diventa, di volta in volta, sfondo o blow up dell’azione in diretta. Lo schermo diviene un secondo mondo, che replica, sottolinea, anticipa, commenta ciò che avviene nel primo. Certo, anche qui l’artista resta perlopiù presente, e anzi, spesso, la tecnologia, più che uno strumento di presa di distanza da sé, di spersonalizzazione, diviene un mezzo per indagare ancor meglio le proprie potenzialità: l’io e la sua traduzione, l’io e il suo doppio, l’io e la sua dissoluzione virtuale. È il caso della performance di Jesper Just a Performa 05, in cui l’attore è circondato da una serie di sue repliche virtuali; o della ricerca del viennese Jan Machacek, che “vira” le azioni svolte dietro allo schermo con vari strumenti, dalla fotocopiatrice alla microtelecamera. Solo per fare alcuni esempi.
Ma le performance si moltiplicano anche oltre lo schermo, nei siti e nei mondi virtuali. Bisogna riconoscere l’attività avanguardistica del Dia Center di New York, che ha avviato fin dal 1995 una serie di progetti interattivi in rete, tra cui quelli celebri di Tony Oursler e Stephen Vitiello. Ma frattanto il web si andava affollando degli interventi di creativi o gruppi ibridi che spesso non aspirano nemmeno al riconoscimento della condizione artistica. Jodi, Eddo Stern, Brody Condon sfruttano la naturale interattività della rete per creare sistemi ludici o per destrutturare quelli esistenti. E poi, da un paio di anni, si è aperta la sfida su Second Life, dove artisti o gruppi, come Gazira Babeli o i Second Front, realizzano attività che possono perfettamente essere definite performance. Se ti avvicini troppo a una “trappola” di Gazira Babeli, il tuo avatar può essere imprigionato e distorto come in un dipinto di Bacon, oppure inscatolato da una lattina di Campbell Soup. Pionieri della re-enacted performance sono invece Eva e Franco Mattes (già conosciuti come 0100101110101101.ORG), che dopo anni di performance pirata sul web o nella “prima vita” — hanno realizzato un finto sito del Vaticano o fatto credere ai viennesi che la celebre Karlplatz sarebbe stata ribattezzata col nome di Nikeplatz — da ormai quasi due anni stanno rieditando vecchie celebri performance su Second Life. Così Vito Acconci che si masturba sotto il palco della galleria durante una vernice affollata, o Marina Abramovic e Ulay che si appostano nudi al passaggio di una porta costringendo i visitatori a toccare inevitabilmente l’uno o l’altro, diventano avatar che compiono nuovamente le loro azioni in rete. E tutti gli astanti, raccolti in quel luogo virtuale e in quel preciso momento, provenienti da chissà quale città e da chissà quale continente, si stringono intorno per osservarli. Per paradosso, la partecipazione e il pathos che ormai non si raccoglie più nelle performance “terrene”, si ricostruisce su Second Life, dove l’attesa per l’evento, anche perché pionieristico, torna a essere quella che probabilmente aveva toccato le sparute compagnie di spettatori che assistevano alle eroiche azioni degli anni Sessanta e Settanta.
Spazio al suono
Ai giovani, si sa, piace la musica. Non è solo un fatto di gusto generazionale, una moda senza motivazioni. È nel suono, nello spazio acustico, che si ritrova la comunità, l’unità tribale, il senso di appartenenza a un gruppo. La vista separa, allontana l’uno dall’altro, esalta l’individualismo; il suono accomuna, rende tutti partecipi di un medesimo processo.
Christian Marclay può essere forse considerato l’erede di Fluxus, almeno quanto a senso distruttivo. Non più pianoforti rotti o spaccati, ma dischi, tagliati e incollati, così da incrociare geometricamente vari suoni, a cui poi si aggiungono spesso le immagini, i momenti sonori culminanti di vecchie sequenze cinematografiche: lo squillo di un telefono d’altri tempi, il suono di passi affrettati, una sequenza di risposte. “Hello”, pronunciato in successione da vari attori, ci mostra quanto la nostra cultura basata sulla scrittura abbia ridotto, eroso le molteplici varietà performative della parola parlata.
Ma nella maggior parte dei casi il suono entra nell’arte in modo più diretto: come musica suonata. Così sono innumerevoli i casi di artisti che hanno una sorta di doppia vita, quella più specificamente artistica, e l’altra in cui si danno a performance musicali, da Martin Creed, con la sua band Owada, a Jim Lambie, all’inizio più noto come dj, fino a Carsten Nicolai e Kendell Geers, che si sdoppiano come autori di performance musicali in Alva Noto e Red Sniper. C’è poi chi, come Carlos Amorales, ha fondato una sorta di etichetta, sotto il nome di Nuevos Ricos, nella quale ingloba vari gruppi, oltre a realizzare direttamente performance musical-rituali. Ma tra gli artisti che più connettono musica e arte, sospendendo la performance all’incrocio tra i due ambiti, c’è l’italiano Nico Vascellari. Cresciuto tra i gruppi punk-noise-ambient del Nord-Est italiano, insieme alla sua band With Love realizza performance che tendono a recuperare valori ancestrali: suoni primitivi, magari cadenzati anche dal ritmo di due spaccalegna, abiti e installazioni barbariche. Un intento di ricongiungimento ai valori tribali, attraverso quel mondo musicale che connette molti giovani al di là delle frontiere geografiche.
Non manca poi una linea di ricerca più asciutta, minimalista, in cui il suono tende a connettersi con lo spazio: valga per tutti la ricerca dell’austriaco Florian Hecker, che utilizza suoni computerizzati e luci per stravolgere la normale percezione dell’ambiente da parte dello spettatore. Ma il più delle volte sono gli oggetti di uso comune a entrare nelle performance sonore, come la composizione sincronizzata di Torsten Lauschmann, tedesco residente a Glasgow, che è stato anche vj e busker. Celebre perché nel 2006 aveva lanciato la proposta della più grande performance globale, con fini per altro ecologici, il World Jump Day: se seicento milioni di persone l’avessero seguito in un salto sincronizzato, ora l’orbita della Terra sarebbe un poco più lontana dal sole e non avremmo più bisogno di preoccuparci dell’effetto serra. Quanto al suono, l’artista produce installazioni con trapani, motoseghe, lavatrici, oggetti elettrici di vario tipo azionati da un sistema computerizzato.
Tutto ciò che fa spettacolo
È ovvio che la musica, quando performata, si connette con l’entertainment. È il caso dei Fischerspooner, che da quando, nel 1999, entrarono di sorpresa nell’appartamento di Rirkrit Tiravanija ricostruito alla Gavin Brown enterprise, cantando e ballando per una ventina di persone per volta, sono cresciuti come showmen. Sostenuti da Deitch Project, realizzano performance musicali con balletti e giochi di luce, di fumo e di effetti meteorologici. Quel tanto di imperfezione che rivelano i loro passi di danza e le possibili failure delle trovate tecniche getta un soffio di ironia sulla loro operazione.
La performance negli anni Sessanta e Settanta si era alimentata dell’opposizione a un’idea di spettacolo come finzione e puro divertissement. Tanto che il termine più usato allora era quello di “azione”, dove invece “performance”, di origine teatrale, rimanda subito alla rappresentazione. Oggi, a sorpresa, si rileva invece una larga fetta di artisti che non disdegna di confrontarsi con lo spettacolo. Katarzyna Kozyra riprende il desueto filone dell’opera lirica e si attrezza a cantare in pubblico sotto la guida di un Maestro e di una drag queen che le insegna il portamento. Non manca in questo caso ancora un senso di prova personale, in quanto per farlo l’artista si deve sottoporre ad anni di lezioni canore, trasformando in sostanza tutta la sua vita in una performance continua. Ma spesso non c’è da attendersi toni così elevati o riferimenti alla cultura alta. È più la dimensione del cabaret, della rivista da teatro di periferia, con gag e ammiccamenti, a essere riesumata. È il caso di Tamy Ben-Tor, ad esempio, con i suoi repentini cambiamenti di personaggi e sommari travestimenti, non troppo lontani da quanto l’attrice Bice Valori faceva alcuni decenni fa.
Capita poi che certi semi crescano proprio dove sono stati piantati. Le performance triviali di Paul McCarthy e Mike Kelley hanno forse stimolato in area losangelina una tendenza performativa che attraversa i generi e prende a piene mani dagli stili deteriori del varietà e dell’avanspettacolo. Scoli Acosta costruisce set con oggetti di riciclo, inscenando, tra il mimo e il pagliaccio, narrazioni surreali che mescolano storia e immaginazione, vicende personali e letteratura. Un vecchio villaggio celebre per un grande cratere formato da un meteorite viene distrutto da un ciclone, che poi, nella dimensione casalinga dell’operazione, non può che essere un sacco di nylon azionato da un ventilatore. I My Barbarian cantano e danzano, raccontando ironiche vicende generalmente connesse al luogo in cui si trovano, come una sorta di musical site specific. Di volta in volta sono cowboy, boss della malavita, uomini preistorici, antichi reti e antichi romani: sono come attori che si fingono artisti che fingono di essere attori. Ma questi generi ibridi, che prelevano a man bassa dalla cultura della rivista, dei B movies o del teatro di strada, si allargano anche in altre parti del mondo. Lewis Colburn, altro statunitense, attivo a New York, realizza performance che riecheggiano le vecchie comiche, in cui l’artista si dà a tagliare e incollare grossi frutti, oppure inscena una surreale audizione musicale. Non manca poi chi si insinua tra le onde dei format televisivi. Matthieu Laurette, per esempio, crea una sorta di gioco a premi, che dell’inconsistenza dei programmi televisivi mantiene tutta la sostanza.